La teoria della madre

Immagine generata da AI

di Marco Pianti

Durante gli anni della mia prima infanzia e della preadolescenza, quando ero ancora alle soglie dell’umanità vera e propria, ho frequentato assiduamente, nelle gite familiari in visita alla casa dei nonni, il paese in cui abitava il vecchio. Dapprima fui attratto dalla sua abitazione, non solo per effetto delle proibizioni e le raccomandazioni dei miei genitori, ma anche per via di una certa qualità inafferrabile che circondava la casa e la reputazione dell’uomo che in essa abitava e svolgeva il suo laborioso lavoro di artigianato.

Dopo i lunghi pranzi nella casa dei nonni, nelle ore pomeridiane, circonfuse di un alone mistico, che mi sembravano, e tutt’ora mi sembrano una seconda notte, più breve e intensa, inserita nelle ore diurne, mi recavo davanti alla casa di Dante Pisciottu e l’osservavo pieno di angoscia. Non appena avevo masticato e deglutito l’ultimo boccone lasciavo cadere il cucchiaio sul piatto, e prima ancora che avesse emesso l’ultimo tintinnio e questo avesse compiuto il suo percorso nell’aria densa della sala da pranzo, ero già uscito, diretto a passo spedito, quasi di corsa, verso la casa del vecchio. Le strade non erano asfaltate, l’assenza di automobili rendeva superflua la pavimentazione degli stretti viottoli del paese. Mi accucciavo sui gradini della chiesa, da dove potevo osservare l’oggetto del mio interesse e delle mie fantasticherie.

Niente e nessuno avrebbe potuto distogliere quella muta contemplazione, anche se, a dire il vero, poche distrazioni si offrivano al mio campo visivo. In quelle ore la gente si rintanava nelle camere da letto, su qualche poltrona in cucina o in cortile, a sonnecchiare mentre la digestione intraprendeva il suo lento e faticoso corso. Nella fissità dei miei occhi un osservatore attento avrebbe riconosciuto un estremo tentativo di scongiurare qualcosa di cui non conoscevo la natura, ma di cui sospettavo le irreversibili conseguenze. Mi pare che si trattasse degli istanti conclusivi della mia infanzia, dilatati all’inverosimile nel tempo, con la complicità della casa e del tepore narcotizzante del pomeriggio inoltrato.

La prima volta in cui vidi Dante Pisciottu non sussultai. Lo avevo aspettato, ne avevo previsto l’entrata in scena, e adesso eccolo lì, davanti alla facciata bianca, uscito da una porta che somigliava ad una fenditura nella roccia. Nessuno dei suoi gesti lenti e misurati suggeriva che si fosse accorto della mia presenza, o che sentisse su di sé il mio sguardo. Così presi ad analizzare le sue abitudini, i suoi gesti e l’abbigliamento, ovvero la sua esteriorità, nella quale era espresso qualcosa della sua essenza più intima. Era innaturale, quella precoce inclinazione all’osservazione, lo intuivo già allora, ecco perché la nascondevo alla mia famiglia, che avrebbe potuto allarmarsi e limitare la mia libertà d’azione, costringendomi al castigo, l’unico strumento pedagogico di cui dispongono i genitori.

Dante Pisciottu era asciutto, prosciugato. Alcuni lembi di pelle pendevano dal collo e dalle braccia. La faccia era anch’essa decaduta sotto il peso della fronte, ammucchiata e sfigurata in un unico punto, da cui emergevano due piccoli occhi con i quali indagava la sua ristretta porzione di mondo. Un dettaglio degno di nota erano le sue camicie, candide e prive di grinze, come se ad esse dedicasse una cura particolare. Dovevano nascondere il corpo, che ormai non aveva più l’esigenza di essere osservato, ed era più un ingombro che una risorsa. Rimpiccioliva e si atrofizzava, ripiegato su sé stesso.

Quell’uomo, pensavo, dev’essere infelice. Circolavano delle dicerie sul suo conto. La gente raccontava episodi incompleti, frammenti della sua vita passata, dai quali riuscii a ricostruire la cronaca di una disgrazia. La frammentazione discontinua delle narrazioni conferiva alla sua biografia il carattere di una leggenda. C’erano stati, nella sua vita, rivolgimenti improvvisi e clamorosi, che avevano provocato l’estinzione della sua famiglia. La bellezza della ragazza che aveva sposato assumeva contorni fiabeschi. Si parlava di un incendio. La gente si perdeva nella descrizione di quelli che allora mi sembravano dettagli marginali. Oggetti e corpi carbonizzati.

La morte non mi interessava granché, ero solo un bambino e desideravo sapere qualcosa della vita della donna e dei due bambini. L’immagine in cui si era cristallizzata la vicenda, e in cui era eternizzata la responsabilità morale del vecchio era il suo corpo immobile davanti alle fiamme. L’immagine suggeriva un senso di rassegnazione. Una sconfitta. Una colpa. Una cruda consapevolezza della propria impotenza, per il vecchio. Era un momento culminante: coincideva, da un lato, con il massimo della felicità a cui può aspirare un uomo, e dall’altro con l’inizio del suo declino. Mi rendo conto che la gente del paese, appena alfabetizzata, riversava nella narrazione – influenzata dai modelli tradizionali, in cui tutto, pressappoco, culminava in un evento apocalittico, – i propri fantasmi, e il sadismo che è connaturato all’uomo e alle sue invenzioni.

Qualche mese fa ho visitato il cimitero del paese in compagnia della mia ragazza. Mentre lei mostrava segni di indolenza e disinteresse e se ne stava seduta in una panchina sotto la chioma di un cedro, mi aggiravo per le vie disseminate di lapidi in cerca dei miei nonni. Era il giorno dei morti, ma il cimitero era deserto. Il paese è quasi del tutto disabitato. Qua dentro, all’interno del perimetro delle mura del cimitero, ho pensato, ci sono più persone che non là fuori. C’erano fotografie di vecchi e bambini.

Questo significa che in questo paese si ha fretta di morire, oppure ci si dimentica di farlo in tempi ragionevoli. In fondo, pensavo, ognuno di noi passa la vita a progettare la propria morte. Ed è un progetto rigoroso, della massima serietà. L’unico alla portata dell’uomo. Qualsiasi altro proposito si rivela irrealizzabile. Persino la gente che ricorre alle cure dei medici, in realtà sta perseguendo il proprio progetto di morte. Non si può delegare la realizzazione di un simile progetto alla natura.

Mentre mi perdevo in pensieri di questo tipo, mi sono ritrovato, chi sa come, davanti alla tomba del vecchio. Sarebbe comodo ricorrere al caso, ma sarebbe ancora più comodo evocare una forza superiore. Non credo a un bel niente, so solo che mi sono ritrovato davanti alla sua fotografia. C’erano incise delle date. Nella foto era esattamente come lo ricordavo. Di fianco alla sua lapide, c’erano quelle della moglie e dei figli. Le loro fotografie erano molto più antiquate, sembravano scattate agli albori della fotografia, con qualche macchinario finito in disuso e rimpiazzato dal suo corrispettivo digitale. La donna non era come l’avevo immaginata, ma forse, nel frattempo, erano mutati i criteri di giudizio della bellezza femminile. Era robusta, aveva uno sguardo solido, marmoreo, perso in un punto inaccessibile ai miei occhi. Immagino osservasse il rogo che divorava i suoi figli. Questi erano piccoli e malinconici. C’era qualcosa di incompleto nella loro fisionomia, qualcosa di allucinato nei loro occhi.

Fissai lo sguardo sul vecchio. Secondo un pregiudizio diffuso, alcune immagini ci riporterebbero indietro nel tempo, sottraendoci al momento presente, in maniera inconsapevole e improvvisa. Al contrario, fui costretto ad uno sforzo notevole, per ricordare i momenti trascorsi nella bottega di Dante Pisciottu. Inizialmente era un artigiano apprezzato, capace di realizzare qualsiasi oggetto. Sapeva intagliare e scavare il legno con la minuziosa e paziente disinvoltura che contraddistingue i grandi artisti. Produceva cornici, letti, credenze, calzature e persino casse da morto. Era capitato che anche degli esperti d’arte, passati per caso nella sua bottega, si interessassero alle sue creazioni. Era utile alla comunità: questo lo rendeva un individuo rispettabile.

Tutto ciò mutò dopo l’incendio. Dante Pisciottu venne gettato nel discredito dalla comunità di cui era stato parte integrante e produttiva. Ignorava le richieste dei clienti. Quando gli veniva commissionato un oggetto di uso quotidiano presentava, al suo posto, creazioni inutili e grottesche. La gente non sapeva che farsene, nemmeno le capiva, non riusciva a collocarle in nessuna delle categorie convenzionali su cui si fonda l’ordine sia pure provvisorio del mondo. Così si rifiutavano di pagare, e Dante Pisciottu, seguendo una successione di eventi logica e rigorosa, dopo la rispettabilità, perse anche la sua modesta ricchezza.

Sulle testate dei letti raffigurava volti raccapriccianti dall’anatomia incerta. A dire il vero tutti gli oggetti che produceva sembravano rappresentazioni fedeli della sua condizione. Dava forma a un’umanità parallela, composta da uomini e donne, anche se era difficile distinguere gli uni dagli altri, collocati ai margini della società, sfigurati in maniera definitiva. In un volto potevano trovarsi più di due occhi, e talvolta nessuno. E quelle bocche non potevano comunicare altro che dolore. L’anatomia mostruosa delle sue creazioni doveva impedirne una corretta fisiologia. Un altro aspetto significativo erano le proporzioni di tali oggetti. Nel tempo rimpicciolivano, Dante Pisciottu costruiva statuine sempre più piccole e tormentate. In occasione della mia prima visita nella sua abitazione, ebbi modo di osservare alcuni di questi esemplari.

Un cane gironzolava spesso intorno alla casa, pisciava in un angolo, spazzava via un po’ di polvere con le zampe posteriori, e si lasciava cadere pigramente accanto all’ingresso. Grazie alla mediazione di quel cane riuscii ad entrare, un giorno in cui, dopo ore di attesa nella mia postazione di guardia, finsi di interessarmi a lui e lo seguii nel cortile dietro casa, al quale si accedeva attraverso una porticina di canne. Mi imbucai senza nessuna esitazione. Mi ritrovai all’interno di uno spazio delimitato da assi di legno, in cui il suolo non era curato e le erbacce crescevano fino a raggiungere e superare la mia altezza. Mi sentii osservato. Altre volte, nella casa dei nonni, avevo avuto la sensazione che i mobili trattenessero il respiro e mi osservassero.

Ora sentivo nuovamente su di me il peso di numerosi occhi inumani. Girai lo sguardo e vidi dei manichini a grandezza naturale. Non riuscii a capire a cosa potessero servire. Forse si trattava di modelli da sartoria, ma c’era qualcosa di patologico nelle loro fattezze. Solo in seguito scoprii che nelle loro posture scomposte era contenuta un’anticipazione di una nuova mobilità alla quale sarei stato introdotto successivamente, quando imparai cosa significa soffrire e provare piacere. Molti di quei manichini erano stati quasi del tutto nascosti, o addirittura assorbiti dalle piante infestanti. Li osservai confuso. Dopo avermi attratto con lo sguardo, sembravano sul punto di rivolgersi a me in un linguaggio umano. Ma, improvvisamente, ne fui distolto da un rumore gutturale, seguito da uno sputo sonoro che perforò il silenzio e mi restituì al momento presente.

Dante Pisciottu se ne stava appoggiato ad una trave, con il cane fedelmente accucciato tra le gambe. Mi sembrò cieco, i suoi occhi erano gelatinosi, ricoperti di cataratte oltre le quali si vedeva appena l’iride azzurra, come immersa sul fondo di un bicchiere di latte andato a male. Gli occhi del cane, al contrario, erano netti e lo sguardo aveva un che di vigile e indagatore. I suoi occhi erano gli occhi del vecchio. Il cane si distese con il muso premuto sul pavimento della veranda e una chiazza di bava si dilatò intorno alle fauci, evidentemente mi riteneva innocuo. Dante Pisciottu si girò lentamente e scostò la tenda. Interpretai quel gesto come un invito. Lo seguii e entrai in una stanza buia dalla quale erano stati rimossi tutti i mobili.

La descrizione dell’interno della casa è affidata a parole che all’epoca non conoscevo. In quel momento provai un senso di liberazione, ma durò pochi istanti. Mentre mi liberavo dell’angoscia precedente, una nuova angoscia iniziava a opprimermi. In un angolo era allestito quello che in un primo momento mi era sembrato un presepio. Dante Pisciottu era sparito, lo sentivo armeggiare con oggetti di vetro e latta nella stanza attigua. Mi avvicinai alle statuine e le osservai da vicino. Erano solo riassunti approssimativi di esseri umani. Alcuni caratteri erano esagerati, altri erano assenti. C’erano statuine che si distinguevano per un unico particolare, non avevano né braccia né gambe né volto, ma solo un orecchio o un orifizio che poteva essere la bocca o l’ano, o ancora un naso o una cavità oculare vuota.

Il corredo ricordava la stanza in cui mi trovavo, ma c’erano due lettini, un armadietto, due paia di calzature da bambino, giocattoli, sussidiari. Il tutto era riprodotto con un realismo che contrastava con lo stile fantastico delle statuine. L’ordinaria banalità della scenografia esaltava le menomazioni. Si era portati a credere che fosse l’ambiente domestico ad aver plasmato le creature. L’insieme formava un discorso, le cui premesse erano espresse dalla convenzionalità della stanza, ma fin dal principio era chiaro che l’autore volesse denunciare la pericolosità dell’ordine domestico.

Le considerazioni attuali non fanno che sovrapporre a quel discorso un altro discorso, che ero incapace di formulare in quel momento. Questo è il risultato della sovrapposizione di due momenti nel tempo, due discorsi convergenti nel medesimo spazio angusto. Mentre osservavo il presepio sperimentavo gli effetti di una rivelazione che non aveva bisogno di mediazioni linguistiche. D’altra parte nemmeno il vecchio sarebbe stato in grado di argomentare il significato della sua creazione.

Poco più in là, oltre la porticina in scala ridotta, un’altra statuina giaceva solitaria. Questa dev’essere la madre, pensai. Era accasciata, prostrata. In mezzo a quelle creature non riusciva a riconoscere i suoi bambini. Mi accorsi che oscillava. La porta del cortile era rimasta aperta, e lasciava entrare un venticello leggero. Seguendo la planimetria della casa indovinai l’ubicazione della stanza in cui Dante Pisciottu attendeva il mio arrivo. C’era un tavolo, delle stoviglie, una stufetta. Mi alzai senza distogliere lo sguardo e mi avviai meccanicamente alla porta. Superata la soglia mi ritrovai in un andito ancora più buio, era lì che doveva trovarsi la madre.

Spinsi un’altra porta e trovai Dante Pisciottu seduto su una sedia. Il tavolo era stato rimosso, e anche la stufetta. Mi accolse con un’espressione del volto al contempo colpevole e accusatoria. Il suo sguardo errava sulle pareti, poi si fissava su un particolare visibile unicamente a chi avesse il dono della cecità, parziale o totale. Non avrei capito granché di Dante Pisciottu, se prima non avessi osservato le sue statuine. Erano un controargomento, la sua difesa dalle dicerie della gente. Ora sembrava possibile un contatto, che però continuavamo a rimandare. Su una sedia aveva posato un bicchiere di vetro, mentre lui beveva da una scodella di latta. In sua presenza, me ne rendo conto solo ora, non potevo pronunciare parole di cui non avessi avuto un’esperienza immediata che coinvolgesse il corpo prima ancora delle capacità combinatorie della mente. Parole che avessero un legame di parentela con le sensazioni più primitive, nate tra la lingua e il palato seguendo il processo minuzioso che porta alla formazione di una pietra preziosa. Uno pensava cicatrice e immediatamente sentiva la superficie di una cicatrice aprirsi sotto la lingua.

Afferrai il bicchiere, era caffè, che mi era proibito bere. Lo inalai. Mi aspettavo che da un momento all’altro pronunciasse la parola fuoco, o incendio. Bisognava evocarlo, prima o poi, e pregare che si estinguesse. Ma poi… un’altra parola si impose tra le altre, una parola che aveva intrapreso, prima ancora del mio ingresso nell’abitazione di Dante Pisciottu, un lungo itinerario che l’aveva condotta nella mia bocca da una distanza siderale. Quasi balbettando la pronunciai, senza sospettare gli effetti che avrebbe prodotto. La madre, dissi. E fu come se una fune robusta, estenuata da secoli di tensione estrema cedesse, facendo precipitare un intero edificio di pietra. Il silenzio inghiottì la parola, dopo averla ruminata a lungo. In questo momento, però, mentre scrivo il resoconto del nostro incontro, ho il sospetto di inventare una storia. Ho paura di mentire.

L’ho detto oppure no? Non ne sono più sicuro. Se l’avessi detto, forse non ci sarebbero state le visite successive, non si sarebbe instaurato un rapporto, sia pure distante, tra me e il vecchio. Non mi avrebbe parlato dei bambini. Ma forse… è proprio perché l’ho detto che in seguito è stato possibile nominare i bambini. I loro nomi. Ad ogni modo… Il caffè era diventato freddo, non profumava più. Ricordo, poi, di aver salutato il vecchio, ed essere uscito all’aria aperta, dove inspirai una lunga boccata d’aria fresca, muovendo i primi passi incerti che diventarono gradualmente una corsa forsennata verso casa dei nonni. Prima di entrare mi fermai a guardarli dalla finestra. Erano seduti a tavola, immersi nella luce opaca del lampadario come sul fondo di una palude. Una pacifica quanto assurda famiglia di animali palustri, ho pensato, o meglio, è proprio così che li ho visti e ora non faccio che spiegare la mia visione. Mi apparvero inquietanti ed estranei.

Intanto la Teoria della madre prendeva forma dentro di me. La mia prima teoria, formulata d’istinto, lentamente si dipanava in lunghe e complesse frasi compiute. Ipotesi e deliri, senz’altro. La mia prima teoria mi costringeva a distogliere lo sguardo dal mondo apparente per crearne uno parallelo, solo mio. Dopo la visita al cimitero sognai la famiglia di Dante Pisciottu. Erano felici, stranamente felici, inverosimilmente felici. I bambini erano innocenti e Dante Pisciottu non sospettava niente. Svolgevano le consuete azioni quotidiane che, osservate una per volta appaiono insensate, ma nel loro insieme costituiscono una specie di ordine. Prima di rincasare dal cimitero presi la strada per la chiesa. Dagli scalini si vedeva il rudere della casa. Il tetto era collassato, e tra le pareti era cresciuto un fico moresco. La gente che era andata a fare visita ai propri morti e attendeva la corriera si inerpicava per acciuffare i frutti maturi. La nostra condizione è provvisoria – così ho scritto su un pezzo di carta, – entriamo e usciamo dall’umanità, senza rendercene conto. Le campane hanno suonato. Era tutto limpido e definitivo, ma è durato poco, come tutto il resto.

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davide orecchio
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Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
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