L’Avana. La rivoluzione tradita
di Alimaj
C’è una battuta sulla crisi demografica e le ricorrenti emorragie migratorie che circola da decine di anni a Cuba: el último que apague el Morro, ovvero l’ultimo (che lascia l’isola) spenga la luce del faro al Castillo del Morro, la fortezza spagnola cinquecentesca che troneggia sulla baia de L’Avana. Secondo Pablo Socorro, giornalista, a Miami dal 1996, e autore di un libro dal titolo omonimo che racconta dieci storie di esilio da Cuba, la paternità del motto di spirito deve essere attribuita al popolo uruguyano. Negli anni Sessanta, infatti, decine di migliaia di uruguayani emigrarono in massa verso l’Argentina in cerca di fortuna. Nell’aeroporto Carrasco di Montevideo comparve allora la scritta “El último que apague la luz”. C’è chi sostiene, invece, che sia un’invenzione cubana risalente all’epoca della crisi dei balseros del 1995, anno in cui, a causa del collasso economico che fece seguito alla frantumazione del blocco sovietico, e approfittando del via libera di Fidel Castro all’esodo, oltre 125mila persone fuggirono dal porto di Mariel saltando a bordo di fragili imbarcazioni improvvisate dirette verso la Florida a poco più di un centinaio di chilometri.
Poco importa se si tratti davvero del frutto dell’umorismo cubano; a Cuba, dove il desiderio di fuga è palpabile, soprattutto tra la giovani generazioni, l’espressione calza a pennello, ed è tornata in voga rimbalzando sui social media dopo il black out del 18 ottobre che ha lasciato al buio tutta l’isola per qualche giorno – “Ma non eri l’ultimo, siamo ancora in tanti qua, riaccendi per favore!”.
Dal 18 ottobre ad oggi le interruzioni di corrente, parziali o totali, di un’intera giornata o di qualche ora, si sono ripetute con frequenza. Da una parte, l’avaria continua delle sette vetuste centrali termoelettriche, dall’altra la carenza di combustibile che lascia a secco i trenta generatori di cui dispone il paese. “È una questione matematica”, spiega Adalberto, ingegnere presso la Empresa de Construcciones de la Industria Eléctrica (ECIE). “Se l’isola ha bisogno di 3000 MW e la capacità di generazione riesce a garantirne poco meno della metà, c’è metà della rete che non potrà funzionare”. Gli operatori dell’ECIE e dell’EMCE (Empresa de Mantenimiento a Centrales Eléctricas) lavorano in stato di emergenza permanente. Nel frattempo il ministero dell’Energia e delle Miniere da alcuni anni sta tentando di espandere lo sfruttamento delle energie rinnovabili. Nella provincia orientale di Holguín ci sono già due grandi parchi eolici, e altrettanti sono in procinto di essere costruiti. L’energia fotovoltaica, invece, rappresenta ancora un apporto assai limitato al fabbisogno nazionale. I tre stabilimenti fotovoltaici donati dalla Cina – La Criolla a Villa Clara, il Morón a Ciego de Ávila e il Miramar a Holguín – producono in totale soltanto 12 MW. “Non è con il fotovoltaico che riusciremo a cavarcela, purtroppo, ma è un peccato, visto che di sole ne abbiamo tanto, no?”.
Adalberto è in procinto di partire in missione con la sua squadra verso l’est, a bordo di un pulmino bianco che passa a prenderlo di fronte alla sede dell’ECIE nel centro de L’Avana. L’indirizzo, Tejadillo 57-59, è curiosamente lo stesso dello studio da avvocato del giovane Fidel Castro, che si trova al piano superiore ed è conservato come una reliquia da oltre settant’anni, perciò non visitabile, ma solo reperibile grazie a una targa commemorativa discreta affissa sulla facciata dell’edificio.
“Se ci fosse stato lui”, ammette Rolando, rammaricato, alludendo a Fidel con un gesto che ne mima la barba, “non staremmo in questa situazione, perché lui non avrebbe mai lasciato il suo popolo in questo stato, senza acqua né luce”. Poi tira fuori dal portafoglio una foto da giovane con Raúl Castro, e confessa a malincuore che nemmeno Raúl da presidente è mai stato all’altezza di suo fratello. Ex impiegato delle poste, Rolando si è dimesso nei primi anni duemila e ha poi lavorato per tanti anni nelle cucine degli alberghi di Varadero per mettere da parte i soldi e comprarsi finalmente una Cadillac decappottabile usata, rosa smagliante, con cui trasporta in giro turisti nostalgici. “Agli americani soprattutto piacciono da morire queste macchine, perché negli anni Cinquanta erano le loro. Si mettono un cappello di paglia, un sigaro in bocca e via, tutto è amazing!”.
L’Avana pullula di macchine d’epoca, alla faccia dell’obsolescenza programmata: dalle Cadillac, Buick, Chevrolet, Pontiac, Mercury che sfrecciano sul lungomare, il Malecon, scarrozzando turisti, alle Fiat 126, Lada e Maggiolini privati, spesso riconvertiti in taxi collettivi per i locali. Rolando non ce l’ha affatto con i turisti, anzi rimpiange che dalla pandemia in poi le cifre siano andate scemando in picchiata, da 5 milioni a 1 e mezzo. “Cuba è sempre stata un paradiso per il turismo. Ce n’è per tutti i gusti, per chi viene a prendere il sole e riposarsi, e per chi viene a divertirsi con le ragazze. Perché qui anche las chicas hanno la laurea, conoscono la storia e ti fanno girare la città come guide professioniste”.
Nei primi anni Novanta, durante il cosiddetto periodo speciale quando in seguito al crollo dell’URSS, il PIL del paese in caduta libera diminuì del 35%, il governo cubano aveva cominciato a puntare tutto sul turismo, fino a fare dell’isola la terza meta dei Caraibi dopo Santo Domingo e Cancún. In quegli anni, per far fronte alla crisi economica dilagante, Castro aveva aperto ai colossi dell’hôtellerie internazionale, consentendo delle joint ventures con il capitale di stato, e creando nel 1994 il Mintur, il ministero del Turismo. In quello stesso periodo fu legalizzato il dollaro e consentita la creazione di piccole aziende private, benché solo in alcuni settori, tra cui la ristorazione. L’avvento del turismo di massa, però, aveva funzionato un po’ come una macchina del tempo, nonostante la costruzione di complessi alberghieri ultramoderni. Il dollaro era di ritorno, insieme agli americani in vacanza in camicie hawaiane, i night-club e il sesso a pagamento. Un tuffo indietro negli anni Cinquanta, ma senza i casinò, la droga e la malavita organizzata.
I vecchi alberghi di L’Avana ancora raccontano quella storia a cui la Rivoluzione ha messo drasticamente fine e che però poi sembra quasi essere ritornata in auge. Il più antico di tutti è l’Hotel Inglaterra, sul Paseo del Prado di fronte al Parque Central. Costruito nel 1875 dall’architetto Juan de Villamil, ex tenente colonnello dell’esercito in pensione, con la Gran Bretagna non ha nulla a che vedere e anzi ostenta i fasti della bella époque spagnola. L’Hotel Habana Riviera, invece, è un esempio tipico dell’architettura cubana degli anni cinquanta, cementosa e prepotentemente verticale. Gli anni Cinquanta, infatti, segnano il boom dell’edilizia alberghiera in seguito alla promulgazione da parte dell’allora dittatore Fulgencio Batista della Hotel Law 2074 che regalava incentivi fiscali e license per i casinò ai costruttori di grand hotel e night-club. Inaugurato nel 1957 con la presenza di star hollywodiane come Ginger Rogers e Lou Costello e altri illustri rappresentanti della mafia nordamericana, l’Habana Riviera ospitava un enorme casinò, il più grande di tutta Cuba, gestito da Meyer Lansky, boss della mafia statunitense sull’isola.
Nel 1957 fu inaugurato anche un altro famoso hotel collegato alla presenza della malavita organizzata a Cuba, l’Hotel Deauville, nei pressi del lungomare e di proprietà di Santo Trafficante Jr, come anche l’Hotel Capri, l’Hotel Comodoro e il casinò Sans Souci.
Poco dopo, però, con l’avvento della Rivoluzione, tutte le proprietà di Trafficante sarebbero state confiscate dallo Stato e il boss, originario della Florida, espulso dall’isola in quanto persona non grata, a sua volta, nel 1961, avrebbe collaborato con la CIA a uno dei numerosi tentativi di assassinare Castro per avvelenamento.
Ma l’hotel più emblematicamente intrecciato alla storia della Rivoluzione è l’Habana Libre, che nel gennaio del 1959 – un anno dopo la sua apertura – accolse Castro e le sue truppe in arrivo nella capitale con la barba lunga e le armi in pugno, come ritratti nelle poche foto d’epoca che testimoniano dello sbarco dei barbudos in quello che al tempo era ancora l’Hotel Hilton, presto nazionalizzato e ribattezzato.
Da allora La Castellana, la suite 2324 in cui Castro, Celia Sánchez e una decina di altri membri dell’Esercito Ribelle festeggiarono l’8 gennaio l’avvento della Rivoluzione a L’Avana, sarebbe diventata il quartiere generale dal nuovo presidente in visita in città e la sede da lui prescelta per ospitare eventi epocali come la firma della seconda riforma agraria nel 1963 e l’organizzazione della Tricontinental nel 1966.
L’albergo, eletto da Castro a simbolo della Rivoluzione e del nuovo corso, era stato fino a poco prima – per l’esattezza fino alla sua fuga da Cuba il 1 gennaio 1959 mentre nella sala da ballo dell’hotel la buona società cubana celebrava il capodanno, un trofeo di Batista: la dimostrazione che Conrad Hilton, il magnate statunitense dell’hôtellerie, aveva fiducia nel futuro prospero dell’isola. Occupando l’Hilton Castro occupava l’emblema della Cuba che era e che non sarebbe più stata, e insieme un avamposto strategico, uno degli edifici più alti de L’Avana con un’incredibile vista su tutta la città fino al mare.
La Rivoluzione avrebbe segnato la fine della dolce vita cubana per il capitale e il turismo nordamericano: la fine della notti brave sul Miramar, di cui l’Hotel Nacional, maestoso complesso extra lusso edificato negli anni 1930, era la vetrina più vistosa.
A distanza di oltre sessant’anni però, il Vedado, il quartiere dove sorge per l’appunto l’Habana Libre, è tornato ad essere il barrio mondano dei club e dei cinema, dei bar e dei ristoranti, non solo per turisti, ma anche per un’élite di nuovi ricchi cubani che degustano ceviche bevendo birre rigorosamente d’importazione e consumando in una serata il salario mensile di un direttore di scuola media.
Questa è la Cuba che Nene non avrebbe mai voluto vedere. A L’ Avana da due anni, Nene è originario della provincia di Santiago che ha abbandonato, perché dice che è diventata un cimitero. Figlio di contadini in pensione, a cui la pensione consente appena di sopravvivere, Nene dispera di vedere il suo paese degradarsi così. “Per noi afrocubani la rivoluzione è stata la vera fine della schiavitù. I neri di Santiago erano quelli che lavoravano nelle piantagioni, a differenza dei neri di L’ Avana impiegati prevalentemente come domestici nelle case dei bianchi. La mia famiglia viene da quella storia lì, e per i miei è stata una cosa assolutamente incredibile che io e mio fratello siamo andati all’università. Anche se all’università alla fine poi ci andavano tutti, perché era cosi che funzionava prima. Non so ora se i miei figli vorranno studiare, ne dubito. I ragazzi sognano di andarsene, oppure magari di lavorare con il turismo per guadagnare meglio”. Da quando è a L’Avana Nene si mantiene facendo consegne a domicilio in città. Così, bussando alle porte del Vedado, ha potuto vedere da vicino le facce di questa nuova classe agiata che vive in un mondo parallelo e distantissimo dalla grande maggioranza della popolazione.
Per chi come lui è stato giovane durante il boom della rivoluzione, alla fine degli anni Settanta-inizio anni Ottanta, quando con la juventud comunista si viaggiava in giro per il mondo, e quando a scuola si impartivano corsi di marxismo e leninismo, la Cuba di oggi è irriconoscibile. Non ha nessuna fiducia nel presidente Díaz-Canel e nemmeno nel suo vice, Salvador Valdés Mesa, primo afrocubano a ricoprire un incarico di questo rango. Teme soprattutto che la situazione attuale sia esplosiva. “La gente è stanca di resistere, perché sono anni che il governo ci chiede di resistere. Ed è anche disgustata nel constatare che c’è chi va avanti a malapena a riso e chícharos, e chi fa la bella vita. Quando le cose si mettono così, non promette bene, rischiamo la guerra civile”.
Al vertice della Rampa, la avenida 23, la gelateria statale Coppelia, un immenso ufo di colore azzurro avvolto in un giardino verdeggiante all’ingresso del quale troneggia la scritta La Habana real y maravillosa, non è più la cattedrale del gelato che fu, nonostante la fama internazionale a cui l’aveva consacrata nel 1993 il film Fragole e cioccolato.
Voluta personalmente da Fidel nel 1966 per offrire ai cubani una varietà infinita di gusti e battezzata in onore del suo balletto classico preferito, Coppelia contava qualche centinaia di dipendenti e serviva decine di migliaia di gelati al giorno. Ma le interruzioni di corrente che da anni interessano il paese hanno progressivamente tarpato le ali e le ambizioni della gelateria, che negli anni si è vista costretta a ridurre drasticamente l’offerta di gelato.
A pochi passi da Coppelia e proprio di fronte all’Habana Libre, svetta una edificio di 152 metri che per ragioni comprensibili ha catalizzato l’ostilità degli habaneros. Si tratta di un hotel 5 stelle (42 piani e 565 stanze) in cui il governo ha investito 17mila milioni di pesos e che è in costruzione dal 2018. C’è chi dice che è come un pugnale conficcato nello skyline di L’Avana, ma anche un affronto sfrontato alle ristrettezze in cui vive la popolazione. Alla guida di questo progetto, fino alla sua morte inaspettata nel 2022, c’era Luis Alberto Rodríguez López-Calleja, ex generale dell’esercito riconvertito in dirigente d’impresa – la GAESA, il grande consorzio aziendale gestito dalle Forze armate rivoluzionarie – ed ex marito della figlia di Raúl Castro. Quando basta per rendere la Torre K un’iniziativa più che chiacchierata.
A ciò si aggiunge il fatto che i lavoratori impiegati sul cantiere del gruppo francese Bouygues Bâtiment International sono per la maggior parte bengalesi. Maria, un’ingegnera che durante la pausa pranzo legge Los Trabajadores, la testata ufficiale del sindacato nazionale, si rivolge a loro in spagnolo. “Capiscono abbastanza, perché sono qui da mesi. Lavorano tantissimo e con contratti che non sarebbero possibili per noi cubani, perciò li hanno fatti venire da fuori. Ma li pagano più di quanto non ci pagherebbero”. Maria è di poche parole e si esime dal dire cosa pensi. Forse nemmeno lei riesce a capire fino in fondo perché un governo che fatica a sfamare il popolo possa lanciarsi in un progetto del genere. Qui si lavora incessantemente, anche durante i black out, mentre il resto dell’isola è sospesa nel limbo dell’inattività, perché la corrente è sempre garantita dai generatori dell’Hager group, multinazionale originariamente tedesca che sul proprio sito vanta la Torre K come un fiore all’occhiello.
Qui si lavorava perfino il 28 ottobre, mentre Cuba celebrava il terzo e forse più amato eroe della rivoluzione prematuramente scomparso. “Camilo Cienfuegos era il migliore, un uomo del popolo, mentre Raùl e Guevara erano due sanguinari, lo sanno tutti”. A Juan lo ha raccontato suo padre, comunista appassionato e poi disamorato del castrismo dopo la morte di Fidel, e sua nonna, 101 anni, che la sa lunga più di chiunque altro. “Mio padre sì, era comunista, io non lo so cosa sono. Sono soprattutto stufo della situazione di questo paese”. Juan lavora in una tienda del estado ne l’Avana vecchia in cui la carne appena arriva va a ruba, e restano in bella mostra soltanto pochi detergenti venduti a caro prezzo.
In negozio da mesi non c’è quasi mai da lavorare, perché non c’e tristemente nulla da vendere. Allora Juan ha avviato un attività commerciale, organizza fiere di artigianato locale per turisti. Il suo sogno è comprarsi una macchina d’epoca e scarrozzare i visitatori, perché così si fanno i soldi, a meno che non li mandino le famiglie dall’estero. A sua moglie Raquel, invece, piacerebbe poter lanciare una piccola impresa di vendita al dettaglio, una delle tanto vituperate mypimes che pullulano in città e ostentano un’abbondanza sfrontata che cozza crudelmente con la penuria che si respira in giro. Juan e Raquel non hanno figli e ringraziano il cielo perché alcuni tra i figli dei loro amici nel corso dell’ultimo anno e mezzo hanno preso la strada dell’esilio, ma soltanto alcuni sono arrivati a destinazione passando per il Messico, mentre altri sono stati dati per dispersi. “Per chi ci riesce però poi è bingo: possono mandare dei soldi alla famiglia che può cominciare fare import/export, ed è tutta un’altra vita”, spiega Raquel. Il paradosso di Cuba infatti è che mentre lo stato subisce da più di mezzo secolo un embargo asfissiante, ampiamente contestato anche in occasione dell’ultimo voto del 30 ottobre all’Assemblea dell’ONU (solo Usa e Israele a favore), ai privati è consentito di acquistare la merce made in Usa. Così, mentre nel paradiso socialista della canna da zucchero, che fu in origine l’inferno delle piantagioni schiaviste, oggi lo zucchero scarseggia ed è praticamente assente dalla canasta mensile, i cookies si vendono a prezzi folli nei nuovi negozi dei nuovi ricchi, tutti scintillanti e climatizzati.
“La rivoluzione non è una pranzo di gala, ma nemmeno la denutrizione”, ironizza Esteban, insegnante sulla cinquantina. “Non è che non ci tenga alla Rivoluzione, anzi la amo la Rivoluzione, la amiamo tutti. Però Díaz-Canel non ha nulla a che vedere con la Rivoluzione e parla a vanvera. Dice che la sovranità è la cosa più importante, ma purtroppo non ci riempie lo stomaco. Dice che siamo un popolo di luchadores e dobbiamo continuare a lottare, ma come fai a dirlo ai contadini che non ricevono le provviste da due mesi?”. Esteban si preoccupa per le giovani generazioni, i ragazzi e ragazze che accoglie ogni giorno sui banchi di scuola. Dice che è difficile trasmettere loro l’entusiasmo per una storia che non corrisponde neanche lontanamente a quel che vedono e vivono ogni giorno.
A sessantacinque anni di distanza, la memoria storica della rivoluzione perde colore, come sbiadiscono sui muri della città, tra bloqueo, uragani e black out, i volti del Che, i Patria o Muerte, i Venceremos.
Pablo, studente di storia all’Università de L’ Avana prossimo alla laurea e membro della Unión de Jóvenes Comunistas, fa parte di quei millennials cubani che, nonostante tutto e sebbene spesso in disaccordo con il Partito, vogliono continuare a darsi da fare per riscattare la memoria della rivoluzione. “Ma non sono l’unico, davvero. Non è che tutti i ventenni qui sognano l’America. Alcuni, come me, preferiscono la rivoluzione alla restaurazione, e credono ancora nel valore della giustizia e dell’uguaglianza socialista. Questo però non significa essere ciechi alla crisi”.
Pablo ritiene che la soluzione della crisi, morale e politica oltre che economica, non debba essere poliziesca né repressiva da parte del governo. Se la popolazione s’interessa sempre meno alla cosa pubblica, si tratta di riattivare un desiderio di condivisione e gestione del comune che il via libera alle privatizzazioni, nel corso degli ultimi anni, ha soltanto contribuito a sotterrare. Quel desiderio è manifestamente scomparso. “C’è un calo del desiderio, senza dubbio e allora che si fa?”. Pablo, nonostante tutto, sembra non disperare: la speranza è risvegliare quell’orgoglio rivoluzionario, così vivo e potente nella memoria dei cubani delle generazioni precedenti, che per decenni è stato il vero bastione del socialismo a Cuba.
Grazie, un bel reportage; interessante leggere un pezzo di Cuba anche attraverso la storia di alcuni grandi alberghi.
A chi passasse di qui, segnalo un film italo-cubano del 2023: Gli oceani sono i veri continenti (il titolo originale è in spagnolo), di Tommaso Santambrogio, che tematizza in tre storie l’attuale e cocente questione dell’esilio da Cuba. È un film bellissimo.