L’eremita delle ossa
![](https://www.nazioneindiana.com/wp-content/2024/12/inverno.jpg)
(Questo racconto contiene testi espliciti e riferimenti alla violenza. Se ne sconsiglia la lettura a un pubblico non adulto, e a chiunque possa sentirsi offeso.)
di Enrico Di Coste
Fernando, aggiungi altre ossa.
Stanno per finire. Perché ti ostini, Monica?
Ne abbiamo bisogno ora.
Ce ne pentiremo. Fernando sospirò, e cedette.
Un gemito. Nicolas. In camera da letto. Accorsero.
No. Per favore.
Camila.
Scoprirono il sollievo inumano dell’annientamento dopo la veglia senza fine. Uccisero la propria figlia per la seconda volta.
Quando Fernando e Monica uscirono dalla stanza, Nicolas posò un bacio sulle labbra secche della sorella che non era più.
Le settimane riservarono ai Gutierrez l’estenuazione dell’insonnia. Nicolas non sapeva se lasciar vincere la voce che lo attanagliava. Quella voce suggeriva che raggiungere Camila fosse l’unico gesto sensato da compiere.
Non la assecondò. Fece capolino il sibilo della ragione: doveva perseverare. L’inverno della coscienza avrebbe abdicato al proprio regno. L’inverno fuori, che durava da decenni, mai.
Vado a Magondo per cercare provviste. Magari riesco a comprare ossa.
Sei l’unico figlio che mi è rimasto.
Lo so. Ma dobbiamo farci forza.
Non l’abbiamo fatto?
Lasciamo perdere, disse Fernando. Prendi il fucile.
Guardò il figlio. Uno zaino stracolmo di roba, due maglioni, un giubbotto consunto.
Indossa un cappotto in più, Cristo!
Appena fu solo, Nicolas si concesse la prima lacrima dalla morte di Camila. Ghiacciò sullo zigomo al primo passo nel gelo. Non poteva farsi vedere così. Non doveva. Per loro, per conferire senso a ciò che calpesta ogni senso possibile.
Imperversava un vento di morte.
Uno, due, tre, cento passi in un mondo rassegnato all’apocalisse come a una necessità incagliata nel tessuto dell’essere.
Tremava. Non per il freddo, ma per le ronde dell’Escuadrón de la muerte. Quando l’imprevedibile si fa abitudine e soggioga ogni pensiero, si può solo zittire di fronte alla trama delle cose.
Stavolta è la mia volta.
Nessuno sapeva quanti fossero sopravvissuti. Le abitazioni agibili erano occupate per chilometri. I beni primari si ottenevano con immane fatica. Le trattative con i forestieri si concludevano quasi sempre tramite baratto. Ogni barlume di civiltà annichilito dallo sciacallaggio, il denaro un indecifrabile ricordo.
L’Escuadrón non glissava su anima viva. Le ossa erano merce imprescindibile dinanzi la glaciazione, e dovunque fosse corpo d’uomo v’era potenziale guadagno. I rastrellamenti non suscitavano scalpore, morti o vivi faceva lo stesso.
L’anarchia muta l’ovvio in risorsa introvabile.
Le ossa, perlomeno finché la popolazione non fosse stata irrimediabilmente decimata, erano una risorsa molto più economica della legna, inestimabile perché sepolta sotto ataviche coltri di ghiaccio.
La sgommata di un’auto in avvicinamento.
Tu. Sì, tu. Hai degli zaini. Qui, subito.
Nicolas cessò di pensare. Obbedire e temere, imperativi di un’epoca irredimibile.
Vi prego. Sto solo cercando gente con cui barattare.
Non hai capito la musica. Facciamo quel che ci pare.
Non potete, non delle persone.
Soprattutto delle persone. Certo che hai fegato. Vieni. Adesso.
Non mi muovo di qui.
Sei simpatico, faremo un’eccezione per te. Però ti lasciamo un ricordino, ce lo concedi, vero?
Fate quel che dovete.
Nicolas si stese sulla terra gelida. Lo pestarono. Gli rubarono lo zaino. Furto categoria obsoleta, sradicata dai cuori prima che dalla mente.
Canta: dove sono gli altri? Voglio la canzone intera. Ti facciamo un favore, dopotutto. Ti leviamo un peso di dosso.
Nicolas sputò in faccia allo squadrista.
Violarono le carni, squadernarono ogni anfratto d’intimità.
Un milione di anni dopo, si fermarono. Ti basta o dobbiamo continuare?
Nicolas cantò.
Non era così difficile, visto? Meglio tardi che mai.
Fottetevi.
Un’altra raffica di calci. Ripartirono.
Nicolas corse. Le fratture non contavano. Lo sperma tra le natiche non contava.
Arrivò. Solchi nel ghiaccio.
Entrò. Non c’erano. Anzi, c’erano. Un tappeto di pelle e viscere.
Una lettera intrisa di sangue. La grafia della madre. Precipitosa.
Stanno per scuoiarci, vogliono le ossa. Ti scongiuro, figlio mio, prenditi cura di te stesso. È meglio senza addio.
In camera da letto, qualcosa avvolto nelle coperte. Un’intuizione orrida. Scostò un lembo. Il corpo di Camila. L’aveva congelato nel baule dello scantinato, all’insaputa dei suoi. Aveva promesso che l’avrebbe seppellito da solo. Avevano accettato.
Strattonò le coperte. Era intatto. Le labbra e i seni profanati. E il resto del corpo.
È colpa mia. Non sono stato capace di buttarti via. Non potevi chiedermelo.
Il silenzio rispose senza rimproveri a cui potersi aggrappare.
Pulì Camila, la prese in braccio, uscì di casa, la poggiò supina sulla frigida crosta del mondo. Le accarezzò i capelli, passò un dito sulle labbra ancora vischiose. Le baciò un’ultima volta cercando di trattenerne il sapore.
Rientrò. Cercò la pistola di riserva nascosta sotto un asse del pavimento, la trovò.
Sostò, ascoltò il proprio respiro. Incarnò la scelta che si preparava da millenni tra l’abominio e un orizzonte inconoscibile.
Non fu in grado di piangere. Un milione di anni dopo, gettò la pistola.