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Clarice Lispector a Berna

Cristina Vezzaro intervista Roberto Francavilla

La traduttrice Cristina Vezzaro intervista il collega Roberto Francavilla a proposito di Clarice Lispector, protagonista del suo romanzo “Città senza demoni” (Feltrinelli, 2024)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cristina Vezzaro: Il romanzo apre con un ricordo che è rimorso e nostalgia, ma trasmette anche subito un senso di colpa e abbandono. È un incipit d’autore, con un’immagine molto a fuoco della protagonista. Chi è la donna che si risveglia nella primavera del 1946 in una casa di Berna?

Roberto Francavilla: È una giovane donna a cui la vita ha già dato e tolto tantissimo: le ha dato un successo precoce nelle lettere del suo paese con un romanzo di debutto straordinario, le ha dato fascino e bellezza, le ha dato una lingua trasformata in patria; ma l’ha segnata con un trauma nella prima infanzia. È una donna profondamente inquieta e in perenne ricerca. Una donna che tende a simbolizzare all’estremo la realtà che la circonda illudendosi di poterla così afferrare. E in “quei due anni” in cui ne descrivo le pieghe, una donna in affanno, pervasa da una cocente solitudine e dall’attacco di una sottile depressione che le sta sempre accanto, in agguato, tenendole subdolamente la mano. Anche l’amore, come il paesaggio e come la sua vita sociale, anziché completarla, sembra volerla ulteriormente minare. Il dolore è lì, pronto a scarnificarla, tenuto a bada a fatica attraverso proiezioni metafisiche, redazione di lettere infinite, concerti di musica classica, rare complicità amicali. Il resto è nostalgia, anzi, saudade.

CV: In una festa di fitzgeraldiana memoria all’inizio del romanzo emerge un senso di solitudine molto forte di Clarice. Come hai immaginato i vari personaggi che via via le rimandano la sua condizione?

RF: Attorno a lei si muove la buona società bernese perché le circostanze lo impongono. È moglie di un diplomatico. Frequenta i ricevimenti, i cocktail, i teatri. Osserva quel mondo cogliendone il vuoto e le vanità. Ma non si ritrae. La sua accettazione è mediata e forse in qualche modo compensata dal suo interesse per la varia umanità. Chi la circonda ha comunque qualcosa da offrirle: dalla frivolezza tutta borghese di certi rituali all’ipotesi di costruire amicizie profonde; dalle sollecitazioni vagamente “esotiste” che la sua origine brasiliana suscita immancabilmente a inevitabili meccanismi seduttivi. I personaggi che ho inventato incarnano e offrono tutto questo. I rapporti che Clarice-personaggio intesse con ognuno di essi è una variante sul tema della relazione interpersonale. Ci sono stima e sodalizio ma anche sottile invidia; cedimenti al cospetto del suo fascino ma anche lo sguardo vagamente sospettoso che si riserva all’artista, al potenziale sovversivo, all’eccentrico. Nonostante il suo encomiabile rispetto dei ruoli, Clarice in quel dopoguerra bernese è una mina vagante.

CV: Benché Clarice sia in un paese per lei esotico, voci, suoni, melodie non sono mai preludio di nuove scoperte, bensì richiamo e nostalgia. Analogamente, le pagine del romanzo sono costantemente attraversate da un gioco di luci e ombre: al qui corrisponde un altrove, alla presenza un’assenza, la narrazione sembra evocare un’esistenza in controluce, proprio come l’immagine in copertina.

RF: C’è un oggetto che può essere facilmente sistemato nell’archivio del metafisico (non è l’unico) in “Città senza demoni”, e questo oggetto è la radio. Le voci che ne fuoriescono possiedono un valore medianico, permettono di trasportarsi altrove, facilitano transiti insperati ed epifanici. Clarice non parla lo svizzero tedesco di Berna e le parole in quella lingua le arrivano come impasti pronti a essere disfatti, scomposti e ricostruiti (in un caso addirittura in forma di anagrammi). La lingua spezzettata è un’allegoria di un universo altrettanto spezzettato in cui le è impossibile cogliere l’unicità e l’armonia. Solo frammenti, brandelli. E poi c’è la musica, portatrice anch’essa di memoria. E la memoria in sé, che è uno dei principali fili conduttori del romanzo. Non solo l’infanzia brasiliana e la figura del padre, ma anche quella porzione di gioventù che il tempo ha divorato in un attimo.

CV: Sebbene disponga di una stanza tutta per sé, la scrittrice è in preda ai ghiacciai apparentemente incorruttibili della città e al velato controllo del marito. Il suo pensiero corre così in continuazione alla neve, che si scioglie e cancella ogni traccia, ogni orma.

RF: Il paesaggio è l’altra materia imprendibile. Dovrebbe essere dominante in tutta la sua bellezza e imponenza: i ghiacciai svizzeri, un immaginario paesaggistico definito per eccellenza dalla pittura, un topos del vedutismo. E invece le Alpi sono le sbarre incombenti di una gabbia. I ghiacciai potrebbero sciogliersi in acqua, l’acqua potrebbe invadere tutto, come un incontenibile flusso vitale (anche erotico) contro cui Clarice si ostina a erigere dighe immaginarie, credendo di potersi proteggere e di poter evitare la sua stessa trasformazione in quel flusso. C’è un patto silenzioso, estremamente fragile e destinato a interrompersi (ma questo accadrà fuori romanzo e dunque nella biografia reale di Clarice) fra lei e il marito, il buon Maury. Tenersi per mano e non naufragare. Il patto regge finché regge la portata del compromesso, l’accettazione apparentemente serena, la finzione con cui si ignora il non detto che scava in silenzio erodendo quella patina sottile e tuttavia ben architettata. La patina si lucida in un breve periodo parigino che sembra illuminare il grigiore bernese, ma è l’effimero di un fuoco d’artificio.

CV: Gli orrori della guerra sono solo accennati, la protagonista li avverte più che altro a Napoli, a Parigi o a Lisbona, nella neutrale svizzera non sono che un’eco lontana e ambigua che pure le rimanda un sentimento antisemita, e in lei divampano ricordi, impossibili perché precedenti l’età della ragione, dello shtetl abbandonato dal padre.

RF: Il trauma è il segno indelebile. La fuga di Clarice in braccio alla madre: si chiama ancora Chaya, alle sue spalle il suo shtetl ucraino bruciato nel pogrom. Quello è il suo inizio. Tuttavia, Clarice attraversa gli anni della Seconda Guerra Mondiale in un territorio sospeso. Va a Lisbona, capitale di un paese neutrale, e poi a Napoli, quando il conflitto è alla fine (De Chirico la ritrae mentre fuori dalla finestra uno strillone sta gridando festoso che la guerra è finita). Della portata enorme dell’evento storico, shoah compresa, riceve in realtà solo il riverbero. Ma il riverbero la raggiunge a Berna e la ferisce in modo subdolo: nel non detto, nelle mezze frasi pronunciate, nel labile tentativo di rimozione del trauma collettivo e di penosa obliterazione di una memoria che, peraltro, è freschissima.  Nella mia finzione tutto ciò ha un carattere quasi epifanico e si manifesta in un terribile incubo notturno.

CV: Gli spazi che Clarice abita diventano espressione del suo stato d’animo: “Quella casa era la sua dimora e la sua prigione, e non era affatto un amore. Com’era difficile fingere.” Il marito Maury vorrebbe oscurare le sue “originalità” e sottolineare una normalità borghese verso cui lei stessa si sente in parte attratta, individuando in lui, almeno per il momento, un’àncora, un rifugio sicuro.

RF: Maury è un brav’uomo e la sua dedizione a Clarice è totale. Ravviso in lui una strenua forza che non sempre esprime nei modi in cui Clarice vorrebbe, ma che comunque scaturisce dall’amore. E questa forza provoca in lei una profonda tenerezza e una struggente forma di rispetto. Struggente perché appunto non dettata da innamoramento ma da affetto. Nella biografia reale, la coppia è destinata al divorzio. Nei due anni bernesi (e soprattutto nella mia finzione) le avvisaglie di quel futuro sgretolamento sono già lì, in quel senso di protezione da parte dell’uomo che sempre di più si tramutano in tentativi (largamente inconsapevoli) di velato controllo. Credo che una delle maggiori cause di inquietudini per la Clarice di quei frangenti sia precisamente questa estenuante oscillazione tra l’aspirazione legittima a una “vita normale” (di cui farebbe parte la sicurezza della casa, l’adesione ai codici) e il desiderio di fuga (momentanea, come per esempio al cinema o a teatro, o definitiva, con un agognato ritorno in Brasile). C’è poi una terza possibilità, che è quella in cui si muove inquieta l’anima di Clarice, ovvero la frequentazione di un altrove immaginario e però plausibile. Una proiezione che mi fa pensare a Baudelaire e al suo essere felici dove non si è mai.

CV: “Ci sono paesi che donano lettere ai propri dati anagrafici, pensò, altri, invece, che sottraggono pezzi di anima.” Nello spirito protestante e razionale bernese si fa strada dirompente un bisogno di magia; avvolta in un’innata gentilezza e nelle convenzioni della buona società, la protagonista prova un’esigenza di autenticità e spontaneità per il suo cuore errante, sensibile all’erotismo.

RF: La magia e l’erotismo costituiscono la cifra di un’assenza nei due anni bernesi. Ciononostante, Clarice è bravissima a captarne anche lì i possibili segnali (per quanto labili, quasi invisibili), le tracce nascoste. Non tanto nella figura esuberante e prepotentemente maschile di Herr Fuchs (ricordo che lui come la maggior parte dei personaggi in Città senza demoni sono inventati) quanto negli elementi che in quella Berna appunto “protestante e razionale” appaiono come eccentricità, elementi “non consoni” del paesaggio urbano e di quella società. Penso per esempio al locale che Clarice ama frequentare da sola, alle sue leggiadre e sensuali tenutarie, agli studenti sguaiati e ai pittori male in arnese che lo abitano. E, naturalmente, alla cartomante a cui si rivolge per assecondare le spinte della sua aura metafisica, anch’essa intrappolata. Clarice nutre di simboli il suo universo personale, costantemente scomposto e ricomposto a seconda delle suggestioni e dello stato d’animo. L’elemento metafisico le è necessario anche per questo instancabile lavoro che puntualmente confluisce nella sua scrittura.

CV: Benché giovanissima, Clarice è un’anima antica che sembra poter trovare un senso di intimità solo nelle origini familiari e nell’arte – la letteratura, l’arte figurativa, il cinema.

RF: Sono linguaggi essenziali in cui lei ritrova corrispondenze (più che fonti di ispirazione). Una sorta di cibo per l’anima che a Berna è costituito soprattutto dalla frequentazione di sale cinematografiche e concerti. In effetti, nella maggior parte dei casi la fruizione di questi linguaggi è praticata in solitudine e l’ipotesi di una condivisione sembra quasi vissuta come un ingombro. Fanno eccezione proprio le presenze amorevoli delle sorelle, che però sono evocate nella lontananza. Loro sono le sue divinità salvifiche, protettrici devote di una matrice remota ma sempre vivissima (nata nell’esperienza dell’esilio, della fuga e costruita nell’infanzia condivisa). Non è un caso che, seduta in un cinema di Berna e commossa per la visione di un film, Clarice senta con conforto lo sfregare sulla sua pelle di una lettera scritta da una delle sorelle e trattenuta nel reggiseno.

CV: “La vera patria è la zolla in cui tornare a essere polvere vegliati dall’amorevole sguardo di chi parla la nostra lingua.” In una vita apparentemente sospesa prende il sopravvento la memoria, che è lingua, che sono luoghi. A una vita reale subentra sempre una vita immaginata. Sono questi gli elementi che fanno della protagonista una scrittrice?

RF: Direi di più: sono questi gli elementi che fanno di Clarice una scrittrice brasiliana. La lingua letteraria di Clarice è un’operazione estetica, un progetto della forma più volte dichiarato. I suoi spostamenti dalla norma non sono imputabili, se non in minima parte, alla sua condizione di estrangeirada (come ha voluto una certa critica) ovvero di soggettività in cui convivono radici culturali e linguistiche diverse, bensì come vero e proprio stile la cui originalità e il cui spessore hanno sistemato la scrittrice sul piedistallo delle lettere brasiliane. Nonostante le nemmeno tanto velate accuse di ermetismo (puntualmente respinte al mittente: “ermetica? No, io mi capisco”, affermò una volta) quello è il modo in cui Clarice sceglie di scrivere, quella è l’espressione della sua identità. Ma, prima ancora, Clarice dichiara la sua brasilianità in una lettera magnifica che spedisce, quando ancora è una studentessa, al dittatore Getulio Vargas, chiedendo la cittadinanza: un atto d’amore nei confronti di una lingua, una lingua che è completamente sua.

CV: Questo romanzo è una dichiarazione d’amore nei confronti di una scrittrice in esilio interiore e di una terra lontana. La lingua raffinata, risultato di un’evidente ricerca stilistica, accarezza la trama e l’atmosfera creata dal romanzo.

RF: La ricerca che ho operato intorno alla lingua, all’italiano in cui scrivo, è stato uno degli aspetti per me più interessanti nella redazione di Città senza demoni. Non ho mai sfiorato la deriva dell’artificio, che non mi interessava minimamente, e neanche la possibilità di un pastiche clariceano (rischio che ho corso e che sapevo di poter correre). Certo, mi è stato faticoso evitare il corto circuito fra il traduttore e lo scrittore, ma rileggendo le mie parole non vedo, perlomeno in maniera esplicita, l’influenza della scrittura di Lispector sulla mia. Da anni frequento intensamente la sua lingua e la trasporto nella mia quando la traduco e accetto volentieri la potenza dei suoi riverberi, che ricevo come un dono. Ma il discorso si chiude qui. Lo stile che ho utilizzato per scrivere Città senza demoni proviene da una ricerca personale a cui tengo molto. In certi casi, singole parole racchiudono i segni di una poetica e convergono verso quell’aspirazione al piacere del lettore (ovviamente non sono io a poter giudicare le conseguenze di questo slancio) che dovrebbe essere sempre tenuto presente da chi si accinge a scrivere un romanzo.

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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