La penna
di Enrico Di Coste
Scrivere è come un imbuto: divieni così avvezzo alla pratica che non ti accorgi più di quale liquido passi all’interno.
Maurizio scriveva per inerzia.
Aveva rotto con moglie e figlia chissà quando; il suo primo e unico editore, che gli aveva pubblicato un romanzetto di discreto successo, aveva respinto seccamente tutte le proposte successive; la sua carriera era avvizzita, tirava a campare.
La scrittura non gli procurava piacere da un pezzo. Ma semplicemente, continuava. Ci si trova nudi di fronte alle proprie recriminazioni solo dopo averle protratte per talmente tanto tempo da averle rese la normalità. Nauseante, eppure irrinunciabile.
Correva l’anno 1898. Nel suo studio, attendeva il pignoramento della casa. Ogni lasciato è perso, diceva tra sé.
Il solo atto di sedersi era una tortura, lo compì, disgustato. Ritrovò qualche sporadico guizzo da scribacchino: una riga su ogni due o tre capitoli era salvabile. Presentò all’editore che da dieci anni gli sbarrava la porta un romanzuccio scritto in due settimane.
È una spudorata copia del primo, gli disse l’editore. Non ci posso credere che giri intorno ai tuoi spettri. Per una buona volta, liberati dell’unica storia che sei stato capace di raccontare! È inutile tornare, non pubblicherò mai queste insulsaggini.
Ma…
Non c’è nessun ma: non sai più fare il tuo lavoro. Questo è tutto.
Ma…
Anzi, dubito che l’abbia mai saputo fare.
Sei troppo ingeneroso.
No, sono generosissimo. Vedi, ti apro ancora la porta, sebbene non mi convenga. Col senno di poi, è stato un errore pubblicarti all’epoca: pareva che avessi un futuro raggiante. Non ho mai fatto un errore di valutazione così grossolano nella mia carriera come con te.
Maurizio non soffriva più dinanzi a simili rimbrotti: ci aveva fatto il callo.
Da allora, qualcosa in lui conobbe nuova vita, una recondita sorgente che come un fiume in tempo di siccità si era prosciugata a tempo indefinito e che credeva di non poter più scovare.
Comprò una nuova penna, la più economica che trovò, e dell’inchiostro con gli ultimi spiccioli rimasti. Chissà che cambiando gli addendi non cambiasse il risultato.
E il risultato parve cambiare, repentinamente, come in un amplesso feroce che porta all’orgasmo prima dell’aspettativa. Ogni parola fluiva, e l’impeto dell’esaltazione era temperato dalla consapevolezza che l’esito si sarebbe rivelato grandioso. Devo avere pazienza, si ripeteva. Questo è il mio momento. Niente è accaduto invano.
Non perse energie a spiegarsi come fosse potuto succedere quell’apparente miracolo: tirò avanti per tutta la notte. E anche la notte successiva. E la successiva.
Al quarto giorno, si svegliò avvertendo che il respiro non lo soddisfaceva: era corto e rauco. Sarà il catarro, pensò. Di questi tempi mi infreddolisco come se niente fosse. Un bel bagno caldo è quel che ci vuole.
Ma il bagno non diede i frutti sperati. Non spurgò alcunché. Nel frattempo, appoggiandosi al bordo della vasca, continuava a scrivere, a tossire, a scrivere ancora.
Capitava che qualche foglio gli sfuggisse di mano e si bagnasse, e allora lo tirava fuori dall’acqua in fretta e furia. Restò in vasca per tutta la giornata e disseminò il pavimento di fogli, Una moquette per squattrinati.
Si alzò e scoprì di riuscire a malapena a reggersi in piedi; tuttavia non aveva febbre. La tosse persisteva come un tennista che quando ti illudi di aver fatto punto non molla una palla nemmeno per l’anticamera dell’inferno. Si fece cavernosa in un baleno.
Si specchiò per vedere quanto fosse stravolto: scoprì che la sua pelle era scura. Nera. Sotto lo strato esterno dell’epidermide.
Cominciò ad ansimare, guardò il resto del suo corpo: risentiva nella sua interezza di quell’imponderabile fenomeno.
Guardò all’interno della vasca: l’acqua era annerita, come se ci avesse versato dell’inchiostro.
Un’intuizione fulminea colse Maurizio. Solo la penna poteva essere responsabile della mutazione. Quel romanzo omicida sarebbe stata la sua ultima fatica.
Rise a squarciagola, e nella concitazione sputò saliva nerastra sui fogli imbrattati. Ci vollero meno di ventiquattr’ore affinché l’inchiostro cominciasse a colare attraverso la superficie della pelle. Quella lugubre tinta impregnò dapprima i vestiti, poi la casa; ma lui continuava, imperterrito, perseguendo con entusiasmo parossistico la propria morte.
Al settimo giorno si concluse la trasognata apnea. Caracollando lungo la via, con passi simil-acquosi, si recò presso l’editore.
Sono Maurizio.
La porta si aprì con uno sbuffo.
Ancora tu. È passata soltanto una settimana e hai il coraggio di ripresentarti…
Ho un lavoro da consegnare.
Cercò aria, ma questa non lo soccorse. L’editore strillò.
È l’ultimo che ti propongo.
Poi Maurizio rise, la lingua impastata, i denti catramosi che non si distinguevano più, la gola intasata da un coagulo vischioso. Le cornee furono colonizzate dalla metastasi, le palpebre cessarono di schiudersi. Trasudava nerezza da ogni orifizio.
Spirò con semplicità, come se l’annegamento fosse stato messo in conto, immolandosi sobriamente per ciò che aveva odiato quasi tutta la vita.
Implose intorbidando la facciata della sede della casa editrice.
Non seppe mai che quel libro avrebbe segnato intere generazioni di uomini.