Les nouveaux réalistes:
Fuoco
di
Alessandro Maria Flavio
I tacchi dei miei stivali battono le strade della città. È notte tarda. La calca di turisti ansiosi di osservare le donne in vetrina si è dispersa. Alcune siedono ancora nelle stanze irrorate di luce rossastra, forse in attesa che sopraggiunga l’ora nuova. Mi sono sempre chiesto quanto costi affittarle. Le stanze, intendo. Quanto costano le donne lo so bene. Ho origliato le contrattazioni di alcuni connazionali, ragazzini che se lo rasano per farlo sembrare più lungo. Riconoscerli è facile. Se ne stanno ai margini della folla a confabulare, la dentatura in vista. Sebbene nessuna delle persone che gli sfila di fianco ne conosca l’identità, provano imbarazzo, al punto che prima di decidersi a fare il grande passo si devono stordire con un paio di canne. I loro occhi, stritolati dal gonfiore delle palpebre, ricordano quelli di certi pupazzi animaleschi con cui giocavo da bambino. Assieme alla loro immagine, mi ritorna in mente quella della casa in cui trascorsi prima l’infanzia, poi la pubertà, e infine l’adolescenza. Mi scuso, quello meticoloso mi ha fatto notare che ho mancato di precisione. Non si tratta tanto di un’immagine, quanto di un eccesso percettivo da cui si staccano dettagli minuscoli, la cui nitidezza vive un istante. L’argento dell’onda increspata a largo; lo scricchiolio di una tettoia; i teli bianchi sulle barche e le canotte, altrettanto bianche, sui petti ustionati di uomini ormai scomparsi.
Forse quelle donne sigillate provano la tua stessa malinconia, dice quello sensibile. Provengono anche loro da paesi lontani, contrade sgangherate dai nomi sibilanti e misteriosi. La malizia nei loro sguardi ha lasciato il posto a umori più miti. La ricettività verso ciò che accade al di là del vetro è svanita, come a seguito dell’azionamento di un interruttore. Se si togliessero le uniformi da lavoro, parrebbero gente comune di questa città, dove le case hanno finestre ariose, senza tendaggi, e si è invitati ad ammirarne la vita interiore.
Le vetrine mi sfilano di fianco, sdoppiate e capovolte dalle acque dei canali. Paralleli agli argini, ai piedi delle barche ormeggiate, i cigni si accovacciano nell’oscurità. Sferzato da una folata di vento, stringo il bavero della mia giacca, camminando curvo. Mi sto dirigendo verso casa, e ho un occhio più chiuso dell’altro. Suppongo per via della stanchezza. Le mie gambe si muovono per inerzia, eppure non mi sento spossato. Vengo dal mio posto di lavoro, un ristorante giapponese a pochi minuti di cammino da casa. Lì sono una specie di tuttofare: cucino, pulisco, accolgo e intrattengo i clienti con le capacità linguistiche che mi ritrovo. Sono in grado di spiegare grossolanamente le differenze tra i vari tipi di ramen che abbiamo in carta, che poi sono tre. Non conosco l’esatta composizione di ognuno. Per il resto vado a braccio, mi servo del mio povero vocabolario in cerca di qualche nuova combinazione. Infarcisco frasi semplici di espressioni idiomatiche per risultare spigliato. I miei interlocutori provengono da ogni provincia danarosa del pianeta. Quando sono in cucina, invece, non parlo con nessuno. Intendo dire che non posso. I miei colleghi non spiccicano una parola d’inglese, la nostra comunicazione è tutta gestuale. Questo mi obbliga a osservare.
Nello svolgimento del lavoro, la pelle cerea e perfetta dei loro visi non si tende mai. Nessuna grinza che segnali tensione o turbamento. Le loro bacchette si muovono svelte, afferrano minuscole stringhe di cavolo viola al primo tentativo, riponendole sul bordo della ciotola, oppure sollevano dal brodo una manciata di noodles intrecciati, disponendoli così da formare un letto flessuoso, magicamente in ordine. Ogni cosa ha il suo posto, e il suo tempo. Anche quando il ritmo è elevato, ogni ingrediente viene posizionato nella ciotola con la stessa cura, formando un bouquet di colori dall’aria primaverile. Al verificarsi della minima imprecisione, come l’affondamento di un pezzo di gobo nella zuppa, le bacchette si affaccendano per sistemarla, più veloci di prima. Questa loro straordinaria meticolosità nobilita il lavoro, trasformandolo in una questione privata. Se riuscissi ad acquisirla a tua volta, dice quello preciso, potresti servirtene per i tuoi scopi.
Non c’è cosa che loro apprezzino maggiormente dell’abnegazione. Da quando ho cominciato a dimostrare maggiore interesse per le loro tecniche compositive, hanno preso l’abitudine di dedicare alcuni minuti alla correzione degli errori che commetto durante le preparazioni. Questo, naturalmente, avviene alla fine del turno, quando nessuno guadagna o perde nulla. Eppure, ho come la sensazione che non sia tanto l’avarizia a fargli scegliere proprio quel momento, quanto piuttosto l’esigenza di testare lo spessore della mia integrità, di mettermi costantemente alla prova.
Non sono lontano da casa: riesco a intravedere la scalinata d’ingresso. Dai vicoli adiacenti si levano delle risa. Una colonna di fumo volteggia nell’aria, seguendo il ritmo di un basso. Giunge al mio orecchio ovattato, rimbalzando sulle ali ritratte dei cigni sognanti. Le fessure del selciato vibrano sotto i tacchi dei miei stivali, come in stato di adorazione. Spingo forte con le gambe verso casa. Seguo il ritmo anch’io. In questa città ho imparato che l’unico modo per non crollare è non fermarsi. Gli autoctoni vivono la stanchezza alla stregua di una vergogna, ritenendola non tanto uno stato fisiologico, quanto il sintomo di una deformazione del carattere. La contemplazione, per loro, è uno stato di quiete indesiderato. Ritornando al mio stivale che calpesta il selciato vibrante, mi si consenta di riferire una mia voglia improvvisa, quella di una sigaretta. Di questi tempi la si considera perfino deplorevole. Detesto i miei denti giallognoli al pari del mio corpo gracile e molle, tanto che alla vista di specchi, vetrine, parabrezza o lunotti mi volto di scatto, come di fronte a uno spettacolo macabro. Eppure, non riesco a fare a meno del fumo, specialmente quando voglio scrivere due righe dopo lavoro. No, non tengo nessun diario di bordo. La mia prosa sgraziata ha poco a che vedere con le mie trascurabili vicissitudini personali. Piuttosto, è un tentativo di rimanere in contatto con il mondo, di delineare le relazioni di cui è costituito, scomponendolo ancora e ancora. È una cosa che faccio con le mani, dita tremanti che battono sulla tastiera di un fossile tecnologico, lo schermo mezzo buio. Devo seguire a ritroso il percorso del suono, raggiungere la colonna di fumo che si alza dal cortile del club. Infilo un vicolo promettente, infestato di voci. Vedo la vernice ancora fresca della porta d’ingresso, i corpi accatastati ai piedi della scalinata che si guardano e ridono e strusciano. Forse non saresti dovuto venire, dice quello sensibile. Tutto questo calore umano ti rattrista.
Mi mescolo alla folla. Trovo una nicchia in cui rintanarmi, spalle al muro, in cerca di un viso che ispiri fiducia, uno a cui chiedere. Meraviglioso avvistamento: un tizio stralunato che si è scordato di stringere una sigaretta tra le dita, ridotta ormai a un cumulo di cenere. È il tuo uomo, dice quello meticoloso. Stacco la schiena dal muro umido e ammuffito, sorry, dico, sorry. Sguscio tra i corpi, li sposto urtandoli leggermente, attento a non pestare le scarpe a nessuno. Qualcuno mi afferra il braccio da dietro. Ecco, ci siamo. Provo a divincolarmi con gentilezza, come se fossi rimasto impigliato alla maniglia di una porta. La pressione sulla manica della mia giacca aumenta. Senza voltarmi, abbasso lo sguardo sulla mano, in cerca di un’anticipazione di ciò che mi attende. Prima di riuscire a metterla a fuoco, si sgancia dal mio braccio furtivamente, ritornando dal suo padrone, una ragazza coi capelli fucsia. Non appena stabilisco un contatto visivo, allarga la bocca in un sorriso glitterato. Ha occhi acquosi con cui mi fissa sbalordita, come se stessi fluttuando a pochi centimetri dal suolo. Mi chiede se sono okay. Trascorrono un paio di secondi prima che decripti il significato della sua domanda, secondi in cui devo apparirle assente, sfasato. In questa lingua sono lento a processare informazioni, perfino le più basilari. Faccio di sì con la testa, cercando di darmi un tono e soprattutto di prendere tempo. Stavo solo cercando una sigaretta, ribatto. La frase mi esce dalla bocca smozzicata, aliena, come se avessi detto delle parole a caso.
Allora parlo di nuovo, nel tentativo di redimermi. Tu ne hai una? Le chiedo. Altra ferita: questa volta ho caricato le parole di un’aggressività che non intendevo esprimere. Lei non sembra percepirla. La sua mano, la stessa che mi ha afferrato la manica della giacca, ora mi porge un pacchetto di sigarette piuttosto costose. Mettiamoci lì, ho da fare delle cose, mi dice, e indica uno spazio vuoto al di là della calca. La seguo senza fiatare. Estrae dal tascone del piumino una busta stracolma di polvere biancastra. Per imitazione faccio lo stesso con l’accendino, mi rendo conto dell’automatismo quando è ormai troppo tardi. La punta della sigaretta è già rovente. Lei infila una chiave nella busta, raccogliendo con l’estremità una montagnola di polvere. Se la porta frettolosamente alla narice. Serviti pure, dice, o qualcosa di simile. Allungo la mano. Dammi la chiave, le dico. Una grossa, aggiungo poi, sottintendendo il soggetto. Sento quella sostanza non identificata corrermi su per la narice fino al seno frontale, frizzantina. Ogni canale del mio corpo si riscalda. Mi abbasso per restituirle la chiave che mi ha prestato, rendendomi conto di avere un equilibrio quantomeno precario. Sono fottuto, penso, o forse esclamo, chi lo sa. Lei mi sta rivolgendo uno sguardo interrogativo. Alzo il pollice e sorrido. Poi aggiungo: todo está bien. Forse la mia mente idiota ha deciso che lo spagnolo è la lingua di quelli che si divertono. Può darsi che lo pensi anche lei, siccome mi ha inchiodato addosso quello sguardo furbesco. Si alza di scatto, prendendomi per mano con naturalezza. Andiamo a ballare, su, fa un freddo cane, dice. Le spiego che prima devo fare il biglietto e lei mi guarda perplessa. Sei un tizio strano, dice. Adoro la parola weirdo, renderebbe amabile pure il peggiore degli psicopatici. Poi dal nulla lei si porta il palmo della mia mano alla bocca e ci dà una leccata, premendola contro la sua. Strilla e ride, ride e strilla. Nel processo di trasferimento l’inchiostro del suo timbro sbiadisce. L’imbarazzo è il ricordo di un passato in cui ero sobrio ed esausto. Eppure, sono ancora più scisso di prima. Quello sensibile parla a ruota libera. Quant’era che qualcuno non si interessava allo straniero che sei, anche solo superficialmente?
Ci facciamo largo nella calca, lei davanti, mano nella mano. Tutto sembra così surreale: i corpi, i volti. Saliamo la scalinata cosparsa di sale. Riponiamo le giacche in uno sportello metallico. In pochi attimi confusi siamo nell’oscurità del dancefloor. Pare che esista anche un piano di sotto, con una sala più grande. I miei amici sono laggiù, ma possiamo raggiungerli dopo, dice. Il movimento del suo bacino è allo stesso tempo prepotente e aggraziato, gli occhi socchiusi, la spalla che sporge verso di me. Ancheggio in stato allucinatorio, snodando gli arti con lentezza. Ogni tanto ci scambiamo delle occhiate d’intesa, e allora lei dà il meglio di sé, eccitata. Io invece rallento fino a quasi fermarmi, travolto dalla bellezza che sprigiona. È un miracolo, dice quello sensibile. Abbasso il viso, strisciando i piedi sul pavimento viscido e appiccicoso. Non voglio investirla direttamente con lo sguardo. Poi le punte delle sue dita, senza preavviso, affondano nella vita dei miei jeans. Sono calde, così calde. Mi fissa sicura, strusciandosi su di me. Sento le sue mani scorrermi sulla pelle, in accordo con le oscillazioni del suo corpo. Le sue labbra succhiano il lobo del mio orecchio, baciano le mie ciglia lunghe. Devi bere dell’acqua, mi dice. Ti accompagno.
Le porte scassate dei bagni si aprono e chiudono furtive, anche se non ce n’è alcuna ragione. In questo posto la figura del bodyguard non esiste. Puoi fare quello che ti pare. Disseminati per il club ci sono solamente degli angeli custodi che raccattano quelli che hanno esagerato e si prendono cura di loro. È la perfetta applicazione del motto ‘vivi e lascia vivere’, con tutte le sue contraddizioni e dilemmi morali annessi. Mi chino sul lavabo, detergendomi gli occhi strabuzzati con l’acqua gelida. Non mi sembra che la situazione migliori, anzi. Il mio campo visivo si restringe di secondo in secondo, fino a ridursi a una macchiolina. Biascico una frase che grossomodo dovrebbe comunicare il significato seguente: dimmi che hai qualcosa in grado di produrre un effetto uguale e contrario. La ragazza dai capelli fucsia sghignazza. Mi prende sottobraccio, facendomi accomodare in un cesso che ci contiene a malapena. Altra busta, altra polvere, stesso colore. Che cazzo è? Le chiedo. Questo lo so dire con disinvoltura. Speed, mi dice. La domanda che hai posto si riferiva alla composizione chimica della sostanza, credo, dice quello meticoloso, ma la sua osservazione cade nel vuoto. Tiro con cautela un po’ di quella roba e in men che non si dica sono in forma smagliante. Le sue mani mi lisciano gli zigomi piccoli e ossuti, da prigioniero politico. Ora va’ decisamente meglio, dico. Lei inarca la bocca, posandola sulla mia. La sua lingua liscia e carnosa mi abbraccia, ed è come se il mio corpo venisse immerso in una vasca d’acqua limpida e calda. Le premo i polsi sui fianchi, ma lei si sfila, rapida.
Ci dimeniamo nella sala gremita. Ciascun corpo sembra intrattenere con l’altro una relazione segreta. Lo spazio del dancefloor viene riorganizzato in continuazione al mutare dei vuoti e dei pieni, ovvero in base agli spostamenti dei singoli. Ogniqualvolta io e la ragazza dai capelli fucsia ci spostiamo verso l’origine della musica, ritrovandoci in un’area più affollata, le persone intorno a noi creano una nicchia abitabile, in cui i nostri corpi possono esprimersi liberamente. Non conoscere nemmeno il nome della donna che ti sta di fianco rende tutto così sincero, dice quello sensibile. Ci muoviamo in armonia, ora. Capita che uno imiti l’altro con fare provocatorio. I ruoli si confondono, anche le bocche a volte, come a punteggiare il discorso dei nostri corpi. Forse ti stai adattando alle usanze di questo posto, alla strana leggerezza con cui ciascuno abita la propria solitudine, aggiunge il mio compagno, forse. Che parola giovane, ‘forse’, come la foschia che avvolge i ponti della città la mattina. Perfino il suono le assomiglia, quasi la evoca, ‘forse’.
La ragazza dai riccioli fucsia mi prende la mano, trainandomi fino al margine opposto della sala. Andiamo a fumare, dice, fuori ci sono i miei amici. Ed eccoci di nuovo all’esterno, mentre scendiamo le scale umide e i grani di sale crepitano sotto le suole delle nostre scarpe. Le pupille dilatate della ragazza incombono sulla folla. Ironia della sorte, le persone di cui siamo in cerca sono accucciate esattamente nel posto in cui ci siamo rintanati, e stanno facendo la stessa cosa. Rivolgendosi alla ragazza, un biondino dal viso pulito, con indosso un cappello scuro da pescatore, fa un commento sarcastico sulla sua irrequietezza. A quanto pare, ogni volta che vanno a ballare insieme, la ragazza a un certo punto fa perdere le sue tracce. Lasciala farsi i suoi giri, che male c’è, biascica una ragazza altrettanto bionda, il naso a forma d’oliva e le labbra siliconate. Poi aggiunge qualcosa di spiritoso su di me, anteponendo al mio nome – stranger – una lunga serie di aggettivi slangati il cui significato mi è ignoto. A quanto pare la frase è arguta, perché gli altri si piegano dalle risate. Per parte mia adotto un’espressione studiata appositamente per questo tipo di circostanze, un sorrisino complice e scaltro, che rassicuri il mio interlocutore. Conversazione multipla in arrivo, dice quello preciso. Il tema è pene d’amore, gli interessati naturalmente assenti. Un certo Samuel, a quanto pare un idiota, ha detto qualcosa alla biondina su una loro amica comune. La mia comprensione termina qui. Forse, se stessi più calmo riuscirei a cogliere un numero maggiore di parole. È solo che quando perdo il filo mi demoralizzo, e smetto di seguire. Il dialogo procede a ritmo spedito, tanto che le loro voci si accavallano. Tengo lo sguardo fisso su di loro, dando l’impressione di stare attento. Un’angoscia sottile s’insinua tra le mie scapole, mi accorcia il fiato. Se uno di loro si rivolgesse a me, chiedendomi la mia opinione, dalla mia bocca non uscirebbe altro che un sibilo rauco, come fossi una lucertola aliena. Quello che provi è del tutto legittimo, mi rincuora quello sensibile, come si può vivere senza parole?
Il biondino non sembra granché coinvolto nella conversazione. Continua a toccarsi i calzini come se gli prudessero. Nel dubbio si fa un’altra chiave. Poi cerca il mio sguardo e, sfruttando una pausa della conversazione, con distacco, dice: parlaci di te, straniero. Sono uno scrittore, dico d’impulso. La risposta accende la loro curiosità, ma la cosa non mi lusinga affatto. La ragazza dai riccioli fucsia m’incalza: cosa scrivi? Scrivo di nostalgia, dico. Il biondino non fa una piega. Uhm, cioè? La nostalgia è un punto di vista sulle cose, dico. La frase esce incerta, scomposta sul piano grammaticale. Roba pesante, fa la biondina, avvicinando la narice alla chiave che ha in mano. Dovresti scrivere di cose più allegre, aggiunge poi, pulendosi il naso distrattamente. E ti hanno pubblicato? Chiede la ragazza dai riccioli fucsia. Per ora sono – vorrei dire ‘solo’ ma dico ‘ancora’ – un cameriere. A ogni mio errore segue una loro smorfia d’insofferenza, pietà o disagio. Scrivi nella tua lingua immagino, dice il biondino. Come vedi è l’unica che ho, rispondo. La ragazza dai capelli fucsia mi dice qualcosa che non afferro. Scusami? Le chiedo, frastornato. E-cosa-ti-porta-qui, ripete, il tono tradisce un’impazienza che mi umilia. Sta andando male, dice quello preciso. Trovo il suo commento ridondante. Il mio paese sta decadendo, dico. Le iridi della ragazza dai riccioli fucsia scintillano per un istante. Mafia, pum-pum-pum, dice il biondino, mimando una pistola. Queste persone ti vedono come un animale esotico, dice il tipo sensibile.
Ho freddo, dice la biondina, torniamo a ballare? Serro le mascelle. Digrigno i denti fino a sentire i molari che scricchiolano. Sono arrabbiato non solo con loro, ma anche con me stesso. Chi ho di fronte mi appare inelegante e rozzo, eppure ne desidero il riconoscimento. Lo desidero, mi rendo conto, con la disperazione di un neonato. Non riesco a perdonarmelo. Quello sensibile dice che non ho scelta. Do una pacca sulla spalla della ragazza dai riccioli fucsia. Devo andare, dico. I loro volti inespressivi dicono: bye. Poi si allontanano, gesticolanti.
I tacchi dei miei stivali battono il selciato. Mi bruciano gli occhi, ma non di sonno. Chissà che diavolo di ora è, la notte è meno profonda. Merda, la sigaretta, dovevo scroccargli una sigaretta. Un animale che non riesco a localizzare emette un verso agghiacciante. Mi scappa da ridere: c’è un punto in cui il dolore raggiunge un parossismo tale da non essere più credibile. Il ponte in fondo al canale è avvolto nella foschia, l’alba incombe. I cigni sono ancora acquattati ai piedi delle bagnarole che galleggiano nell’acqua torbida. Intorno a loro fluttuano sigarette, buste di McDonald, provette, tamponi, frammenti di un mondo usa e getta. Nylon, polistirolo, cellofan, elenca quello preciso. Sì, bravo, continua. Ritagliarsi una nicchia tra i frammenti di un mondo usa e getta, dice quello sensibile. Estraggo dalla tasca le chiavi, appoggio il chip sul sensore. La porta scatta, reverente. Forse, mi dico. Una parola che evoca la foschia che avvolge i ponti la mattina. La mastico tra i denti senza nemmeno rendermene conto, forse. Appoggio il chip sulla seconda porta, quella della mia stanza. Voglio costruire qualcosa.