Rock, amore, morte e follia… a Pomigliano d’Arco

di Gianfranco Di Fiore

“Non ho mai scritto un diario. Avevo già le mani impegnate a vivere la mia vita, a provarci perlomeno, quindi non ne ho mai tenuto uno. E non credo che riuscirei a farcela se dovessi rivivere ogni momento della mia vita. Ma è stato proprio questo aspetto che mi ha affascinato quando il mio amico Anthony mi ha chiesto per l’ennesima volta di scrivere un libro sulla mia vita. Dentro di me si è attivato lo strano meccanismo che scatta ogni volta che penso a qualcosa che sembra impossibile: devo farcela. Anche se significa rivivere tutti gli eventi dolorosi che la mia memoria selettiva riesce a recuperare”.

Così scriveva Mark Oliver Everett, in un libro meraviglioso di qualche anno fa. Ma in che modo stanno insieme il cantante degli Eels, una delle più grandi rock band della storia, nato in Virginia, figlio di un rinomato fisico quantistico… morto quando il figlio Mark aveva solo 18 anni, a cui questa star del rock moderno decise di dedicare un libro di memorie, e uno sconosciuto scrittore del sud Italia? Come si intrecciano le chitarre distorte e i sintetizzatori dissonanti e il vocoder e i testi di Beautiful Freak e Souljacker e la stesura di un album come Electro-Shock Blues e la fama di essere il mito musicale di Wim Wenders con i riccioli privi di ammortizzatore, le corse mattutine nella villa comunale, i blues randagi e acustici mai incisi e i casatielli, i panzarotti, le gite a Napoli la domenica mattina, i cori e le bandiere dello stadio Maradona e le giornate trascorse in libreria, a parlare di letteratura e musica e cinema orientale di Salvatore Toscano? Come si tengono insieme gli Appalachi e la Terra dei fuochi, la CIA e il Pentagono con gli stabilimenti dell’Alenia e dell’Alfasud e la chiesa di San Felice? Cosa lega una rockstar da 21 album e milioni di copie vendute, in tutto il mondo, e uno scugnizzo della periferia napoletana al suo esordio letterario? La morte, sicuramente, e un talento inafferrabile, non banale, non accademico, sano, puro e onesto. Perché, proprio come il cantante degli Eels, Salvatore Toscano a un certo punto della sua vita ha deciso che forse era arrivato anche per lui il momento di fare i conti con la morte, con la follia del dolore inaspettato e improvviso, con l’amore mai consumato né compreso nei confronti di un padre perso in fretta, all’età di 8 anni… Everett ne aveva 18 e poteva già mettere in musica, con la chitarra e il piano, le note e gli accordi grevi scritti su carta, le tonalità di un vuoto che solo dentro la pienezza della musica, e della scrittura ‒ o della musicalità delle armonie della riflessione profonda ‒ poteva trovare una spiegazione, un posto, una fragile espiazione.

“Mio padre muore giocando a pallone.

Mio padre muore circondato dai medici che partecipavano alla partita, resi impotenti dal suo infarto fulminante.

Mio padre muore nel campetto di calcio costruito accanto alla clinica in cui sono nato io, poi viene trasportato e intubato inutilmente in una stanza che poteva benissimo essere quella in cui mia madre mi ha partorito.

Mio padre muore in un Venerdì Santo, quando tutto il mondo cristiano è in lutto per la morte di Gesù che poi risorge a Pasqua.

Era così assurdo aspettarsi che risorgesse?”.

Così scrive invece Salvatore Toscano ‒ a un certo punto ‒ in quel memoir meraviglioso e dolcemente triste intitolato Gli stupidi e i furfanti, edito da Baldini+Castoldi. Ed è così insolita la forma e così irriverente e leggero lo stupore solido che questo libro genera nello spettatore, mentre lo trascina con disincanto nella forma di vita più atroce, più scura, più ingiusta, quella del lutto, di un lutto per altro mai realizzato, mai superato, mai vissuto per davvero, che scrive questo che poteva essere uno splendido incipit a pagina 133; perché non c’è ordine in questo diario/confessione, non c’è trama, non esiste alcun prima né alcun dopo da allineare; Gli stupidi e i furfanti è una discesa fra le ripide di un’infanzia negata, o forse sarebbe più giusto dire annegata in un mare di rimozioni, di silenzi, di paradossi, di giornate vissute in casa, nelle case dei parenti, in qualsiasi luogo che non fosse quello dell’accettazione, del dolore pieno, della presa di coscienza. La scrittura di Toscano viene fuori dalla pagina come un fluido magico, un incantesimo, ha la grande capacità di far sorridere e coinvolgere il lettore come solo le anime pulite e sgombre da qualsiasi appiglio cinico e di rancore verso il mondo sanno essere; e allora mentre Toscano ci accompagna per mano nei luoghi della sua infanzia, nelle case dei cugini musicisti, sulle rive delle coste calabresi infestate di fantasmi notturni, mentre ci porta sorridendo fin dentro la bara scoperta dove giacciono le ossa del padre, senza mai ingenerare pietà, morbosa malinconia, sofferenza, è in grado con l’altra mano – quella mancina, con cui da bambino scriveva prima che la sua maestra lo obbligasse a cambiare arto – con l’altra mano lui è capace di suonare un blues lento e inesorabile alla Clapton, di sospendere immagini e visioni e paesaggi dentro alla sua scrittura e organizzare uno strambo luna-park emozionale e visivo, fatto di citazioni e racconti musicali di artisti sconosciuti le cui armonie gli hanno permesso, nel tempo, non solo di rinunciare al dolore lacerante ma di costruire nella sua cameretta, nella casa che da sempre Toscano condivide con sua madre, lì alla periferia di Napoli, in una Pomigliano che a tratti sembra recuperare le sembianze dei grandi spazi della Virginia di Everett, con la sua mano sinistra, dicevo, Salvatore Toscano può mettere su con le parole un paesaggio buffo, colorato e assai significante, un racconto pieno di aneddoti e digressioni e paure innamorate con le quali il lettore non può che entrare in empatia.

Cosa vuol dire allora raccontare la morte, uscire dalla follia dei mancati ricordi, misurare l’amore, utilizzare il rock per riuscire finalmente a farsi carico del proprio lutto; cosa vuol dire per Toscano scrivere del proprio padre, ipotizzare la sua vita, cercare di esprimere più che il vuoto di una perdita subita a 8 anni la necessità di confessare il suo lungo silenzio, riguardo a una tale tragedia? Ecco che Gli stupidi e i furfanti assume le geometrie di una specie di girone dantesco/napoletano, le figure presenti nel libro vagano in uno spazio di attesa eterna, di sospensione mai tragica ma sempre disperante, colpevole in qualche modo, e i dettagli a cui Toscano si aggrappa, per rimontare pezzi di vita ed emozioni andate forse perdute appaiono sulla pagina come quei disperati frammenti di Dovlatov, quando nel suo romanzo La valigia ricostruisce la partenza e la fuga dalla Madre Russia attraverso una serie di oggetti riposti nel bagaglio, prima dell’inizio del viaggio. Ma lo si può immaginare, questo libro particolare, senza regole, come una versione depurata e tenera di L’anno scorso a Marienbad, proprio come nel film di Resnais non sappiamo quanto siano veri e certi i ricordi di Toscano, se le scene descritte con suo padre siano accadute davvero o siano solo una favola immaginata da un adulto ancora sofferente (come il bambino rimasto orfano).

A un certo punto, nel suo memoir, Mark Oliver Everett scrive:

“… Mia madre decise che era giunto il momento di organizzare il suo funerale. Non ne fece una tragedia. Affrontò la questione in modo molto pratico, come se fosse un compito semplice. Presi un blocco e scrissi le sue volontà: una cerimonia nella chiesa di Lewinsville Road, alcuni inni che le piacevano e niente discorsi. Soltanto la musica”.

Cosa decise, cosa fece, come reagì a 8 anni Salvatore Toscano al momento del funerale di suo padre? Non ve lo dico. Voglio dire però a questo scugnizzo di Pomigliano d’Arco, e sono certo che tutti i lettori di questo romanzo direbbero la stessa cosa, a lettura ultimata, che: “… Anche se questa è la prima volta che ci incontriamo, ho voglia di riabbracciarti”.

 

*

Foto: Salvatore Toscano

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia e storia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ora insegna in scuole d’architettura a Parigi e Versailles. Poesia Prove d’inconsistenza, in VI Quaderno italiano, Marcos y Marcos, 1998. Inventari, Zona 2001; finalista Premio Delfini 2001. La distrazione, Luca Sossella, 2008; premio Montano 2009. Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, Italic Pequod, 2013. La grande anitra, Oèdipus, 2013. Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016, collana Autoriale, Dot.Com Press, 2017. Il rumore è il messaggio, Diaforia, 2023. Prose Prati, in Prosa in prosa, volume collettivo, Le Lettere, 2009; Tic edizioni, 2020. Quando Kubrick inventò la fantascienza. 4 capricci su 2001, Camera Verde, 2011. Commiato da Andromeda, Valigie Rosse, 2011 (Premio Ciampi, 2011). I miei pezzi, in Ex.it Materiali fuori contesto, volume collettivo, La Colornese – Tielleci, 2013. Ollivud, Prufrock spa, 2018. Stralunati, Italo Svevo, 2022. Romanzi Parigi è un desiderio, Ponte Alle Grazie, 2016; finalista Premio Napoli 2017, Premio Bridge 2017. La vita adulta, Ponte Alle Grazie, 2021. Saggistica L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo, Dipartimento di Linguistica e Letterature comparate, Università di Cassino, 2003. La confusione è ancella della menzogna, edizione digitale, Quintadicopertina, 2012. La civiltà idiota. Saggi militanti, Valigie Rosse, 2018. Con Paolo Giovannetti ha curato il volume collettivo Teoria & poesia, Biblion, 2018. Traduzioni Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008, Metauro, 2009. È stato redattore delle riviste “Manocometa”, “Allegoria”, del sito GAMMM, della rivista e del sito “Alfabeta2”. È uno dei membri fondatori del blog Nazione Indiana e il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.
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