Immagini fantasma: Rimbaud, Michon, Proust, Carson

 

Hervé Guibert, Chambre de Mathieu, c. 1989; © Christine Guibert/Courtesy Les Douches la Galerie, Paris.

 

di Ornella Tajani

Nel 1981 Hervé Guibert ha dimostrato definitivamente le potenzialità del racconto di una foto in absentia: con L’Image fantôme l’autore crea un percorso fra scatti mai sviluppati, perduti o in via di decomposizione, in ogni caso invisibili a chi legge. Il supporto diventa irrilevante: in una scrittura di questo tipo, «che la fotografia di cui [si] parla sia vera o inesistente è esattamente la stessa cosa», anticipa Emanuele Trevi nell’introduzione all’edizione italiana (Contrasto, traduzione di Matteo Martelli).

Càpita spesso che un racconto prenda spunto da un’immagine, o che una narrazione incroci uno scatto fotografico; l’idea era alla base di un volumetto collettivo, uscito dieci anni fa per Donzelli, che esplorava in maniera eterogenea la pratica dell’ecfrasi: Nell’occhio di chi guarda, curato da Tilli Bertoni, Massimo Fusillo e Gianluigi Simonetti e recensito qui. Ma gli esempi sono numerosi.

In quella «biografia immaginaria» che è Rimbaud le fils (riedito in italiano per De Piante Editore a cura di Leo Ninor), Pierre Michon descrive il momento in cui Étienne Carjat immortala Rimbaud nel ritratto che passerà alla storia (e il cui originale pare sia andato perduto per romanzesche vicende; dev’essere il destino di una meteora: anche le poche foto scattate dal poeta in Etiopia si avviano a scomparire).

 

Michon immagina che, mentre sta posando, il poeta reciti mentalmente il Bateau ivre, e prova persino a indovinare a quale verso sia arrivato nel momento in cui il fotografo scatta:

Carjat revient avec les plaques, il a tombé le paletot. Il décoiffe le cylindre. Il est sous la cagoule noire. Rimbaud a écrit Le Bateau ivre comme s’il allait mourir c’est à cela qu’il pense, même si Le Bateau ivre n’est pas exactement la poésie, quand bien même il l’a limé au plus juste pour le Parnasse, tout de même il l’a fait. […] Entre lui et le brassard, entre lui et le puits, cascadent les cent vers du Bateau ivre. Il attaque par le début, il descend les fleuves impassibles, puis il court, puis il danse ; ses lèvres ne bougent pas ; sa mère se lève. Elle est penchée sur le lambeau, elle a écrit les cent vers définitifs du Parnasse, elle sanglote et tombe, elle se relève et triomphe. Elle plonge et vient comme un bouchon sur l’eau. De sous la cagoule noire Carjat dit de bouger un peu la tête, comme ceci, puis comme cela. Il fait comme on lui dit dans la tête qui bouge à peine les strophes impeccables, les strophes impassibles vers sur vers tombent, comme des vagues, comme du vent […]. Carjat déclenche […]. Rimbaud à cet instant regrette l’Europe.

Che cos’è questa se non una visione? Michon osserva Rimbaud con gli occhi di un biografo veggente, che non si prende sul serio tanto da spacciarci per vera questa scena, ma si prende sufficientemente sul serio da immaginare con una certa coerenza che Rimbaud, nel 1871, arrivato da poco a Parigi con in tasca Le Bateau ivre, il componimento concepito proprio «per piacere alla gente di Parigi», mentre aspetta immobile che Carjat compia il suo lavoro – si tratta pur sempre del fotografo che aveva immortalato anche Baudelaire – stia in realtà «sgranando le rime», come nel componimento Ma Bohème. I cento versi scandiscono questo momento così emblematico: il ritratto visivo, fotografico, del mito che verrà. Il testo di Michon continua nella pagina seguente, utilizzando frammenti celebri per descrivere il poeta che, alla fine della Saison en enfer, prevede di riuscire a possedere «la verità in un’anima e in un corpo».

Tout le monde connaît cet instant précis d’octobre. C’est la vérité peut-être, dans une âme et dans un corps […]. On ne voit que le corps. Et dans les vers, est-ce qu’on voit l’âme ? Le vent passe dans toute cette lumière.

Nei versi di Rimbaud si vede l’anima (almeno in parte) e nella prosa di Michon si riflettono autore e soggetto della biografia, facendo risuonare in tutto il volume, come notato da Jean-Pierre Richard, una «voix double».

Le voci si incrociano anche in un testo di Anne Carson, The Albertine Workout (apparso in inglese nel 2014, tradotto per Tlon da Giulio Silvano nel 2019, introduzione di Eleonora Marangoni), che ho letto nella traduzione francese dal suggestivo titolo Atelier Albertine. In questo piccolissimo libro Carson compie una serie di «esercizi» sul personaggio proustiano che «dorme nel 19% delle pagine del libro», provocando alcuni interessanti accostamenti nelle «appendici» finali.

 

 

Commentando ad esempio la foto di cui sopra, si chiede se ad Alfred Agostinelli abbia fatto male la nuca, mentre posava con la testa rovesciata all’indietro, forse per suggerire l’idea di velocità; o di cosa lui e Proust stessero parlando, mentre quel pomeriggio d’estate si allungava davanti a loro «fin dentro l’eternità». Il tempo, protagonista dell’opera proustiana, fa capolino anche nell’immobilità di uno scatto.

In realtà la lettura è frutto di un errore di interpretazione, in cui casca anche Carson sulla scorta di Jean-Yves Tadié: l’uomo accanto all’Agostinelli amato da Proust non è Proust bensì Odilon Albaret, marito di Céleste. È davvero così importante? Per ragioni storiche ed esattezza filologica, sì; ai fini di una scrittura creativa orchestrata intorno a un’immagine, molto meno. Mi sembra non si possa volerne troppo a Carson, che si è lasciata ispirare dal finto ritratto dei due amanti al punto da sceglierlo come chiusa del suo testo, e che in questa affabulazione ha trovato il modo di continuare a ragionare sull’opera proustiana con intelligenza. Il falso fotografico finisce qui col rappresentare una peculiare declinazione di image fantôme.

Ma c’è di meglio in questo atelier: il terzo paradosso di Zenone, ricorda Carson, sostiene che una freccia in volo non si muove, perché riempie completamente lo spazio di ogni attimo. Nessuno, commenta l’autrice, potrebbe negare che la Recherche sia costituita di frecce che partono in ogni direzione, ma parallelamente il romanzo proustiano può essere interpretato come un immenso attimo dilatato, poiché il narratore ha bisogno di migliaia di pagine per arrivare al punto iniziale, in cui comincia a scrivere le livre à venir; e tuttavia in quel momento Proust supera Zenone, perché scocca una freccia che, in qualche modo, va a ritroso nel tempo.
Dopo questa riflessione Carson ammette di non riuscire a pensare troppo a lungo a Zenone senza percepire un principio di emicrania e così, per sparigliare le carte, cita il «devoto proustiano» Chris Marker:

C’est ainsi qu’avance l’histoire, en se bouchant la mémoire comme on se bouche les oreilles […] un instant arrêté grillerait comme l’image d’un film bloquée devant la fournaise du projecteur (da Sans soleil).

Ho già detto di come sia facile precipitare dentro certe frasi di Chris Marker. Qui accade lo stesso, e in fondo l’attimo immobile di cui si parla, che rischia di bruciare l’intera pellicola (o l’intera narrazione), mi sembra proprio il motivo che spinge tanti autori a descrivere, commentare, attraversare le foto: forse perché, come concludeva Stefano Chiodi nella postfazione al volume Donzelli citato, ciò che vediamo «tende a scadere nel puro riflesso se non è rinnovato, vivificato» dalla parola scritta. Un simile rinnovamento è ancor più percepibile nel caso di un’immagine assente: il racconto permette di non costringerla in una vincolante associazione con il testo, di non chiuderla in una cornice, ma di liberarla e moltiplicarla all’infinito, in tante varietà di forme quanti sono gli universi immaginifici di chi legge.

 

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ornella tajani
ornella tajani
Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa prevalentemente di studi di traduzione e di letteratura francese del XX secolo. È autrice dei libri Tradurre il pastiche (Mucchi, 2018) e Après Berman. Des études de cas pour une critique des traductions littéraires (ETS, 2021). Ha tradotto, fra vari autori, le Opere di Rimbaud per Marsilio (2019), e curato i volumi: Il battello ebbro (Mucchi, 2019); L'aquila a due teste di Jean Cocteau (Marchese 2011 - premio di traduzione Monselice "Leone Traverso" 2012); Tiresia di Marcel Jouhandeau (Marchese 2013). Oltre alle pubblicazioni abituali, per Nazione Indiana cura la rubrica Mots-clés, aperta ai contributi di lettori e lettrici.
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