La nostra cartamoneta: su ‘Donne che allattano cuccioli di lupo’ di Adriana Cavarero
Di Ilaria Durigon
Non esiste il femminismo, esistono i femminismi. Quanto spesso sentiamo ripetere questa affermazione senza che venga mai debitamente messa in luce una differenza che, è utile quindi sottolineare, non si sostanzia in singole opinioni divergenti ma riguarda l’intera rappresentazione, con le sue significative conseguenze teoriche e pratiche. Fin dalla sua nascita, il pensiero della differenza sessuale si è posto come finalità, in posizione spesso discordante nei confronti del femminismo emancipazionista e delle sue molteplici derivazioni di matrice antidiscriminatoria, di produrre una rivoluzione simbolica muovendo dall’assunto secondo cui affinché la libertà femminile si realizzi nel mondo non sono sufficienti le modifiche alle leggi, non bastano le trasformazioni sociali, se, prima, non si produce un cambiamento sul piano del “simbolico”.
A proposito del simbolico, Luce Irigaray offre un’immagine molto densa: è come se ogni donna tenesse tra le mani un pezzo di cartamoneta strappato e cercasse nell’altra donna la metà per farla combaciare. Il simbolico è il senso che noi diamo all’esperienza dell’essere donna: è l’interpretazione che afferra il piano fattuale e materiale strutturandolo all’interno di una rete di significati attorno ai quali questa esperienza viene dotata di un senso traducibile sul piano del linguaggio e del pensiero. Il simbolico è il luogo in cui natura e cultura si incontrano (e spesso si scontrano) irriducibilmente. E, poiché il mondo delle rappresentazioni che era offerto alle donne è stato di impronta patriarcale per molti secoli, le donne hanno dovuto cercare da sé il senso libero della propria esistenza, creandolo autonomamente e attraverso la relazione con le altre.
Donne che allattano cuccioli di lupo. Icone dell’ipermaterno di Adriana Cavarero si inserisce all’interno di questa cornice filosofica e pratica, compiendo un nuovo importante passo in direzione della critica alle forme del sapere maschile nella misura in cui esse si mostrano solidali con il simbolismo patriarcale. In Cavarero è all’opera l’individuazione di nuove forme simboliche rispondenti all’esperienza femminile, ossia viene compiuta, tra le pagine, una rivoluzione simbolica che sovverte la cancellazione, e la conseguente stereotipizzazione, che il pensiero maschile ha operato nei confronti della maternità, intesa concretamente, come generazione di un nuovo essere umano, come gravidanza e parto
“Sappiamo molto di più dei mari che navighiamo che della maternità” avverte, in esergo, Adrienne Rich, poeta e pensatrice femminista che, tra le prime, ha denunciato il peso di quell’oscuramento, dell’impossibilità di rintracciare parole utili per comprendere, quando lo si sperimenta nel proprio corpo, lo “strano potere della maternità”, come lo definiva Virginia Woolf. È un percorso affascinante quello tracciato da Cavarero, che dalle Baccanti di Euripide e dalla loro frenesia post-parto, a Platone che mentre ricorre al linguaggio tecnico legato alla gestazione materna deruba e cancella la figura della madre, al mito della pietrificazione della superba Niobe, in un attraversamento che include la parola illuminante di alcune grandi autrici come Ferrante e Lispector, giunge fino al Secondo sesso di De Beauvoir contestandone l’anti-biologicismo e mostrando come in esso, anziché discuterla, sia all’opera una premessa fondante della grande tradizione della filosofia occidentale maschile.
Cavarero rigetta invece l’ipotesi teorica che la biologia sia un fardello di cui liberarsi, e ne assume il fatto, in una lettura materialista del reale, situandola in quella sfera della necessità che mentre è sottratta al dominio umano, sigilla il mondo vivente in unico nodo. La necessità biologica, se esprime in sé il limite della presa umana sul mondo, appare, in questa lettura, sotto una luce nuova come ambito ampio di trasformazione, di sottrazione alla presa tecnica, di condivisione e quindi, paradossalmente, di nuovi immaginari di libertà.
Sulle tracce di una rivoluzione simbolica femminista, la maternità – questa scandalosa “confidenza con la materia corporea dell’origine” – diviene, in quanto momento e precipitato in cui natura e cultura si incontrano, in quanto “tremendo” che è insieme meraviglia e inquietudine, come paradossale condizione di passività e potenza, una forma di conoscenza, un sapere che apre alla possibilità di rispondere con parole e pensieri nuovi alle grandi crisi del nostro tempo, prima fra tutte quella ecologica. Attraverso il nodo simbolico del materno, è possibile quindi ripensare la condizione umana nei termini di una “zoo-ontologia materialista” capace di fronteggiare le derive contemporanee della politica tra cieco progressismo e spinte reazionarie, situandoci in modo nuovo nello spazio che si apre tra passato e futuro.