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Il romanziere a caccia di chimere: “Palafox” di Éric Chevillard

 

 

di Daniele Ruini

Dopo una prima apparizione presso le edizioni Del Vecchio (2018), torna ora nelle librerie italiane Palafox, terza opera del mirabolante Éric Chevillard. La riproposta si deve a Prehistorica Editore, che ha dedicato un’intera collana, chevillardiana, a quello che è considerato uno degli autori più estrosi della letteratura francese contemporanea. E come i 5 titoli già usciti, anche questo libro è tradotto e curato da Gianmaria Finardi, che di Prehistorica Editore è fondatore e direttore, e che ha fatto di Chevillard il fulcro della sua impresa editoriale (non sarà forse un caso che Préhistoire è il titolo di un altro testo –non ancora volto in italiano– dello scrittore francese).

Pubblicato originariamente in Francia nel 1990 da uno Chevillard all’epoca ventiseienne per le prestigiose Éditions de Minuit, Palafox mostra un autore già pienamente padrone di tutti quegli strumenti stilistici che caratterizzano la sua originale produzione. Erede dell’esuberanza comica di Rabelais così come della tradizione anti-romanzesca risalente a Laurence Sterne e Denis Diderot, e accogliendo dall’OuliPo l’idea di una letteratura che mette al centro il piacere del gioco intellettuale, Éric Chevillard nei suoi libri prende le distanze da ogni costruzione romanzesca tradizionale (di cui, semmai, si presenta come un consapevole sabotatore) e si lascia andare a una disinibita invenzione continua, giocando sia con la lingua sia con l’orizzonte d’attesa dei lettori. Caratteristiche che lo avvicinano, per certi versi, a uno scrittore come Ermanno Cavazzoni, col quale sembra condividere una pratica letteraria intesa come libera fantasticazione e manìa completamente aliena dalle aspettative del mercato.

E proprio come un’invenzione continua potrebbe essere definita questa bizzarra creatura che ha nome Palafox e che è strutturata in una successione di episodi tenuti insieme dal vano tentativo di classificare l’essere proteiforme del titolo intorno a cui tutto ruota. Chi è Palafox? O meglio: che cosa è? Sbucato da un uovo sulla tavola che l’ambasciatore inglese in pensione Algernon Buffoon condivide con la figlia Maureen e con il futuro genero Chancelade, la sua vicenda giunge a conclusione 188 pagine dopo senza essersi minimamente avvicinati a una qualche risposta. Si capisce subito, d’altra parte, che è l’enigma stesso, più che la sua eventuale risoluzione, a dare senso a una narrazione che si alimenta per così dire da sé, continuamente rilanciata dalla sfrenata fantasia dell’autore. L’unica caratteristica di Palafox a cui i personaggi, e noi con loro, riescono ad attingere è la sua natura di essere camaleontico, che sembra contenere in sé le proprietà di tutti gli animali. Di qui le difficoltà a imporgli una qualche educazione o a renderlo socialmente presentabile, e di qui anche la frustrazione dei quattro luminari (un entomologo, un ornitologo, un erpetologo e un ittiologo) convocati per dirimere la questione e i cui approcci forniscono a Chevillard l’occasione per elaborare alcune delle pagine più assurdamente burlesche di tutto il libro.

Il gioco che lo scrittore francese porta avanti con attitudine umoristica si propone, evidentemente, come una messa in scacco di ogni pretesa classificatoria: le metamorfosi continue di Palafox, che rendono impossibile definire la sua natura, diventano una divertita presa in giro del tentativo di sistematizzazione di ogni realtà irriducibile al già noto. E il ludibrio tassonomico –sotto forma di elenchi e liste, nonché ricorrendo sovente a un lessico iperspecialista e settoriale (soprattutto trattando di flora e fauna)– di cui Chevillard dà prova diventa parodia di un enciclopedismo fine a sé stesso rispetto cui l’indefinibile Palafox è sempre sfuggente.

Tutto il romanzo si muove sotto il segno del depistaggio: la narrazione, spesso aperta a scenari alternativi (accennati ma mai approfonditi) e continuamente frammentata da digressioni, vuole deliberatamente privare il lettore di appigli saldi su cui edificare delle certezze. Per esempio, da alcuni indizi si potrebbe ipotizzare che la vicenda sia ambientata durante la Prima guerra mondiale, ma la cosa è tutt’altro che certa.

È come se, richiamandosi ai cliché del romanzo tradizionale per negarli, l’autore si divertisse ad alludere ad altre possibilità verso cui la storia avrebbe potuto indirizzarsi. In questo senso è facile vedere nell’inafferrabile Palafox un correlativo oggettivo del tipo di scrittura letteraria che interessa a Chevillard; ce lo confermerebbe il narratore stesso quando, verso la fine, se ne esce dichiarando che Palafox «svolazza attorno alla lampada mentre noi tracciamo queste righe» e domandandosi se «è un caso se i passi più contestabili di questo trattato sono esattamente quelli che abbiamo scritto in presenza di Palafox, e se le nostre frasi si imbrogliano ogni volta che viene a gironzolare sotto la lampada?» (p. 166).

Questa creatività inesauribile coinvolge anche la lingua, l’autore servendosi «di un’infinità di espedienti e procedimenti al fine di liberarsi dalle briglie della lingua standard» (dalla postfazione di Finardi). E a questo proposito va dato atto al traduttore dello sforzo nel rendere in italiano le acrobazie linguistiche di Chevillard: si prenda, per esempio, l’incipit, dove l’ostinazione paronomastica dei verbi Décapsule-t-on, décapite, décapote, décalotte (attraverso i quali si cerca di definire –per approssimazione– l’azione di rompere la sommità di un uovo attraverso un cucchiaino) viene resa ricorrendo a Si scapsula, si scavezza, scapotta, scalotta (p. 7). O i vari casi in cui si ricreano in traduzione le rime interne o i giochi di parole del testo originario (per es. «De là à parler d’une impasse, il n’y a qu’un pas» tradotto con «Da lì a parlare di un’impasse, il passo è breve», p. 29).

E se, come si sarà capito, la cifra di Palafox risiede in una comicità surreale e paradossale che arriva a esibirsi in turbinosi tour de force virtuosistici (come le pagine che descrivono le acrobazie del circo della vasta famiglia Luzzatto, o quelle dedicate a tutti i possibili modi per cucinare Palafox), Éric Chevillard si mostra capace anche di altro, come di descrivere in punta di penna l’effetto del passaggio del tempo sul desiderio:

Ci si calma con l’età: gli ascensori, i giardini pubblici, gli aerei di linea e le porte carraie perdono il loro potere di suggestione erotica, si prende bruscamente coscienza dell’esiguità e della scomodità di quei luoghi, il rischio di essere sorpresi da una guardia o da una hostess non aggiunge più il minimo piccante alla situazione, ormai nulla vale il letto tra due sonnellini per quelle cose, del resto sempre meno spesso, siamo franchi, alla frenesia della passione e del desiderio succedono la tenerezza e la fedeltà complicate da andropausa, un attaccamento più puro e più durevole […]. Perché gli anni passano, il risentimento si insedia e cresce, un brutto rancore, si è così vecchi e così malati, troppo magri e barcollanti per toccarsi senza scorticarsi, si resta insieme comunque, non si hanno più gambe per allontanarsi, la montagna comincia sulla soglia della casetta, allora ci si sopporta, si ricorda, seduti fianco a fianco, silenziosi, si è dimenticata la lingua, due mani si sbriciolano l’una nell’altra, ogni occhio non vede più altro che la propria lacrima, vi si suppone il vasto mondo inghiottito, si è l’ultimo sopravvissuto, il vedovo o la vedova, uno alla volta, il morto (p. 130)

Insomma, tanti sono i registri con cui il romanziere a caccia di chimere sa affascinare chi è ben disposto a farsi trascinare nelle sue fantasticazioni.

 

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ornella tajani
Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa prevalentemente di studi di traduzione e di letteratura francese del XX secolo. È autrice dei libri Tradurre il pastiche (Mucchi, 2018) e Après Berman. Des études de cas pour une critique des traductions littéraires (ETS, 2021). Ha tradotto, fra vari autori, le Opere di Rimbaud per Marsilio (2019), e curato i volumi: Il battello ebbro (Mucchi, 2019); L'aquila a due teste di Jean Cocteau (Marchese 2011 - premio di traduzione Monselice "Leone Traverso" 2012); Tiresia di Marcel Jouhandeau (Marchese 2013). Oltre alle pubblicazioni abituali, per Nazione Indiana cura la rubrica Mots-clés, aperta ai contributi di lettori e lettrici.
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