Di tutte le domande

di Enrica Fei

Che poi questa storia di mia madre che si toglie la vita ormai è diventata un’abitudine.

Quando zia Sara mi chiama dalla sinagoga – ogni volta è lì, nei pressi, che mia madre decide di farlo, di buttarsi sotto una macchina o di fingere uno svenimento nel cortile dei Càroli e sbattere la testa contro il nano da giardino, quello che fa da guardia – insomma quando mi chiama quella pazza di Sara per dirmelo, altre volte gli infermieri, a volte addirittura la polizia, come se fosse un evento da celebrare con la reverenza sacra della paura, esco di casa, compro le sigarette, e mi incammino verso l’ospedale. È una passeggiata di circa un’ora, supero il giardino, la torre, il lago con le anatre e l’airone che plana sulle acque e trapassa i piccoli col becco e, steccando una sigaretta, poi un’altra e un’altra ancora, lascio che il fumo mi svuoti il cervello e arrivo al pronto soccorso del CTO. So benissimo che mia madre non è lì, che sarà al DEA – «Dipartimento Emergenza Accettazione», quanta altisonanza per un rito di suicidio quotidiano – ma, dopo averci passato i miei dieci, quindici, venti minuti ­– dipende, a volte anche di più – fingerò di essermi sbagliata: la confusione, lo shock, «non provateci, non potete capire: mia madre si è suicidata anche oggi». Sara, ogni volta, mi ripete le stesse parole: «Elah, non so come dirtelo». Un tempo la sentivo deglutire, tirare su col naso, le parole che risalivano dalla gola impastate di muco, catarro – infezioni perenni, Sara, microbi incistati sulle pareti bronchiali, parassiti a ventosa sul tubo digerente. Poi ha iniziato a forzare le pause – «Elah – pausa – non so come dirtelo – pausa –», che è un modo balordo di simulare l’emozione, e di recente ha iniziato a recitare il ritornello «Tua madre è mia sorella. Tu come una figlia.» che è un modo meschino, e triste, di ricordarmi chi siamo e chi sono, chi ero dodici anni fa e chi sono adesso. Se Sara non fosse balorda, del resto, non avvertirebbe me, della morte di mia madre. Se gliene fregasse qualcosa, a Sara – di mia madre, di me, di tutto il resto – non mi telefonerebbe: alla notizia di sua sorella sucida, continuerebbe a raccogliere le offerte, accendere i lumini, lucidare le sedute e, nella luce calda e colorata della sinagoga dove vive e lavora, sbrigherebbe una preghiera in fretta e la lascerebbe morire in pace.

 

In quest’ultima occasione in cui mia madre ha deciso di farla finita, qualcuno è svenuto, pare, dinanzi alla scena. Era al bar all’incrocio del viale che porta alla sinagoga, ovvio, da lì non si scappa, ma i personaggi nuovi, l’arma insospettabile, lo scambio di battute inedito. Alla ragazzina, la nuova cameriera del bar, mia madre ha fatto lo scherzetto – pure dai carabinieri, dopo, mi toccherà passare.

Questo è un salto in avanti, una trasformazione. Qualcosa sta cambiando. Ma anche le più grandi cesure, le rivoluzioni non possono stravolgere i riti, le abitudini – Babele che crolla e cambia il nome del mondo e noi, con un altro nome, non lo riconosciamo più, o Dio, Dio persino: Dio che si sente mediocre ma ormai ha parlato, poteva essere infinite cose, Dio, infinite voci, ma il Verbo è uno, uno soltanto, e il tempo eterno diventa l’unità di misura del suo fallimento. Persino queste trasformazioni non possono stravolgere gli ingranaggi silenziosi del tempo.

Quindi ora, come sempre, invece di andare subito da lei, sono nel mio rifugio del CTO. Postazione prediletta, l’ho trovata libera: prima fila lato destro ultima sedia a sinistra, ottima visuale dell’intera sala. È un parallelepipedo di vetro, la clinica, un giardino intorno di rose bianche e gigli, e con la luce da ogni lato, è una scacchiera, il CTO, un prodigio: le pedine umane corrono e si agitano tra le ombre e i punti luce, e il roseto, fuori, luccica di brina sotto il cielo tondo. Mi stringo nel cappotto e guardo il ghiaccio oltre la vetrata: i gigli sono di cristallo, quasi, prigionieri scintillanti, mentre io, al riparo, mi aggomitolo nel grumo caldo dei lamenti intorno a me. Mi assopisco al tepore luminoso che mi investe, e quando l’uomoconiglio fa un passo coi pantaloni ancora giù, inciampa, cade a terra e piange, chiudo gli occhi. L’hanno ricevuto subito, l’uomoconiglio; è arrivato una decina di minuti fa e di fronte all’infermiera si è slacciato la cintura e abbassato i pantaloni. Sono cascati a terra come pere, quelli, e lui è rimasto a gambe larghe, le cosce bianche, i boxer in vista ben riempiti. Immobile, l’ha guardata fissa: «ho un buco tra le gambe – ha detto spaventato all’infermiera – un cratere. Profondissimo: mi vedo dentro». Lei si è chinata, ha spostato lo sguardo attento da una coscia all’altra, ha studiato la ferita – una tomba profonda che arrivava all’osso – e seria, concentrata, eppure dolce, «Non è un cratere – lo ha rassicurato – è una tana». L’uomoconiglio allora si è fatto piccolo, bianco, peloso, gli occhi si sono appuntiti, arrossati, e dal labbro leporino ha squittito «Chi ci sta dentro?». Mi sono stropicciata il naso, ho sbadigliato e, grattandomi dietro l’orecchio, ho sorriso.

 

Mi stiracchio, sbatto gli occhi, afferro il cellulare. Quello vibra, si sconquassa, il nome sullo schermo fora il vetro: “Sorella”.

«Cara?», rispondo.

«Elah, dove diavolo sei. Sono al DEA, i medici stanno stabilizzando mamma. Chiedo agli infermieri ma continuano a dirmi di aspettare. È grave, Elah. Questa volta è davvero grave. Dove cazzo sei?»

«Sono le solite lungaggini: niente di nuovo. Arrivo. Sono al CTO.»

«Al CTO?! Dio, Elah, ma cosa diamine vai a fare ogni volta al CTO?!»

«Non nominare il nome di Dio invano, Rachele. Mi sto rilassando dai. Un attimo, arrivo…»

Spengo il cellulare senza riattaccare. Do un occhio all’orologio: forse è ora, in effetti. Mi alzo. L’uomoconiglio singhiozza in fondo alla sala sorretto da una piccola folla, l’infermiera in cappellino e abito bianco lo guida verso l’ascensore, io porto la mano sotto il golf, la camicetta, le dita sul basso ventre; calco i confini seghettati della cicatrice a rettangolo sull’addome.

Quando eravamo bambine, io e Rachele dormivamo nella stessa stanza. Lei aveva un letto molto più grande del mio, e ai piedi del suo baldacchino, come lo chiamavo io, c’era un cassettone non più lungo del letto e alto poco più di un metro. Oggi non ci entrerei nemmeno per metà, ma al tempo, di notte, qualche volta mi ci nascondevo, e Rachele, svegliata dai miei movimenti, mi seguiva. Entrava nel mobile a carponi e si rannicchiava accanto a me. Aveva otto anni, quattro meno di me, ma sembrava molto più piccola. Portava una candela e rimaneva lì, in silenzio.

Mi dirigo verso il DEA. Le porte automatiche si aprono al mio ingresso e l’infermiera dell’accettazione – sempre la stessa, sempre lei: quante volte mi ha sorriso, quante volte mi ha spiegato: “Sua madre si è buttata in mezzo a un viale”, “Ha battuto la testa nel cortile dei vicini” – mi riconosce e mi viene incontro. Prendendomi sottobraccio, scambia uno sguardo d’intesa con un collega, lui prende il suo posto al triage, lei mi guarda negli occhi, abbassa il capo a terra. Mi guida attraverso un reparto, poi un altro, e un altro, parla – parla parla parla parla, “Vuole sedersi?”, “È sicura?”, “Si può fare ancora tanto, davvero” –, inserisce una scheda elettromagnetica, supera una porta metallica, mi guida lungo un corridoio e si ferma, sorreggendomi.

La stanza di rianimazione ha le tapparelle abbassate. Nella luce soffusa, il monitor a fianco del letto traccia sottili segmenti verdi, picchi gialli, un piccolo quadrato rosso che lampeggia a intermittenza. Il materasso blu a camera d’aria sibila, una cannula entra nel naso, un grosso tubo penetra la bocca, una fascia metallica cinge il collo e decine di corde si allungano in dischetti che arpionano le spalle, le braccia, lo sterno, il ventre.

Rachele prega a occhi chiusi su nostra madre in coma. Tra le mani, una candela accesa.

 

Nessuno l’avrebbe mai detto. Eppure, cinque mesi dopo, festeggiamo il primo compleanno di mia madre da sopravvissuta. Tutte e tre, io, Rachele e Sara, siamo sedute attorno a lei sul letto matrimoniale dove riposa; dopo un mese di coma e uno di ricovero, è a casa ma ancora allettata.

Sara rovescia sul copriletto una quantità di ammennicoli di diversa fattura e fede religiosa: stelle di David fluorescenti, santini di porcellana in miniatura, braccialetti in praline di plastica con stelle a cinque punte e croci rovesciate. Con gli occhi umidi, porge a mia madre una cartolina della Natività a tema canino: il bambin Gesù è un cucciolo di barboncino bianco, Maria è un bassotto scuro a pelo lungo, Giuseppe un imponente San Bernardo e la stella cometa un golden retriever in picchiata. «Buon compleanno, sorella mia», si legge sul retro.

«Zia Sara, ti è sempre piaciuto scherzare!», commenta Rachele voltandosi verso nostra madre al suo fianco. «Avevamo detto che i regali li avremmo aperti dopo il gioco, zia», aggiunge passandosi tra le mani uno dei santini. «Buon compleanno, mamma», conclude rimpicciolendo il viso in un sorriso a pugno.

Mia madre troneggia avvolta da bendaggi e lenzuola. I tubi della flebo formano una raggiera alle sue spalle, sei cuscini la incoronano – a destra, a sinistra, dietro la schiena, sotto il collo –, il balsamo pastoso protegge le labbra, le labbra serrate proteggono la lingua. La lingua, trentatré punti di sutura: trentatré nodi di lacci neri che le forano la carne, si divincolano a ogni emissione di suono, si arricciano come vermi e pungono, strisciano, vogliono uscire. L’hanno ricucita sei volte. Ogni giorno l’aiuto a recuperare il suono e le parole. Era mio, il letto dove adesso dorme, mangia e tace; non c’era mai stata prima. Chissà cosa ha pensato quando l’hanno portata nel mio appartamento.

Il giorno del suicidio spettacolare, nessuno in quel bar aveva notato che mia madre trafficava sotto il bancone, si guardava attorno con fare furtivo, che le dita svelte e operose snocciolavano pezzi di vetro nel succo alla pera che aveva appena ordinato. Che con centinaia di frammenti e polvere di vetro si recideva la lingua, la laringe, la trachea, lo stomaco, l’interno tutto. «La cassa del ghiaccio: calici rotti nella casa del ghiaccio?», chiedeva il carabiniere in caserma. «Non avevo visto, lo giuro, non avevo visto», singhiozzava la cameriera accusata. «Mia madre muore», pensavo io.

«Per il mio regalo dovrai aspettare, mamma», Rachele si tira in un nuovo sorriso rivolto a nostra madre, «Passiamo al gioco misterioso che hai portato con te, zia!», aggiunge guardando Sara. «Spiegaci le regole, non vedo l’ora di scoprire cos’è!».

«Ho portato questi», Sara solleva da terra un grosso borsone di pelle, apre la zip e rovescia numerosissimi quadratini di legno. Ciascuno ha incisa una lettera dell’intero alfabeto che, nelle piccole geometrie, si moltiplica tre, quattro, cinque volte. «L’obiettivo del gioco è creare una pa-ro-la», Sara scandisce bene le sillabe ottuse dal catarro, «a turno prendiamo una lettera e, una dopo l’altra, costruiamo il vo-ca-bo-lo

Fisso in silenzio i tasselli di legno. Sono centinaia, migliaia, infinite combinazioni di suoni e parole.

Pochi giorni prima delle dimissioni, i medici mi hanno consegnato un fascicolo di esercizi che mia madre avrebbe dovuto eseguire ogni giorno per tornare a parlare. “Esercizi complessi”, hanno aggiunto, che avrebbero richiesto “la piena partecipazione della paziente” e il “massimo sostegno” da parte mia. Ci avremmo messo quattro, cinque, forse sei mesi prima che recuperasse l’articolazione della lingua a pieno. Le esercitazioni andavano in ordine di difficoltà: parole vocaliche, consonantiche, e per ogni consonante, prima alveolari semplici, poi gutturali, dentali, fricative, e alveolari complesse. Al primo tentativo con le vocali aperte – pura emissione di suono: bocca aperta e lingua immobile –, mia madre mi ha sfilato dalle mani il portacarte con gli esercizi e mi ha colpito in volto. Da quando abbiamo iniziato le consonanti, ho capito che, perché ci sia il minimo progresso, devo allontanarmi. Mi chiudo in cucina, in bagno, esco di casa. Solo in mia assenza parla e migliora.

Alla spiegazione del gioco, Rachele batte le mani entusiasta. «Ma è bellissimo!», commenta, «Così mamma si esercita». Sara osserva soddisfatta i quadrati sul letto, si soffia il naso e, di scatto, sposta il volto dalle lenzuola alla torta sul letto. Stacca un pezzo con le mani, lo trangugia. «Sono finiti i piattini», dice fissandomi con la bocca piena. Li ha usati tutti lei: li ha cambiati per ciascuna fetta di quiche, ciascun tramezzino, per ogni singolo involtino di verza e spiedino di pesce.

«Parlare tutte insieme», aggiunge Sara con solennità, «questa è l’i-dee-aa». Allunga il braccio verso terra mentre io, inginocchiata alla sua sinistra, impilo i piatti sporchi abbandonati sul pavimento. «Buono», dice sgranocchiando un gamberetto infilzato che ha afferrato da una ciotola usata.

«Costruiamo parole con le gutturali, allora! Sono le consonanti su cui sta lavorando mamma al momento», continua eccitata Rachele mentre Sara stacca le zampette del crostaceo succhiandole rumorosamente.

«Adesso sono le dentali», suggerisco a bassa voce, «le gutturali le ha finite».

«Con le gutturali non ha fatto grandi progressi», risponde lei, «non ti ricordi sabato cosa è successo?»

«L’aiuto ogni giorno. Faccio il possibile.»

Come tutti i weekend da quando mia madre è qui, sabato scorso Rachele si è introdotta nel mio appartamento. Ogni fine settimana, le lascio le chiavi, le lascio nostra madre, mi trasferisco temporaneamente nella casa di famiglia, la casa dove sono cresciuta e che non ho visto per dodici anni e dove mia madre, che vi ha vissuto tutta la vita, non poteva restare senza assistenza. Dormo nel soggiorno, sul divano che dà sul giardino nudo. Nella mia stanza non entro mai.

Ora Rachele mi fissa dall’alto muovendo la bocca in qualcosa che sembra un sorriso, no, è un lieve movimento del labbro inferiore verso sinistra, no, è una leggera increspatura di entrambe le labbra (le labbra, la bocca, la bocca piccola e turgida, una bocca come una rosetta di pane dicevamo da bambine; la sua bocca, la nostra bocca, la stessa la medesima il marchio a fuoco della nostra famiglia: uguale la bocca di Sara uguale quella di nostra madre uguale la mia prima che la segnassi con una virgola sul labbro superiore).

«Ti sto parlando», dice.

«Scusa, mi ero distratta.»

«Ripeto: forse il possibile non sta funzionando.»

Inclino il capo, assentendo.

Il gioco delle parole comincia: Sbiir-ccia, Sara incespica nella lingua italiana alla ricerca di suoni faringali, Scrruu-ta, Rachele la esorta fiduciosa, Gguar-dda!, giubilo di applausi.

Vado in cucina. Impilo i piatti nel lavandino e faccio scorrere l’acqua del rubinetto. Un piatto mi scivola di mano mentre lo lavo, casca nel lavello e si spacca in due. Afferro un pezzo, passo l’indice lungo la spaccatura. Inspiro, espiro. Premo più forte e sento le schegge spingersi nella ferita come mille sfridi appuntiti. Una stella di chiodi nei tessuti interni.

Fascio il dito con un pezzo di carta e apro la finestra, il rintocco della guglia ambrata ottunde i suoni dell’acqua che scende copiosa. Il campanile è una lingua di terracotta arancione; il cielo manifesto, asciutto e limpido. L’acqua cade verticale sulla C frastagliata della metà del piatto, spinge gli avanzi ai bordi. Quelli galleggiano e restano lì, unti e gonfi.

Sarebbe bastata l’acqua, la notte del taglio sul labbro col pezzo di vetro, la notte in cui la mia bocca ha smesso di essere la bocca della famiglia, lo specchio della comune discendenza, la notte in cui ho inciso la mia impronta nello spazio concavo al di fuori del punto di incontro. Rachele bambina mi guardava per capire, la bocca a rosetta che tremava, perché, dicevano gli occhi, perché ti tagli, e io che tacevo, la cacciavo, non trovavo le parole (non volevo trovarle, non le conoscevo, una tana, penso che avrei potuto dirle, una tana in cui nascondersi e capire: è una tana piccola, Rachele mia, non ci entriamo tutte e due, mi fai sempre tante domande – Elah perché la mamma dice che sei cattiva, che sei diversa, perché ti fai sempre del male – ma come spiegarti il piacere, come spiegarti il sollievo: tracciare il sentiero del dolore sul corpo e farlo materia, portare il dolore dentro la pelle e capirlo. È come trovare delle risposte, Rachele mia, come infilarcisi dentro).

L’odore del sangue, non è vero che la memoria olfattiva trapassa il tempo come la luce, la virgola sul labbro quella notte e nessun odore, il sangue in bocca, sul collo, le mani, le lenzuola bianche imbrattate, il letto a baldacchino, la stanza antica, e le candele, le mille candele, Rachele con le fiammelle che portava sempre per guardarmi, per capire. Sarebbe bastata l’acqua quando l’incendio divampò, moriremo, gridava Rachele, moriremo. No, dicevo io stringendola forte mentre singhiozzava, non ci succederà niente: sono le stelle di Dio scese sulla terra dove non le avremmo immaginate mai.

 

«Cani grugniscono ai ghiri!», applausi e tripudi, la festa continua. Torno da loro e mi risiedo sul letto.  Mia madre è il solito stemma di flebo e cuscini: non può muovere la testa con facilità ma le braccia si muovono svelte, è un manichino bianco robotizzato che fa scivolare i quadrati tra le lenzuola, le parole gutturali, le frasi assurde. Sembra allegra, divertita: non caccia fuori la lingua per mostrarmi i filacci neri che la tengono insieme. «Stai bene?», le chiedo. Lei stringe la mano di Rachele e mette insieme qualche quadratino. Giocondo. Okay.

Sara rimescola le lettere.

«Tocca a te, Elah!».

«Tocca a me?»

«Direi di sì, abbiamo già fatto cinque giri», commenta Rachele. «Sei stata mezz’ora chiusa in cucina», aggiunge raddrizzando la schiena.

«Non sono brava in queste cose»

«Forza, su», sorride compunta.

Fisso le lettere. Sposto qualche quadrato a caso. Ci sono troppe parole, in quei tre, quattro, cinque alfabeti rovesciati sul letto, troppe domande. Se c’è qualcosa che ho imparato nei dodici anni in cui sono stata sola (sola sola sola sola, mi si è appiccicata alla pelle questa solitudine, si è annidata nei tessuti epidermici, ha scavato cunicoli, partorito uova, uova scabbiose che si sono dischiuse e moltiplicate) è non parlare più, non cercare risposte, non dire più niente che non sia silenzio celato. Mi concentro sui rumori intorno a me e li elimino – il catarro di Sara, i commenti di Rachele, i mugugni appena accennati di nostra madre –, li sottraggo dalla planimetria uditiva. Nel campo vuoto del silenzio assoluto, torno allo scalpicciare delle zampette tozze, i grattini sulle pareti, lo squittio della corsa sotto il letto.

«Lunghe aquile cuoche!»

«Bravissima zia, ma è il turno di Elah. Elah?»

Veloce prendo una lettera, poi un’altra, un’altra ancora. Compongo l’unica parola possibile.

Rachele resta immobile sopra il serpente squadrato delle lettere che ho messo insieme.

C-O-N-I-G-L-I-O. Il rettile di legno si allunga sotto il sole in otto pezzi disarticolati e beffardi, la bocca senza denti ha mangiato la parola, l’ha inghiottita tutta intera, prova a toglierla adesso, provaci se hai il coraggio.

Rachele inala l’aria e la ingoia, gli occhi si fanno acquosi, le labbra a rosetta si stringono.

L’uomo che ci regalò il nostro coniglio si avvicinò nel giardino dove giocavo con Rachele e ci abbracciò entrambe. Poi aprì la scatola di cartone che aveva con sé. Era un coniglietto bianco così piccolo che me lo porse tenendolo in una mano, una soltanto. Quando lo portammo a casa, nostra madre disse che i conigli erano animali sporchi, che nel nostro giardino non poteva stare perché il giardino era un luogo divino, che avrebbe bevuto dalla fontana, avrebbe insozzato la fonte, io insistevo che era un dono e che i doni non si rifiutano e lei mi schiaffeggiava, non sai cos’è un dono, non lo hai mai capito: “Alzerò il calice della salvezza, invocherò il nome del Signore”, questi sono i doni, questi. Nostra madre gridava e il coniglio scappava sotto il letto, Rachele piangeva, mamma perdonaci: ce lo ha regalato un signore che sembrava buono, quando torna ci parliamo e gli diciamo che deve riprenderselo. Adoravamo quel coniglio, io e Rachele, lei gli canticchiava la ninna nanna accarezzandolo quando dormiva, io lo portavo di nascosto nel letto a baldacchino e gli sussurravo parole segrete: io lo so che quel signore che ti ha portato qui è papa, lo so anche se papà non l’ho mai conosciuto. Un giorno papà verrà a prenderci, scapperemo con lui, e saremo felici.

Rachele ora è in piedi di fronte al letto. Le lacrime scendono senza che stringa gli occhi. Il suo viso è granitico, inalterato. Io continuo a comporre le mie parole, a parlare la mia lingua. Prendo quattro quadratini di legno. M-O-M-O.

Al coniglio fu dato un nome: Momo. Nostra madre insisteva che solo lei poteva nutrire Momo, che solo lei poteva occuparsene, correggerlo, così diceva, “Non porrò davanti a miei cosa abominevole; odio chi fa il male, non mi starà vicino”; da quando lei lo sfamava, lui ogni tanto faceva strani squittii, intermittenti e acuti, altre volte si contorceva, una strana bava usciva tra i denti. Lo stava uccidendo, ne ero sicura, lo stava avvelenando perché ce lo aveva regalato nostro padre. Decisi che Momo non doveva soffrire; non lui, non il nostro coniglio. La piccola lingua sbucava dalla bocca aperta, quando misi le mie mani sul suo collo, il corpicino bianco che sussultava, gli occhi neri sembravano uscire dai bulbi e camminare, camminare davanti a lui, camminare davanti a me. Strinsi a lungo. Per molti mesi successivi, ogni notte, io e Rachele piangevamo abbracciate il nostro coniglietto che non c’era più. Rachele sapeva che ero stata io: urlava forte mentre lo uccidevo, Elah perché, ti prego, perché, ma mai nella nostra infanzia provò rancore, mai mi rimproverò la decisione che avevo preso. Parlavamo la stessa lingua, al tempo, avevamo le stesse domande; conoscevamo lo stesso alfabeto, le stesse parole. Ma le lingue, si sa, si dimenticano: le sillabe si invertono, le parole diventano misteriose, impossibili, impronunciabili. Nell’alfabeto di Rachele, oggi, CONIGLIO, MOMO sono tutta la sua rabbia, tutta l’insofferenza per la mia incapacità di partecipare a questo gioco, tutto il suo odio per il coniglietto che le ho portato via, per i miei dodici anni di silenzio, per il mio non essere in grado di aiutare nostra madre a parlare.

Rachele adesso, quasi trent’anni dopo, mi guarda dall’alto in piedi a fianco del letto. Sbatte gli occhi, vi passa una mano, nasconde le lacrime in un pugno.

«Mamma ha sempre avuto ragione. Non ci appartieni, non sei una di noi»

Sposto leggermente il capo. Non guardo lei, non guardo nostra madre, non guardo Sara.

«Sei scomparsa per dodici anni», la voce di Rachele si abbassa, si fa crettata e buia, «mamma che non hai ascoltato, tutto il suo dolore che non hai mai capito. I tagli che ti infliggi per farci male. Solo da adulta ho capito quanto tu sia egoista.»

Stringe il pugno. Lo stringe lo stringe lo stringe.

«Non ci appartieni, non sei una di noi»

«Rachele», sussurro alzando lentamente lo sguardo. «Sono quasi tre mesi che ho nostra madre in casa»

«Elah», dice inginocchiandosi sul letto e prendendomi le mani, «sei l’unica che ancora non conosce il mio regalo per lei. Non fa alcun progresso con te: parla molto meglio di quanto pensi, sai? E infatti, per il suo compleanno, la prendo e la porto a casa mia.»

Mi volto verso nostra madre. Il suo sguardo è in un punto indefinito oltre il letto, oltre la finestra, oltre il cipresso che si erge sulla collina poco fuori città.

Sara sul letto è un’enorme locusta, il corpo coriaceo in lunghe zampe sottili, le ali traslucide, gli occhi gemmati. Le chele raccolgono i quadrati di legno sparsi sul letto, li ripongono nella borsa di pelle. Io prendo le mani di mia madre, mamma, penso, rivedo il primo suicidio, il secondo, la telefonata, l’ospedale, mamma i miei tagli, sai, non so cosa dire, non saprei cosa aggiungere, si avviano verso la porta, tutte le volte che hai provato a morire, se c’è qualcosa che ho imparato nei dodici anni in cui sono stata sola, non saprei continuare. Rachele dice parole che non sento, la locusta schiocca un bacio metallico sulla testa di mia madre, la porta si chiude. Sono in piedi. Il silenzio è una corda che si allunga dal cielo alla terra.

 

Rachele e Sara sono uscite da circa mezz’ora. La luce dalla finestra scintilla sulla flebo, su mia madre, sui bendaggi che la coprono e i cuscini che l’avvolgono.

Dodici anni fa, quando sull’addome disegnai con una lametta un rettangolo perfetto, mentre il sangue usciva e i suoni diventavano rotondi, cavi, gli oggetti si scioglievano, le pareti si ritiravano e avanzavano, inspirando ed espirando, formulai una domanda perfetta e pensai che l’avrei posta a mia madre non appena l’avessi vista mia madre. Poi mi ero svegliata in ospedale. Ci avrei passato tre mesi; avevo reciso l’arteria epigastrica.

Mia madre veniva trovarmi ogni giorno, all’inizio. Dopo l’operazione chirurgica, quando ero ancora solo semi-cosciente, sedeva accanto al mio lettino e mi recitava i Salmi, baciandomi sulla fronte a ogni preghiera conclusa. Poi, da un momento all’altro, non venne più. Avevo ricominciato a parlare, a mangiare senza sondino, camminare sorreggendomi all’asta porta-flebo. Non ricordo più cosa la fece arrabbiare. Smise di venire lei, smise Rachele. Sara, pure, scomparve. Il giorno delle dimissioni, l’infermiere mi fece sapere che un appartamento di famiglia era a mia disposizione. Mi diede le chiavi, chiamò un taxi; mi aiutò a entrarci, e mi mandò via. Dodici anni dopo, al primo dei tanti suicidi di mia madre, qualcuno dell’ospedale mi telefonò.

Seduta sul letto, guardo mia madre dinanzi a me. Vorrei chiederle perché: perché te ne sei andata, perché mi hai abbandonato, perché, quando ero bambina, mi dicevi sempre che ero diversa, “di un’altra razza”, dicevi, una razza “storta”, “infame e dannata”. Sempre mi sono chiesta di quale razza tu parlassi; non ci credo, sai – mi perdonerai per questo –, ma tu stessa hai sempre detto che le tribù di Israele erano dodici. Quale era fra queste quella segreta, dimenticata e guasta, e cosa fa di me un loro membro: perché, come, quando. Sai, vorrei chiederti tutto ma, quando cerco le parole, la domanda si fa sciocca, falsa, ne cerco un’altra e quella si sfalda, la riafferro e quella si perde, sparpaglia: semi di tarassaco che si aprono a ventaglio.

Il volto ferito mi osserva serio. Prima che Sara e Rachele tornino, ho un’ora, forse meno. Di tutte le domande, le faccio proprio la più lontana, la più antica: quella che, dopo il taglio sull’addome, avevo visto dinanzi a me.

«Mamma. Quando ero bambina. Perché non mi chiamavi mai col mio nome. Mi chiamavi “Laura”, “Beatrice”, “Arianna”, nomi che non erano miei.»

Lei chiude gli occhi, li riapre. Stringe le mani una sull’altra, deglutisce. Dalla bocca esce perfetto ogni suono:

«Egli conta il numero delle stelle. Tutte loro chiama per nome.»

Sposto leggermente il capo; alzo di poco le sopracciglia. Non ho capito, vorrei dirle, non ho capito. Vorrei dirle ma non parlo: ho finito le parole, la domanda è andata via.

Il muco le scende dal naso; lo nasconde alla vista con la mano. La bocca trema; gli occhi luccicano. Stringe le braccia, curva la schiena. Sembra una bambina. Da qualche parte, tra le rughe, i bendaggi, sulla lingua ferita e suturata, ci dev’essere il senso delle sue parole.

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Giorgio Mascitelli ha pubblicato due romanzi Nel silenzio delle merci (1996) e L’arte della capriola (1999), e le raccolte di racconti Catastrofi d’assestamento (2011) e Notturno buffo ( 2017) oltre a numerosi articoli e racconti su varie riviste letterarie e culturali. Un racconto è apparso su volume autonomo con il titolo Piove sempre sul bagnato (2008). Nel 2006 ha vinto al Napoli Comicon il premio Micheluzzi per la migliore sceneggiatura per il libro a fumetti Una lacrima sul viso con disegni di Lorenzo Sartori. E’ stato redattore di alfapiù, supplemento in rete di Alfabeta2, e attualmente del blog letterario nazioneindiana.
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