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Surrealismo, istruzioni per l’uso

 

Photographie du groupe surréaliste lors du vernissage de l’exposition « Dada Max Ernst », le 2 mai 1921 – – Auteur inconnu © Chancellerie des Universités de Paris – BLJD, Paris / cliché © BnF / Suzanne Nagy

 

di Giovanni di Benedetto

 

  1. Lâchez tout! Come sono diventato un surrealista

Il 9 aprile 2013 un treno in partenza da Napoli Centrale mi avrebbe portato, l’indomani, a Parigi[1]. Sulla banchina, lo sguardo di Gilda mi rivelava, infine, cosa volesse dire André Breton nelle pagine finali di Nadja quando definiva la bellezza come un treno in partenza dalla Gare de Lyon che non parte mai ma che pure è sempre sul punto di partire. Un movimento convulsivo: un’aritmia che trasforma il cuore in un sismografo. A mano a mano che il viso di Gilda sfilava via dal finestrino – e, questo non lo sapevo ancora, dalla mia vita – un altro si sostituiva al suo: il mio. Chi sono? mi chiedevo, facendo eco alla stessa frase con la quale si apre Nadja. Sono un surrealista. Questa è l’unica risposta che volevo dichiarare alla frontiera e far inscrivere sul mio passaporto. Presi dal taschino interiore della giacca il mio quaderno. Lo sfogliai: sulla prima pagina, come epigrafe, avevo ricopiato la poesia di Breton con la quale aveva rotto col Dadaismo, Lasciate tutto[2] e, di seguito, il Primo Manifesto Infrarealista di Roberto Bolaño, intitolato, non a caso, Lasciate tutto, di nuovo[3]. Ritrovai poi la pagina dove il professor Merlino aveva annotato l’indirizzo e il numero di telefono di Gabriel Saad[4]. Composi il numero e gli inviai un messaggio per chiedergli un appuntamento. Una settimana dopo, sarei stato cordialmente invitato a far parte del Centre de Recherche sur le Surréalisme[5].

Quando quest’estate ho letto in un trafiletto dell’Humanité che il Centre Pompidou avrebbe organizzato una mostra sul Surrealismo in occasione dei cento anni dalla pubblicazione del Manifeste du Surréalisme, ho iniziato a pensare a quante volte mi è capitato di pronunciare la parola SURREALISMO in questi undici anni. E poi, come seduto in un treno della Gare de Lyon, ho visto sfilare i volti e i paesaggi che non solo hanno definito i contorni ma hanno tenuto insieme i pezzi di questi undici anni. Mentre scrivo quest’articolo, mi rendo conto dell’impossibilità di farne a meno. In Nadja, Breton dichiarava la necessità di scrivere dei libri aperti come delle porte spalancate, e così facendo, l’esigenza di reclamare i nomi[6].  «Chi sono, io? Se per una volta mi rifacessi a un proverbio: in fondo potrei forse domandarmi semplicemente qui je hante: chi frequento, chi infesto»[7]. Quando ripenso a come sono diventato un surrealista, il cuore inizia a battere come un sismografo: i volti amati diventano la dimostrazione della teoria della deriva dei continenti, e mentre si allontanano, altri, sconosciuti, sorgono dalla faglia terrestre come una foresta in movimento.

 

  1. Surréalisme. La mostra del centenario al Centre Pompidou di Parigi

In occasione dei cento anni dalla pubblicazione del Manifeste du Surréalisme di André Breton, il Centre Pompidou ospita dal 4 settembre 2024 al 13 gennaio 2025 la mostra Surréalisme. Organizzata come un labirinto, l’esposizione prende avvio da una sala in cui è esposto il manoscritto originale di Breton, acquisito di recente dalla Bibliothèque Nationale de France. Più di cinquecento opere, suddivise in tredici capitoli tematici, tracciano una mappa dei leitmotiv poetici del movimento dal 1924 al 1969, anno in cui Jean Schuster decretò lo scioglimento del gruppo surrealista.

I curatori Didier Ottinger (già responsabile della mostra Le Surréalisme et l’objet nel 2014) e Marie Sarré hanno scelto di articolare il percorso guidando il visitatore attraverso tredici temi: 1. Entrée des médiums, 2. Trajectoire du rêve, 3. Machines à coudres et parapluies, 4. Chimères, 5. Alice, 6. Monstres politiques, 7. Le royaume des mères, 8. Mélusine, 9. Forêts, 10. La pierre philosophale, 11. Hymnes à la nuit, 12. Les larmes d’Éros, 13. Cosmos.

In ossequio al carattere internazionale del Surrealismo, dopo il Pompidou, la mostra approderà ai Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique a Bruxelles (dal 21 febbraio al 21 luglio 2025), alla Fundación Mapfre a Madrid (febbraio-maggio 2025), alla Hamburger Kunsthalle di Amburgo (dal 12 giugno al 12 ottobre 2025) e, infine, al Philadelphia Museum of Art (dal novembre 2025 al febbraio 2026).

 

  1. «Il linguaggio è stato dato all’uomo affinché ne faccia un uso surrealista»

Avventurandosi tra le tredici sale, al visitatore potrebbe capitare di provare, per qualche istante, la vertigine del dérèglement de tous les sens di Rimbaud che era così caro ai surrealisti: lo spazio di ognuna delle sale è saturo all’inverosimile. I quadri, le sculture, gli oggetti surrealisti, i manoscritti, le teche che racchiudono libri e riviste, le persone stesse che visitano la mostra, tutto sembra partecipare ad un medesimo happening volto a dimostrare le possibilità di esaurimento di una parola: SURREALISMO. L’esperienza tende a configurarsi come un manuale di istruzioni a cui attenersi per ottenere una definizione quanto più enciclopedica del Surrealismo. Una definizione che però, ponendosi come semplice tema, riduce le opere a mere illustrazioni e non, come si deve, a una concezione del mondo.

Se volessimo utilizzare le parole che Breton stesso utilizza nel Manifeste du Surréalisme, diremmo che la mostra si limita ad essere un «puro e semplice sovrapporsi delle illustrazioni di un catalogo»[8]. Questa formula era stata utilizzata da Breton per criticare «l’atteggiamento realista» e, più in particolare, il procedimento della descrizione del romanzo realista. In un saggio del 1936 intitolato Narrare o descrivere?, György Lukács individua nell’antinomia tra narrazione e descrizione non solo la scelta di una tecnica letteraria tramite cui rappresentare la realtà, ma, soprattutto, due azioni che presiedono a una differente concezione del mondo. Narrare o descrivere? Il quesito investe il rapporto stesso che uno scrittore ha con la vita: partecipare o osservare?[9] Osservare presuppone un certo tipo di atteggiamento davanti al mondo e alla vita e la descrizione è il mezzo espressivo di tale atteggiamento. Descrivere è un’interpretazione del mondo. E, dal momento che per i surrealisti «l’attività di interpretazione del mondo deve continuare ad essere legata all’attività di trasformazione del mondo»[10] , rifiutare la descrizione è un’azione etica, prima ancora che estetica: «Qualsiasi errore nell’interpretazione dell’uomo porta con sé un errore nell’interpretazione dell’universo: ed è quindi un ostacolo alla sua trasformazione»[11]. Il surrealismo è innanzitutto una concezione del mondo. Una concezione del mondo che ipotizza e ipotèca la parola rivoluzione coniugando il verbo di Marx con quello di Rimbaud: «Trasformare il mondo, ha detto Marx, cambiare la vita, ha detto Rimbaud: per noi, queste due parole d’ordine fanno tutt’uno»[12]. Il surrealismo è al servizio della rivoluzione, come decreterà Breton nel 1929 in seguito alla pubblicazione del Second Manifeste du Surréalisme. E la rivoluzione, per i surrealisti, è un progetto di vita.

Ora, la mostra del Centre Pompidou, museificando e tematizzando il surrealismo, finisce col neutralizzare e anestetizzare la portata rivoluzionaria di cui è portatore. Annie Le Brun, in Qui vive. Considérations actuelles sur l’inactualité du surréalisme (Flammarion), un saggio del 1991 pubblicato in occasione di una mostra che il Centre Pompidou aveva dedicato ad André Breton e che è stato riedito in occasione della mostra del centenario, critica vivacemente l’addomesticamento subito dal Surrealismo dovuto alla «neutralisation universitaire» e alla sua «spectaculaire transmutation en valeur marchande». Annie Le Brun, che, nel 1966 – poco più che ventenne – ha conosciuto Breton entrando a far parte del gruppo surrealista poco prima della morte del suo iniziatore, ricorda come Breton si sia opposto, durante tutta la sua esistenza, alla «sopravvivenza del segno alla cosa significata» e come questa minaccia di cristallizzazione estetica sia stata all’origine degli innumerevoli riorientamenti che hanno ritmato la storia del Surrealismo.

Il demerito più grande della mostra del centenario al Pompidou è aver completamente tralasciato ciò che ha permesso al Surrealismo di reinventarsi di continuo e definirsi, di fatto, come una rivoluzione permanente: l’aver inteso dialetticamente la realtà e l’immaginazione, ponendo quest’ultima come principio di trasformazione della prima e facendo di tutta l’impresa surrealista, senza distinzione possibile tra produzione di opere e riflessione metodologica, come un’operazione di vasta portata svolta sul linguaggio. Quando Breton si chiede se «la mediocrità del nostro universo non dipende forse essenzialmente dal nostro potere di enunciazione», delinea un vero e proprio piano d’azione, ancora oggi di grande attualità (la lotta per l’adozione della scrittura inclusiva non è forse un tentativo di intervenire, attraverso il linguaggio, sui rapporti di forza determinati dal patriarcato, contribuendo ad ampliare la lotta di classe nella sfera linguistica trasformando il mondo e cambiando la vita proprio come auspicato da Breton?). Quando nel Manifesto è chiaramente annunciato che  «il linguaggio è stato dato all’uomo affinché ne faccia un uso surrealista», Breton indica come le differenti tecniche adoperate dai surrealisti per interrogare la (sur)realtà – la scrittura automatica, i cadavres exquis, i racconti di sogni, i collages, la fotografia, il cinema, la pittura, e quei particolari tipi di oggetti romanzeschi che sono Nadja di Breton e Le Paysan de Paris di Aragon – partecipano, senza stabilire una gerarchia, alla trasformazione della realtà. D’altro canto, più che definirle tecniche, esse andrebbero definite come variazione di una stessa pratica: la poesia. Poesia che chiaramente, seguendo Annie Le Brun, non è da intendersi come forma esclusivamente letteraria, ma come coscienza poetica, e, in definitiva, come la pratica del mondo auspicata da Rimbaud: «la poesia non ritmerà più l’azione, le sarà davanti».

Quando nel 1940 Hitler entra a Parigi, tutti i surrealisti si organizzeranno prendendo parte, senza esitazione, alla Resistenza e alla lotta armata. Immaginare un altro mondo e lottare affinché esso diventi realtà, era qualcosa la cui necessità faceva parte del loro stesso essere. Il surrealista non scrive poesie. Il surrealista fa la poesia. Il surrealista non esegue dipinti a partire da un tema, il surrealista insorge contro la rappresentazione museificata della realtà perché la realtà è per lui una possibilità continua di esercitare una rivoluzione permanente.

Mentre il visitatore della mostra del centenario organizzata dal Centre Pompidou si dirige alle toilettes per una breve pausa e il lettore si dimestica tra le note di quest’articolo chiedendosi «e dunque, ‘sta mostra?, vado o resto a casa?», chiamiamo alle armi i nostri fratelli e chiediamo, ufficialmente, l’occultamento del Surrealismo.

 

  1. Il Surrealismo in clandestinità

«L’approvazione del pubblico è da fuggire più di ogni altra cosa. Bisogna assolutamente impedire al pubblico d’entrare se si vuol evitare la confusione. Aggiungo che bisogna tenerlo esasperato alla porta con un sistema di sfide e di provocazioni. CHIEDO L’OCCULTAMENTO PROFONDO, EFFETTIVO DEL SURREALISMO. Proclamo, in questa materia, il diritto all’assoluta severità. Nessuna concessione al mondo, nessuna grazia. Di fronte a noi, la terribile alternativa». (André Breton, Secondo Manifesto del Surrealismo, 1929).

*

Il visitatore, dopo aver scrollato a fatica, con un leggero affanno, le ultime gocce di urina, riabbottona il suo pantalone e tira lo scarico. Seguendo il vortice che si crea nel gabinetto, si rende conto, in ritardo (era intento a ricordarsi dove avesse già visto quel quadro di Dalì e a chiedersi il senso, se gli fosse piaciuto o meno, se fuori piovesse ancora e a che ora sarebbe rientrato a casa per non perdersi l’ultimo episodio della sua serie preferita), che c’è un pezzo di merda che galleggia sulla superficie vischiosa dell’acqua senza andare nel fondo e che quel pezzo di merda che galleggia gli ricorda la forma di una pistola, o una stella, o il vuoto, o l’infinito a cui pensava da bambino quando guardava il cielo stellato, o il primo amore o tutte queste cose insieme.

Ed è in quel momento che il Gruppo Surrealista Clandestino entra in azione.

 

  1. Prolegomeni a un Manifesto del Surrealismo in clandestinità, o no

Noi ci annoiamo nelle città.

Il giorno, come la notte, è un dormitorio nel quale ogni corridoio conduce a un letto di morte o in una sala operatoria. Il ticchettio di una sveglia ispira la progettazione delle nostre più belle bombe incendiarie.

Noi, surrealisti clandestini, rifiutiamo la morte e chiediamo di essere sepolti vivi.

Abbiamo scelto i sotterranei perché il cielo è troppo azzurro, o troppo grigio, e mai all’altezza del cielo stellato dentro di noi. A Kant preferiamo Kierkegaard, a Kierkegaard preferiamo Spinoza e a Spinoza preferiremo sempre il nostro migliore amico. Le affinità elettive sono la dimostrazione scientifica della teoria della deriva dei continenti.

Abbiamo visto Marcel Proust tornare dal campo di concentramento di Buchenwald per dirci di bruciare il tempo perduto prima di addormentarsi nella sua bara, in attesa del bacio di sua madre.

Abbiamo visto Thomas Mann spararsi alla testa giocando alla roulette russa con suo figlio Klaus.

Abbiamo visto Robert Brasillach tornare dal patibolo per chiedere la grazia e René Char dirgli di andare all’inferno prima di ammazzarlo e mandarlo davvero all’inferno.

Abbiamo visto Giraut de Bornelh giocare ai dadi con Stéphane Mallarmé in un ospedale psichiatrico mentre le infermiere svuotavano i loro pitali e i trovatori piangevano nel cortile della ricreazione aspettando le visite del giorno.

Abbiamo visto Guido Cavalcanti sodomizzare Beatrice mentre Dante li osservava e si masturbava di nascosto scrivendo il quarto tomo della Divina Commedia, quello in cui raccontava il suo ritorno sulla terra dopo il viaggio e giungeva alla conclusione che né Dio né l’amore esistevano e che solo esistevano le stelle.

Abbiamo visto Néstor Sánchez elemosinare in place Stalingrad a Parigi per comprarsi del crack a buon mercato e restare sveglio tutta la notte per finire di scrivere il libro che avrebbe dovuto renderlo immortale (quando stava per mettere il punto finale, ebbe un arresto cardiaco e scoprì che non sarebbe stato immortale, che i suoi libri sarebbero finiti fuori catalogo e poi al macero, che il suo nome sarebbe stato espunto dalla versione aggiornata della Storia della letteratura argentina, e che nessuno, infine, si sarebbe ricordato di lui o, se un lettore avesse incontrato il suo nome, avrebbe pensato a uno scrittore immaginario o a un fantasma, ovvero, la stessa cosa).

Il metodo sperimentale è il nostro imperativo categorico. Né la dolcezza dei figli, né la pietà dei vecchi padri, né il debito amore per le Penelopi, le Beatrici e le Dulcinee potranno mai vincere l’ardore che abbiamo di divenir del mondo esperti.

La festa è la nostra rivoluzione permanente (ai funerali – soprattutto al nostro –, ai battesimi, ai matrimoni, alle nascite dei figli, vogliamo ubriacarci senza alcuna misura, sostituire il vino al sangue, sentirci come Cristo il giorno della resurrezione, e poi, quando la vescica avrà assunto la forma di una granata, pisciare negli urinatoi delle città fino a farli esplodere). Il nostro fegato ingrossato, notre foi grasse, è la nostra assicurazione vitale.

Ivan Chtcheglov è surrealista clandestino in geografia urbana.

Gilles Deleuze è surrealista clandestino nel desiderio.

Lucien Chardon è surrealista clandestino in Balzac.

Marx è surrealista clandestino nella poesia

Rimbaud è surrealista clandestino in Diego Armando Maradona.

Aleksandra Michajlovna Kollontaj è surrealista clandestina nel marxismo-leninismo.

Ernest Hemingway è surrealista clandestino nella lotta armata.

Georges Perec è surrealista clandestino nella memoria.

Il 1917 è surrealista clandestino nel 1871.

Marcel Proust è surrealista clandestino quando legge l’orario dei treni in partenza.

Mohamed Mbougar Sarr è surrealista clandestino nel labirinto.

Jorge Louis Borges è surrealista clandestino nella fisica quantistica.

Robert Desnos è surrealista clandestino nella morte.

Sergej Gennadievič Nečaev è surrealista clandestino nella catechesi.

Roberto Bolaño è surrealista clandestino nella pratica della vita.

Seleziona la risposta corretta: Rifiutiamo di issare le bandiere a mezz’asta: a) delle nostre erezioni mattutine; b) della nostra immaginazione; c) della nostra impazienza (abbiamo fame).

Seleziona la risposta corretta: Quando un surrealista clandestino osserva una bottiglia vuota: a) immagina una Molotov; b) la utilizza come un vaso di fiori; c) compra (o – a partire dalla sua condizione socioeconomica – ruba o prende in prestito) una nuova bottiglia; d) chiama a raccolta gli altri surrealisti clandestini interrogandoli con la stessa frase che nel 1902 Vladimir Il’Ič Ul’Janov rivolse ai compagni riguardo la linea da adottare: Che fare? La discussione si prolunga fino all’alba, talvolta fino all’alba successiva e nel frattempo i surrealisti clandestini continuano a condurre la vita di tutti i giorni – mangiano, bevono, scopano, vanno al cesso, guardano un film, partono in viaggio, scrivono, s’innamorano, qualcuno di loro muore, invecchiano, passeggiano lungo la Senna quando le giornate iniziano a farsi più lunghe, litigano, fumano una sigaretta affacciati ai balconi delle loro mansarde come se fossero affacciati su una vena aperta, ordinano al barista un altro caffè per restare svegli fino al giorno del giudizio – ma tutto, sempre, lo fanno INSIEME.

Che tutto ciò che è felice sia crocifisso! (Perché risorgerà).

Al demone dell’eterno ritorno, l’unica risposta che potremo mai dargli è – e sempre sarà –  Es muss sein!

Ciò che abbiamo amato una volta, lo ameremo per sempre.

Completa la frase: Lasciamo tutto perché abbiamo bisogno di tutto affrontare nuovamente, tutto rivedere, tutto accettare, tutto reinventare, tutto ___________________.

Risolvi l’operazione matematica: 1 + 9 + 1 + 7 = __________________.

I sotterranei, il nostro Palazzo d’Inverno.

Poeti, scioglietevi i capelli (se li avete).

Le cronache del tempo riportano che nel 1871, alla vigilia della Comune di Parigi, i primi surrealisti clandestini spararono agli orologi.

Tic-tac tic-tac tic-tac.

Il ticchettio di una sveglia ispira la progettazione delle nostre più belle bombe incendiarie.

Lo ripetiamo: ciò che abbiamo amato una volta, lo ameremo per sempre.

C’era una volta: ci sarà una ri-volta.

___

[1] Durante i mesi precedenti avevo lavorato a un progetto di dottorato sull’opera di Arturo Benedetti (Palermo, 1909 – Parigi, 2003), colui che Carlo Bo aveva definito nella sua Antologia del surrealismo il primo e l’ultimo surrealista italiano. Grazie al professor Merlino, la scoperta del Surrealismo, tre anni prima, aveva rivoluzionato la mia vita con l’urgenza della rivelazione. Nel corso dell’inverno del 2013 mi interrogavo sulla necessità di mettere tutto in questione. Due poesie di Breton, Lâchez tout e Plutôt la vie, erano diventate il mantra che ripetevo di continuo ogni mattina mentre risalivo Via Diaz, a Portici, per prendere la Vesuviana in direzione di Napoli. Maurizio mi attendeva a Porta Nolana. Insieme ci recavamo alla Biblioteca universitaria e lì trascorrevamo tutta la giornata a bere caffè e a studiare per ottenere un dottorato che per noi significava soprattutto la possibilità di avere per tre anni i soldi necessari per viaggiare e studiare senza l’urgenza di cercare un lavoro. A febbraio nessuno dei due riuscì ad ottenere la borsa di studio. Durante un pomeriggio trascorso nell’aula occupata di Porta di Massa, avemmo l’idea di chiamare André che, nel frattempo, era tornato a Parigi. «Ma se dovessimo prendere un biglietto per Parigi, potresti ospitarci per qualche tempo?». Quando finimmo la chiamata andammo a fumare una sigaretta nel chiostro. Non aggiungemmo nessuna parola superflua. Tutti e due eravamo impegnati ad eseguire metodicamente il nostro congedo da Napoli osservando la cupola di San Pietro Martire e la porzione di cielo che la modellava e che, a momenti, sembrava potesse crollarle addosso.

Il 9 aprile 2013 un treno in partenza da Napoli Centrale mi avrebbe portato, l’indomani, a Parigi.

[2] «Lasciate tutto, lasciate Dada / Lasciate la moglie, lasciate l’amante / Lasciate le paure e le speranze. / Sbarazzatevi dei figli in un bosco. / Lasciate il certo per l’incerto. / Lasciate una vita confortevole, ciò che vi è stato dato come progetto per il futuro. / Andate per le strade».

[3] «Il rischio sta sempre da un’altra parte. Il vero poeta è quello che lascia sempre sé stesso alle spalle. Mai troppo tempo in uno stesso posto».

[4] Saad, oltre ad essere stato un amico intimo di Breton, José Corti (lo storico editore-libraio dei surrealisti), di Cortázar, e di Danilo Kiš, era l’esecutore testamentario di Arturo Benedetti.

[5]  Le cose non andarono come previsto. Avevo terminato i miei risparmi nel giro di neanche due settimane. Iniziai a lavorare in un bar. Mi ero imposto una rigida ripartizione delle mie giornate: la mattina lavoravo al bar, il pomeriggio andavo con Saad alla BNF per consultare l’archivio di Benedetti, la sera mi ubriacavo con André. Il mese successivo al mio arrivo incontrai Elisa. Il volto di Gilda continuava a sfilare via dal finestrino, confondendosi sempre più con quello dei fantasmi. Sarei tornato a casa? E se anche fossi tornato, che forma avrebbe avuto quel volto? Non lo so neanche ora: probabilmente le rughe delimitano ormai il contorno di quegli occhi che un tempo mi guardavano e che ora guardano altrove.

[6] Scorrono i volti di Gilda, del professor Merlino, di Gabriel Saad, di Arturo Benedetti, quello di André, di Elisa, di Cécile, di Paul, Raoul, Marion, Lola, Giulia, Claire, Simon, Gildas, Hessam, Chloé, Mathilde, Flore, Gabriele, Olly, Camilla, Héloise, Laura, e quello di Clémence.  A leggerli di seguito questi nomi, un giorno, non formeranno, forse, un monumento ai caduti, la mia personale enciclopedia dei morti?

[7] A. Breton, Nadja, trad.it, G. Falzoni, Einaudi, 2007, p. 5.

[8] A. Breton, Manifesti del Surrealismo, trad. it. di L. Magrini, Einaudi, 1987, p. 14.

[9] Lukács individua nel 1848 lo spartiacque che determina un differente modo operato dagli scrittori di rapportarsi alla vita. Mentre, infatti, secondo Lukács scrittori come Balzac, Stendhal, Dickens e Tolstoj, rappresentanti di quella società borghese che andava definitivamente consolidandosi attraverso varie crisi, «hanno vissuto questo processo di formazione nella sua crisi di trapasso, prendendovi attivamente parte», gli scrittori della generazione successiva, Flaubert, Zola, Maupassant, «hanno iniziato la loro attività dopo la battaglia di giugno, in una società borghese fissata e costituita». Ne è conseguito che questi ultimi «non hanno più attivamente partecipato alla vita di questa società; né volevano parteciparvi». E, aggiunge Lukács, «questo rifiuto è dovuto soprattutto a un atteggiamento di opposizione, cioè esprime l’odio, l’orrore e il disprezzo che essi nutrono per il regime politico e sociale del loro tempo». Al partecipare alla vita della generazione di Balzac si contrappone, dunque, l’osservare la vita della generazione di Flaubert e Zola: essi, non potendo e non volendo partecipare alla vita per trasformarla, «non possono che scegliere la solitudine, e diventano osservatori critici della società borghese».

[10] A. Breton, Posizione politica del surrealismo, in Id., Manifesti del surrealismo, cit, p. 172.

[11] Ibid.

[12] Ibid.

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ornella tajani
Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa prevalentemente di studi di traduzione e di letteratura francese del XX secolo. È autrice dei libri Tradurre il pastiche (Mucchi, 2018) e Après Berman. Des études de cas pour une critique des traductions littéraires (ETS, 2021). Ha tradotto, fra vari autori, le Opere di Rimbaud per Marsilio (2019), e curato i volumi: Il battello ebbro (Mucchi, 2019); L'aquila a due teste di Jean Cocteau (Marchese 2011 - premio di traduzione Monselice "Leone Traverso" 2012); Tiresia di Marcel Jouhandeau (Marchese 2013). Oltre alle pubblicazioni abituali, per Nazione Indiana cura la rubrica Mots-clés, aperta ai contributi di lettori e lettrici.
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