Trentacentesimi
di Massimo Salvati
Lee Friedlander, Wilmington, Delaware, 1965
Sembra tutto un super cadere, un super morire: la cosa peggiore potrebbe essere andar via con tutti i pregiudizi intatti. Pensava a questo, di preciso, quando la paura è iniziata; di ritorno verso la stazione, dopo aver svoltato su un viale in cemento, fissando il cartoncino rosso con il logo dell’ennesima fiera editoriale, M. ha sentito un improvviso sapore metallico sulla punta della lingua, come se il corpo lo sapesse già prima.
Una paura che non è riuscito a spiegarsi, anche se in realtà non nuova: la mattina stessa, tra la defecazione e una rapida pulizia post coito, prima di tornare a praticare lo sport della distrazione, M., come altre mattine, aveva osservato il proprio viso allo specchio, alla ricerca di segni particolari e qualcos’altro che non saprebbe spiegare. E così l’aveva vista: tra il nero della pupilla e l’assenza di sorriso, sulla guancia: una macchia densa e fresca che perdeva consistenza in maniera progressiva, dipanando mucosa ovunque. Un insieme di dopobarba, peli, pelle e sangue che ha lavato via passando la lama del rasoio in maniera decisa e senza esitare, come gli aveva insegnato suo nonno. Ma la macchia, o il suo alone, era rimasta lì, solo meno evidente.
La sensazione di non pulito è rimasta latente finché non l’ha visto attraversare la strada. Con passo strascicato gli è venuta incontro una figura di una magrezza inverosimile, sottile, nascosta da una felpa gialla oversize, che muoveva le gambe di una lunghezza impressionante, da sembrare finta: la persona più alta che avesse mai visto. E gli sembrava di poter sentire quella macchia vischiosa sulla lingua, la bocca impastata di paura. M. aveva davanti a sé l’uomo più alto del mondo.
«Hai ottanta centesimi?» gli ha chiesto con un sorriso turbato senza inclinazioni, dritto, quasi disegnato. Istintivamente, M. ha messo una mano in tasca e ne ha estratto una moneta che ha colpito le chiavi di casa. Allora, il tintinnio metallico gli ha fatto incrociare lo sguardo del ragazzo, strabico e un po’ spento, di sospetto.
«Ne ho solo cinquanta» ha risposto M., e questa richiesta esaudita a metà, questo suo gesto incompiuto, ha fatto gonfiare le labbra del ragazzo, piegare gli angoli della bocca trasformandola in una smorfia esagerata di tristezza.
«Davvero non ne hai altri trenta?».
«No, mi spiace».
«Va beh. Verso dov’è la stazione?» ha detto con accento locale.
«Di là» M. ha tracciato un segno con la mano in direzione del viale, fissando l’enorme testa glabra chiazzata di diverse tonalità rosa e lilla, i pezzi di barba rossiccia e rada sul mento, gli occhi scavati da profonde occhiaie.
«Allora andiamo nella stessa direzione, vengo dietro a te» Ha detto con naturalezza e M. non ha detto nulla; si è limitato a sorridere così come sua madre gli ha detto di fare con gli sconosciuti, in un generale senso di pietà come a dire ‘chiunque ha amato e sofferto come te e non c’è differenza’.
«Sono rovinato» ha poi detto il ragazzo. «Sono rovinato» ha ripetuto. «Sono mesi che non pago l’affitto. Se non trovo i soldi domani mi sfrattano di casa».
«Mi dispiace» si è limitato a dire M. «Non deve essere facile» ha aggiunto, guardando fisso in strada con un fischio in testa, mentre con gli occhi contava il numero dei passanti che sempre meno sfilavano a fianco, guardandoli come una strana coppia.
M. non ha saputo spiegarsi questa paura, di solito si muoveva sciolto tra i piccoli delinquenti e gli spacciatori di strada. La settimana precedente aveva cercato una cartina lunga battendo pezzo pezzo tutta la piazza davanti la Stazione Centrale di Milano, di notte: i militari si tenevano lontani dalle persone, macchie verdi sparse lungo il perimetro, mentre lui, con il fumo in mano attaccato al palmo, valutava di gruppo in gruppo la giusta distanza da rispettare. Quando era a due tre metri cominciava a strisciare la suola della scarpa per avvisare del suo arrivo, e appena loro ne registravano la presenza, lui faceva il gesto del rollare posizionando gli indici dritti in orizzontale e i pollici in parallelo, facendo slittare lentamente i secondi sui primi, così quelli potevano limitarsi a scuotere la testa, fare un cenno di assenso e M. aveva comunque il tempo di filare in caso di eventuali problemi.
«E no. Non è mica facile ma intanto di lavoro non ce n’è» ha risposto il ragazzo mantenendo la bocca mezza aperta. M. riusciva a vedergli i denti gialli un po’ larghi e diverse carie. «Dimmi te io che devo fare» insisteva lui. «Dimmi te uno come fa. Sono dieci mesi che non pago l’affitto».
M. ha cercato di farlo camminare davanti, di tenerlo a vista, rispettare una distanza e stare sempre più accorto, sempre più vurpignu avrebbe detto suo zio. «Ti capisco», una frase uscita più come automatismo che come vero pensiero.
«Mi capisci, certo. Tu dove vai?». Ha detto lui cambiando discorso.
«A Bologna» M. ha risposto istintivamente mentendo.
«E come ci arrivi?».
«Prendo un paio di regionali, arriverò stasera tardi».
«Eh sì, con il regionale puoi anche non fare il biglietto».
«Certo»
«Sono davvero rovinato. Vivi a Bologna? Lavori?»
«Sì. Faccio il rider. Vivo in una casa con altre tre persone».
«Ah, sì? E quanto prendi?»
«Cinquecento più o meno, dipende».
«E in che zona vivi?»
«Bolognina».
M. ha avuto il dubbio improvviso di averlo già incontrato un mese prima, e proprio a Bologna, quando aveva deciso di passare la notte, o quello che ne rimaneva, al parco di Villa Angeletti, dopo aver accompagnato tutti i suoi amici in carsharing. Non c’era posto per lui in studentato, seppur conoscesse diverse persone e gli capitasse spesso di essere ospitato di nascosto, entrando dal parcheggio sotterraneo delle bici; allora un ragazzo con la stessa espressione turbata, calvo e con gli occhiali, gli aveva dato delle lenzuola vecchie e un cuscino con una federa pulita. Gliele aveva date controvoglia ma l’edificio non era lontano dal parco, gli aveva detto M., e gliele avrebbe riportate l’indomani. Si era risvegliato alle undici di mattina confuso e solo, il rumore di centinaia di cicale, il telefono scarico e un bus da prendere. Aveva lasciato tutto lì ed era andato via.
«E com’è Bolognina?»
«Un quartiere di merda» gli è uscito spontaneo.
«Ah, è di merda?». Il ragazzo ha piegato ancora gli angoli della bocca.
«No. Cioè. Ci sono alcuni disagi. Sai, problemi di quartiere». M. ha fatto una pausa «Persone che creano problemi».
«Ah sì, le case occupate».
«Eh, sì».
M. si è accorto di avere la camicia fradicia, ma di un sudore diverso, appiccicoso. Una sensazione melmosa che ha cominciato a germinare. Qualcosa si muoveva, ramificava da dietro al collo fin dentro l’encefalo, diramandosi ai nervi, al resto della corteccia e poi giù dalla trachea fino ai bronchi.
«Ma sei calabrese?».
«Sì». M. pensava solo agli ultimi cento metri che lo separavano dal piazzale della stazione.
«Di dove?»
«Crotone». Ha continuato a mentire.
«E si lavora a Crotone?».
«Se hai i contatti lavori al porto, o in qualche impresa edile. Ma solo se hai quelli giusti».
«E tu non ce li hai gli agganci?». Ha sorriso.
«Non quelli buoni. Altrimenti non starei in Bolognina, no?». Gli ha sorriso anche lui mentre già pensava al primo treno da prendere, a fumare una sigaretta in pace.
«Tagliamo di qua, si fa prima» ha detto il ragazzo a M. svoltando in una traversa deserta, stretta e corta, che hanno attraversato in silenzio. «È stato un piacere» gli ha detto improvvisamente quasi in prossimità del piazzale. «In bocca al lupo per tutto. Sei stato gentile». E lento e curvo, come se lo facesse con sforzo, ha teso la mano a M. mentre lo guardava negli occhi.
M. ha visto la delusione per quei trenta centesimi mancati. E chiaramente, ha pensato, stava per succedere proprio lì; lo sguardo si è fatto meno presente. Il ragazzo ha aperto lentamente il palmo verso M., muovendo le dita lunghe e sottili l’ha prontamente preso dalla mano e l’ha tirato in avanti, con un sorriso plastico. «Facciamo che me li prendo da solo». Gli ha messo una mano in faccia sbattendolo contro il muro. Con l’altra ha iniziato a ravanargli nelle tasche, poi nei pantaloni, e ha stretto la pelle che sembrava potesse strappare via con facilità. M. ha tirato un urlo, strozzato dall’enorme mano sulla bocca. Poi c’è stato un colpo sordo: le tende ad anelli della palazzina di fronte si sono scostate. Qualcuno ha filmato dalla finestra di un piccolo loft. Qualcun altro è rimasto all’inizio della strada a guardare. Diciotto occhi e due cellulari hanno ripreso il corpo di M. rimanere in piedi dopo il primo pugno e arretrare di un passo; il secondo più aperto e con più aria che ha rotto le difese; il terzo che è arrivato di rovescio e il corpo che volava come una pagliuzza al vento fino a terra dove è rimasto: non ha strisciato, non è scappato, non ha provato a rialzarsi mentre lui lo calciava in faccia. M. ha solo protetto la testa e poi, dopo che la scarica è finita, si è toccato la punta del naso, non trovandola, mentre con gli occhi seguiva piccole stelle che evaporavano al buio. Un conato e del sangue caldo colava sul marciapiede. Il ragazzo l’ha osservato per qualche secondo, qualche spasmo ne rivelava ancora un po’ di vita. Ha afferrato lo zaino e il giacchetto da terra, mentre M. provava a vincere il rumore di uno scroscio presente, che rendeva tutto indistinto, qualcosa che gocciolava e gli apparteneva. Intorno, la strada evaporava, ha sentito dei passi come di gregge, prima vicini e poi sfumati in un’eco che svaniva, mentre guardava quelle gambe lunghissime perdersi tra altre più piccole, fino a venire inghiottite dall’ingresso della stazione.
Se tutto questo fosse successo, se quel ragazzo l’avesse pestato a morte invece che andarsene per la sua strada, lasciandolo impietrito e così astrattivo; se M. fosse volato via da qualche parte, o solo dove voleva andare e magari proprio dietro a lui, e l’avesse seguito all’interno della stazione, fin dentro i bagni pubblici, avrebbe visto quel ragazzo fissarsi allo specchio intento a tastare la consistenza di una macchia nera su tutta la fronte e il naso, piena di venature biancastre e pus, che quasi gli colava negli occhi. L’avrebbe visto toccarsela a lungo per poi provare a dimenticarsene tirando coca sul lavandino, comprando un panino al McDonald e chiedendo qualche spiccio in giro ancora per qualche ora, prima di tornare a casa da sua mamma.
Invece, M. ha dato un rapido sguardo al tabellone delle partenze, è andato al binario sette, ha aspettato il treno per Firenze e ci è salito. Ha fatto un rapido controllo per capire se mancasse qualcosa: la giacca Corneliani in mano, le cuffie al collo Bose, lo zaino chiuso The bridge, la borraccia laterale 24bottle. Nella tasca sinistra della giacca un Samsung e il portafoglio sempre The bridge, nella destra un pacchetto nuovo di Winston, le chiavi di casa e anche altri trenta centesimi.
A controllo finito, ha avuto di nuovo quella sensazione di paura. Sentiva quella melma giù per la gola, che pulsava acida fin nella bocca dello stomaco. Era lui, il suo pensiero sporco, il pregiudizio. Ci ha pensato un’ultima volta, sul treno, prima di addormentarsi.