Voci della diaspora: Anna Foa e Judith Butler
È questo il quarto intervento che dedico a ciò che si è scatenato in Medio-Oriente dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre. Questi interventi sono la testimonianza di uno studio su diverse fonti, di dialoghi con amiche o amici e di riflessioni che hanno evoluto nel tempo. Ognuno di essi si è focalizzato su un tema. Il primo ha difeso l’idea che senza contesto e narrazione non vi può essere alcuna comprensione dell’accaduto; nel secondo, ho avanzato un quadro interpretativo di quello che, oggi, la storica Anna Foa definisce il “suicidio di Israele”; nel terzo, ho inserito l’attitudine del governo Netanyahu in un’atmosfera politica e ideologica che riguarda non solo Israele, ma anche l’Occidente capitalista nordamericano e europeo. Quest’ultimo intervento è dedicato a due voci critiche non solo della politica israeliana, ma anche della diaspora ebraica.
di Andrea Inglese
Da dove parlo
Chiunque parli della questione palestinese deve cominciare per dire innanzitutto chi è, come questa questione lo riguarda…
Ariella Aïsha Azoulay
Nonostante fosse difficile farlo, ho pensato fin dalle prime settimane dopo il 7 ottobre, vedendo quanto era successo e quel che si stava preparando, che fosse indispensabile parlare, scrivere, insomma rompere il silenzio. Parlare e scrivere per capire di più, assieme a quelli che vivono qui, in Italia, in Europa, lontano da Gaza e Israele, quello che stava accadendo laggiù tra palestinesi e israeliani. La gravità sia dell’attacco terroristico palestinese contro i civili israeliani sia della rappresaglia distruttrice contro la striscia di Gaza dell’esercito israeliano, non lasciavano adito a dubbi: questa volta il mondo non avrebbe potuto rimanere indifferente, come era invece accaduto nel corso degli ultimi anni, quando la sorte dei palestinesi non sembrava interessare più nessuno. In un modo o nell’altro, l’occidente tutto come anche il cosiddetto sud globale, oltreché i principali attori in gioco in questa guerra, sarebbero stati coinvolti. Così è accaduto. E il silenzio è stato eloquente e significativo quanto la propaganda più faziosa, e lo è stato anche se le sue motivazioni potevano o possono essere le più diverse: blocco emotivo, prudenza o semplice vigliaccheria. La guerra tra Hamas e Israele è stata scatenata da un’azione terroristica delle più crudeli (uccisione di civili, bambini inclusi) e ha prodotto una rappresaglia militare da parte israeliana, che non solo si è dispiegata attraverso modalità altrettanto terroristiche (bombardamenti indiscriminati su case e edifici pubblici come scuole, università, ospedali, ecc.), ma ha acquisito la violenza sistematica e terrificante del “genocidio”. Questo almeno agli occhi di una parte importante dell’opinione pubblica mondiale, ma anche di istituzioni internazionali e ONG indipendenti. Tornerò in seguito su questo termine. E dirò, perché è un termine che personalmente non amo utilizzare. Ma poco importano le mie ragioni o i dubbi sulla piena pertinenza dell’uso: esso si è imposto contro ogni tentativo di censura mediatica anche in una parte dell’opinione pubblica occidentale, e questo in reazione all’entità inedita della distruzione scatenata contro la striscia di Gaza, che nei fatti rende inabitabile quel territorio così densamente popolato. Possiamo utilizzare vecchie o nuove categorie, parlare di pulizia etnica o di urbicidio, quel che risulta chiaro è l’intenzione del governo israeliano di rendere Gaza un territorio dove non sia più possibile abitare, trasformando i Palestinesi in una massa di profughi sulla loro stessa terra.
Ho già esplicitato, sempre su Nazione Indiana, la ragioni del mio coinvolgimento personale, in quanto cittadino italiano ed europeo[1] in quello che è accaduto e accade laggiù, anche se non sono né palestinese né israeliano, né ebreo né arabo. Nonostante ci siano altre guerre sanguinosissime nel mondo, come la guerra civile in Sudan o quella che viene definita la seconda guerra civile nella Repubblica Centrafricana (in corso dal 2012), la guerra tra israeliani e palestinesi mi riguarda storicamente. Vorrei però aggiungere oggi che mi riguarda anche culturalmente. Nella mia formazione intellettuale e morale, la diaspora ebraica, europea e statunitense soprattutto, ha avuto un ruolo enorme. Il mio modo di vedere il mondo, di concepire la storia e la letteratura, l’emancipazione individuale e collettiva, è debitrice di tutta una serie di voci che vengono da quel mondo: da Proust a Kafka, da Primo Levi a Arendt, da Marx a Adorno, da Günther Anders al regista ebreo-russo Alexeï Guerman. E’ questa una ragione in più, che mi rende attento, oggi, alle reazioni degli ebrei europei o nordamericani. Ed è proprio di alcune voci della diaspora che voglio parlare, in particolar modo di quella di Anna Foa, storica italiana, e di Judith Butler, filosofa statunitense.
Prima di considerare il loro punto di vista, vorrei aggiungere un’ultima cosa. Gli errori che l’Occidente ha fatto, l’errore che gli Stati Uniti, ma poi l’Europa, e i governi di Francia e Italia in particolare hanno fatto, rifiutandosi di lottare con tutti i mezzi diplomatici disponibili per imporre un cessate il fuoco a Israele, lo pagheremo tutti. Lo pagano ora in modo straziante i palestinesi, ma lo pagheranno comunque anche gli israeliani, poi i cittadini statunitensi ed europei, così come tutte le nostre istituzioni nazionali e internazionali. Facts have consequences, come dicono gli anglosassoni, anche se le conseguenze non si “vedono” subito.
Sto rileggendo un libro di Jean-Pierre Filiu, storico francese del Medio-Oriente contemporaneo (Gli Arabi, il loro destino e il nostro, La Découverte, 2015). Il mondo intero sta ancora pagando per una somma precisa di decisioni e azioni realizzate in seno all’amministrazione statunitense, al momento del lancio nell’autunno del 2001 della “guerra globale contro il terrore” da parte di George W. Bush e, in particolar modo, per l’invasione dell’Iraq del 2003, fuori dal mandato dell’Onu. Da allora in poi, sia ogni tipo di terrorismo islamico sia la repressione autoritaria di ogni forma di contestazione politica, hanno avuto il vento in poppa nei paesi arabi come in alcuni paesi dell’Africa subsahariana. Caso esemplare l’Algeria che, tra il 1991 e il 2001, conosce il “decennio nero”, ossia una guerra civile tra islamisti e il governo autoritario del Fronte di Liberazione Nazionale. Con l’arrivo al potere di Bouteflika nel 1999, presidente che ha governato fino al 2019, nel paese viene imposta la politica della “concordia civile”. Ciò significa l’amnistia rapida di 5000 insorti (legati al Gruppo Armato Islamico), mentre in carcere rimangono gli oppositori che non hanno mai praticato la lotta armata. Dopo la guerra al terrore di Bush, buona parte dell’Occidente (francesi in testa) difenderanno l’opzione: meglio la “stabilità” dei regimi autoritari che la rischiosa democrazia; nel frattempo però regimi e forme d’islamismo armato non faranno che consolidarsi a vicenda, a scapito di ogni autentico progresso democratico. Le recentissime vicende siriane non fanno che confermare questa tendenza.
“Il suicidio di Israele” di Anna Foa
Il libro è uscito per Garzanti nell’ottobre del 2024. Per certi versi dialoga con il libro di un altro storico, Enzo Traverso, uscito per lo stesso editore alcuni mesi prima. Mi riferisco a Gaza davanti alla storia. Foa guarda, però, la vicenda della guerra e delle stragi di civili dal punto di vista dei tempi lunghi della storia della diaspora ebraica e soprattutto della nascita di Israele. Il suo è il punto di vista di una storica, ma è anche una voce della diaspora che vuole innanzitutto distinguersi dalla voce del governo israeliano e dalla maggioranza di israeliani che lo sostiene. È questo un punto per me fondamentale, perché per mesi sono rimasto allibito da un doppio movimento evidente in una parte importante della comunità ebraica francese: l’adesione quasi completa al punto di vista del governo Netanyahu, da un lato, e la sintonia ideologica con le posizioni del Rassemblement National (estrema destra francese), dall’altro. (Di un movimento simile, in Italia, parlano Bruno Montesano e David Calef in un articolo apparso su “il Manifesto” del 29 novembre dal titolo Ebraismo oltre la linea nera).Ora questa attitudine si è fatta sentire in modo particolare nel trattamento dell’informazione su ogni tipo di canale pubblico o privato. In altri termini, l’orientamento della diaspora, assieme ad altri fattori, ha senz’altro contribuito in Europa – più ancora, per altro, che negli Stati Uniti – a “blindare” la narrazione filoisraeliana. Il risultato di questi sforzi congiunti per legittimare l’annientamento delle vite dei civili palestinesi o per oscurarlo almeno parzialmente, ha avuto come conseguenza l’uso sempre più aperto e sistematico del termine “genocidio” di una parte dell’opinione pubblica, quali che siano le considerazioni avanzate sull’opportunità di un tale uso. È una delle tante lezioni sulla democrazia, che gli opinionisti occidentali amano elargire agli altri, senza mai apprenderle loro stessi per davvero. La polizia del pensiero funziona per “loro”, nelle sedi dei giornali o delle radiotelevisioni, ma non per la gente che non è pagata per dire o meno quello che pensa.
Per quel che mi riguarda, è un termine che preferisco non utilizzare. In questione non è tanto la pertinenza o meno di questo “termine” sul piano strettamente giuridico, per molti versi plausibile, e in ogni caso legittimo in una campagna politica di denuncia dell’azione militare israeliana e di richiesta di un cessate il fuoco. Preferisco non usarlo per gli effetti, inconsapevoli o meno, che la sua formulazione può indurre in me, cittadino italiano, appartenente a quel popolo che ha avuto un ruolo nello sterminio degli ebrei in Europa. Non trovo del tutto convincente l’articolo scritto da Liliana Segre per il ”Corriere della Sera” su questo tema (il 29 novembre 2024). Considero che, ad esempio, definire il governo Netanyahu “pessimo”, riveli oggi una forma d’indulgenza non condivisibile. Un governo da più parti (e non solo dai palestinesi) accusato di crimini di guerra e contro l’umanità, su cui pende un mandato d’arresto della Corte Penale Internazionale, che sta promuovendo l’annessione quasi integrale della Cisgiordania, è criminale; così d’altra parte, durante i mesi delle contestazioni di piazza, l’avevano definito gli oppositori israeliani prima del 7 ottobre, anche se per ragioni di politica interna. Nonostante questo, c’è un punto importante che accolgo della riflessione di Segre. Lo cito: ”In primo luogo, solo coprendosi occhi e orecchie si può evitare di percepire il compiacimento, la libidine con cui troppi sembrano cogliere un’opportunità per sbattere in faccia agli ebrei l’accusa di fare agli altri quello che è stato fatto loro”. Io a questo ci credo, e credo che valga soprattutto per alcuni europei. E la voluttà nell’uso di tale parola, anche se è riferita alla condotta degli israeliani di oggi, risiede nel pensiero implicito che può suggerire ad alcuni di noi: “adesso, cari ebrei, siamo pari, possiamo liquidare questo vecchio fardello”. Ho sentito parlare di “genocidio” da scrittrici e scrittori arabi, ad esempio, ma in loro non era percepibile questa “libidine” né questo sollievo nel “pareggiare” i conti.
Il titolo di Foa è senza ambiguità: dal punto di vista di chi, come gli ebrei della diaspora, è amico di Israele, quello che sta accadendo è un suicidio collettivo, un suicidio sia politico che morale e culturale. L’indossare il ruolo di carnefici non è incompatibile con una condotta suicidaria. Il capitolo importante che l’autrice dedica al sionismo, alle sue varie facce e soprattutto alla sua evoluzione, prima e dopo la nascita dello stato di Israele, diventa una tappa indispensabile per comprendere i motivi e le cause degli sviluppi attuali. Diversi storici israeliani così come ebrei statunitensi hanno studiato, decostruito e criticato il mito nazionalista del sionismo. Era importante che, in questo contesto, si aggiungesse anche una voce autorevole della diaspora italiana. Anche perché Foa stessa sottolinea come “La diaspora europea [taccia] clamorosamente, tranne voci davvero isolate” (p. 10). E aggiunge: “In questi tre anni, i tre mondi ebraici del dopo 1948 sono diventati essenzialmente due: quello israeliano e quello americano. La diaspora europea perde progettualità e importanza. Oggi l’ebraismo europeo è privo di ogni progetto culturale e politico, di ogni autonomia rispetto a Israele” (p. 57).
Prospettive post-sionistiche
La ricostruzione storica dell’autrice mi sembra indispensabile per considerare in modo adeguato non solo le componenti divergenti del sionismo, ma anche il carattere ambiguo della nascita di Israele. Mi sembra anacronistico ridurre quella vicenda a un’ispirazione e a un progetto puramente coloniale, progetto che si è invece imposto progressivamente attraverso tappe e svolte specifiche, anche in rapporto all’azione dei paesi arabi circostanti o degli stessi dirigenti palestinesi. Non si tratta, qui, solamente di discettare su diversi quadri interpretativi di storici di professione, ma di comprendere la dimensione tragica di quell’evento storico, che ha costituito una prospettiva di salvezza per un popolo perseguitato fino allo rischio di sterminio totale, producendo, nello stesso tempo, una catastrofe per un altro popolo, quello palestinese. Fornire una lettura riduttiva di quell’evento, mi sembra non possa che ritardare ulteriormente il riconoscimento delle rispettive memorie traumatiche e identità storico-culturali. Oltre il conteggio delle responsabilità storiche, oltre la denuncia e la cessazione dei crimini, oltre la persecuzione dei criminali, si dovrà, per inverosimile che possa oggi apparire, giungere al riconoscimento reciproco di due popoli e del loro diritto di vivere in piena autonomia e pace.
In un’ottica non più storica, ma progettuale, il discorso di Foa mi sembra fondamentale. Scrive:
“Non è ormai giunto il momento di guardare e costruire una società civile e democratica, di cittadini liberi e uguali nelle loro diversità? E come può uno Stato ebraico, necessariamente fondato sulla supremazia degli ebrei sugli altri cittadini, garantirla? È questa una contraddizione di fondo tra Stato ebraico e Stato democratico, che si perpetua dall’inizio e che è ora necessario sciogliere se si vuole uscire da questa situazione di guerra, ma anche dallo stallo che ha preceduto la guerra.” (p. 75)
Richiamare questa contraddizione, dopo averla studiata in quanto storica, non è un punto secondario. Chi, in una prospettiva filopalestinese, nega questa contraddizione, schiacciando tutta la storia israeliana su di un progetto unicamente coloniale, non fa che rafforzare quell’identità che il sionismo religioso e l’estrema destra israeliana hanno contribuito, per primi, a consolidare in un’unica dimensione. Il futuro di uno Stato israeliano non-coloniale e davvero democratico dipenderà anche dalla capacità degli israeliani di trovare dentro di sé e dentro la loro storia una leva per trasformare la propria mentalità e i propri comportamenti. In altre parole, “per il post-sionismo è necessario voltare pagina, passando da ‘uno Stato ebraico e democratico’ come Israele è ufficialmente definito dal 1992, a ‘uno Stato democratico per tutti i suoi cittadini’, indipendentemente dalla loro appartenenza etnica, nazionale e religiosa” (p. 77). Qui è Foa che cita Arturo Marzano, Storia dei sionismi. Lo Stato degli ebrei da Herzl a oggi, Carocci, 2017.
“Rendere impossibile una parola ebrea contro la violenza di Stato” di Judith Butler
Affinché simili prospettive possano rendersi praticabili almeno in futuro, è indispensabile che non solo la distruzione di Gaza e l’annessione della Cisgiordania siano denunciati, ma anche gli stessi presupposti ideologici che giustificano questa politica agli occhi del governo di estrema destra e di una maggioranza della popolazione israeliana. Per fare questo, però, bisogna difendersi dalle accuse di antisemitismo che la propaganda di Netanyahu promuove, amplificata da associazioni ebraiche e da opinionisti politici in Occidente e in Europa. Anche qui i “poliziotti del pensiero”, quali che siano le loro più o meno ciniche motivazioni, non hanno impedito che, ad un certo punto, la manipolazione della memoria della Shoah sia diventato tema di molteplici critiche. Questa manipolazione è per altro in atto da anni, ma nel corso di questa guerra essa è stata definitivamente smascherata. Anche Foa evoca questo tema, ma è Judith Butler che lo affronta con più severità. L’articolo di Butler è stato raccolto in un volume francese dal titolo Contre l’antisemitisme et ses instrumentalisation edito per La fabrique nel settembre 2024.
Butler evoca una serie di episodi che hanno riguardato università e istituzioni culturali, soprattutto negli Stati Uniti e in Francia. In tutti questi casi si è considerato che iniziative o conferenze a sostegno della Palestina fossero da impedire, in quanto di per sé minacciavano la sicurezza di studenti ebrei o più in generale della comunità ebraica. Ma Butler ricorda come questa censura non sia stata esercitata in casi di appelli all’odio nei confronti degli ebrei, dove sarebbe stata comprensibile, bensì in occasione di denunce del genocidio a Gaza e di richieste di “cessate il fuoco”. E scrive:
“Questa manipolazione è profondamente nefasta, perché reclamare il cessate il fuoco esprime precisamente il desiderio che si arresti di fare del male ad altri. Oggi, sono le palestinesi e i palestinesi che hanno bisogno di essere protetti. E la comunità internazionale ha fallito nel fornire loro questa sicurezza. Hanno bisogno di essere al riparo dal pericolo, dal pericolo fisico reale – di essere ammazzati, feriti gravemente o di vedere la propria famiglia massacrata.” (p. 13)
Butler mostra come, alla fine, l’estensione indebita dell’accusa di “antisemitismo” finisca per riguardare “il fatto stesso di chiedere giustizia in Palestina”. A questa considerazione ne va aggiunta un’altra di Anna Foa, che scrive: “E gli ebrei del mondo, di quella diaspora che si riempie la bocca e la mente di etica ebraica e di pensiero ebraico, come possono accettarlo senza reagire. Come possono parlare solo dell’antisemitismo senza guardare ciò che in questo momento lo fa divampare, la guerra di Gaza?” (p. 87). Foa non nega che ci sia anche un “divampare” dell’antisemitismo, ma una tale preoccupazione, pur legittima, non può oscurare le ragioni di un tale fenomeno. E, d’altra parte – aggiungo con Butler –, non possono porsi sullo stesso piano di gravità e urgenza il massacro in atto delle vite palestinesi, vite isolate dal mondo, e azioni vandaliche su oggetti e minacce razziste, indirizzate a comunità che vivono in uno stato di diritto.
Narrazione contro cifre (e immagini)
L’ultimo tema, che Butler affronta nell’articolo citato, riguarda la “potenza del racconto” e fa riferimento all’inestimabile, insostituibile, potenza conoscitiva dei “racconti” rispetto al dato astratto fornito dalle cifre dei morti e dei feriti. L’autrice ne parla, qui, in due succinte pagine, ma si tratta di una questione capitale, che riguarda non solo l’attualità e i conflitti politici, ma il ruolo che, dal punto di vista antropologico, le narrazioni svolgono nelle nostre vite. Non pensate per favore a tutta quella letteratura insipida sulle virtù che la forma narrativa può fornire a qualsiasi tipo di evento o esperienza, come se si trattasse di una tecnica specifica, in cui specializzarsi per ottenere una sorta di “marketing esistenziale”. La comprensione delle nostre azioni è da sempre connessa ai quadri di riferimento storico-sociali e alle forme di narrazione che si accompagnano a essi. Quello che è importante capire dell’osservazione di Butler è che l’impatto che le cifre hanno su di noi è limitato: che differenza fare tra mille o diecimila bambini morti? In quale modo, se non vago, estremamente parziale, possiamo cogliere una differenza tra mille e diecimila morti? La sola idea della morte violenta di mia figlia quattordicenne, non ancora del tutto uscita dal mondo dell’infanzia, mi sembra inconcepibile e straziante. Come posso familiarizzarmi con dieci, cento, mille, diecimila volte quello stesso già inimmaginabile dolore? No, le cifre non ci aiutano ad avvicinarci alla realtà di massacri di tali entità, come quello subìto da più di un anno dalla popolazione palestinese. Ma questo vale già per il massacro del kibbutz di Kfar Aza, dove i miliziani di Hamas hanno ucciso più di 200 civili andando casa per casa. Posso misurare certamente la diversa gravità del fatto, se pongo a confronto l’uccisione di 1200 persone o quella di più di 40.000, ma la distruzione di ogni vita innocente è da considerare una perdita assoluta, incommensurabile, non perché sia sacra per un Dio o per la ragione universale, ma perché è sacra per una parte dell’umanità: un genitore, un amante, degli amici, una comunità, un popolo. E siccome ognuno di noi ha qualche vita intorno a sé che considera intimamente, visceralmente, sacra, ciò significa che ognuno di noi sa come e perché una vita è sacra.
Ma ritorniamo all’entità del “terrorismo di stato” israeliano e alla possibilità di tradurlo in qualche forma di comunicazione. Butler si riferisce a Gaza Writes Back, una raccolta di racconti di scrittrici e scrittori palestinesi dedicata all’operazione Piombo Fuso (2008-2009) dell’esercito israeliano. Commentando le parole del curatore Rafat Alareer, l’autrice scrive:
“Queste storie, queste poesie non sono appunto delle cifre: emergono da individui che lavorano in seminari di scrittura collaborativa e che traducono i testi in inglese per assicurarsi che “il mondo” sappia cosa è successo e per dare un senso vivo e dettagliato a quel che significa continuare a vivere dopo la perdita di una vita, in uno spirito di perseveranza e di resistenza collettiva.” (p. 23)
Che cosa cambia, allora, tra l’evocazione della perdita di una vita umana in cifre e quella attraverso un racconto? In realtà, non si tratta neppure di “dettagli” in quanto tali, anche se il dettaglio è sempre importante in una narrazione. Il racconto ci parla più delle cifre, perché ci permette di vedere la morte di un essere umano dalla prospettiva della vita di un altro essere umano o, al limite, dalla sua stessa prospettiva, prima che giunga l’annientamento. Non c’è argomento più persuasivo contro la pena di morte, che la narrazione, reale o fittizia, della vita di un individuo che si è meritato una tale condanna. È una delle cose che insegna la lettura, ad esempio, di un romanzo come A sangue freddo di Truman Capote.
Ho insistito sulla “debolezza” delle cifre per trasmettere l’orrore del massacro, ma un discorso analogo dovrebbe essere fatto per le foto e più generalmente le immagini. Quante foto o quante sequenze di bambini estratti a pezzi dalle macerie, dopo un bombardamento, devono convincermi che quel bombardamento è ingiusto, sbagliato, criminale? Le foto sono importanti, come è importante la loro circolazione. Ma le foto, che siano disponibili o meno, non producono di per sé indignazione. O meglio, non è la moltiplicazione di foto di massacri che possono commuovere qualcuno che non si è commosso alla documentazione di un primo massacro. È necessario vedere i corpi scheletrici degli internati dei Lager, così come le cataste dei cadaveri prodotti dallo sterminio nazista. Ma quante di queste immagini dobbiamo vedere, per convincerci dell’entità e dell’orrore della Shoa? Quelle immagini sono importanti, ma non sarebbero sufficienti, ad esempio, senza la lettura di Se questo è un uomo.
Ho trovato interessante e acuto l’articolo Davanti allo sterminio degli altri di Massimo Palma, apparso su “Antinomie” (20/11/2024). L’intervento di Palma ruota interamente intorno a questo paradosso: tante sono le circostanze e le ragioni che rendono “inefficaci” dal punto di vista “politico” le immagini dei massacri, come quello in corso a Gaza. Vi sono voci che si levano anche contro l’opportunità che tali immagini “circolino”. Palma le considera attentamente, ma lui stesso devo poi giungere a questa constatazione: “La realtà della guerra sempre online, mai disconnessa – questa è il fatto nuovo che ci sta offrendo un anno di ripresa in diretta della guerra, ora per giunta guerra diffusa”.
Come non mi piace ripetere a ogni piè sospinto che Israele sta compiendo un “genocidio” così non voglio riempirmi la mente di immagini di bambini palestinesi fatti a pezzi. Il risultato non sarebbe una maggiore comprensione o coscienza della gravità dell’accaduto, ma un semplice odio e schifo negli esseri umani in quanto tali – me incluso alla fine -, che sarebbe difficile poi togliersi di dosso. Non ho capito né accolto tutto l’orrore della distruzione di Gaza – chi è in grado di farlo? Non basterà una generazione di palestinesi e israeliani ad assimilare tutto quello scempio di vite fatto e subito. Ma condanno l’uso del terrore dei miliziani di Hamas come quello dello Stato israeliano, senza produrre un’equivalenza tra torti palestinesi (che vivono su un territorio controllato e occupato) e torti israeliani (che controllano e occupano terre altrui), né un’equivalenza riguardo all’entità del male procurato; disprezzo i dirigenti politici occidentali cinici e vigliacchi che esibiscono ancora una volta i “due pesi e due misure”, disprezzo l’opportunismo di tanti opinionisti che svolgono con entusiasmo il ruolo di “poliziotti del pensiero”, perché avrei voluto che gli uni e gli altri si impegnassero per limitare la distruzione delle vite palestinesi.
Coda
Molto di più di tante immagini o di tante cifre sull’invasione Russia dell’Ucraina, mi ha toccato Intercepted, un documentario realizzato quest’anno dalla regista ucraina Oksana Karpovych. Nel film, ascoltiamo brani di conversazione di soldati russi, attivi sul fronte ucraino, con la propria famiglia (moglie, genitori, ecc.). Queste conversazioni realmente accadute sono state intercettate dall’esercito ucraino e poi montate dalla regista, sullo sfondo di immagini di paesaggi urbani o naturali, che hanno ricevuto l’impronta della guerra. Non si vede, insomma, una sola azione violenta. La violenza è tutta nei racconti che i soldati russi fanno della loro vita al fronte, delle condizioni miserabili in cui vivono, e delle cose atroci che alcuni di loro hanno fatto (come torture o uccisioni di civili ucraini).
*
[1] Scrivevo in La trappola e il diniego. Riflessioni a margine della guerra: “Sono un italiano, nato in un paese che ha prodotto il fascismo e ospitato i nazi-fascisti. Ho letto Primo Levi, un italiano ebreo, che dai nazi-fascisti è stato spedito nei campi di sterminio. Vivo attualmente in un paese dove è esistito il regime di Vichy, che ha collaborato alla deportazione nei Lager di decine di migliaia di uomini, donne e bambini ebrei. Più in generale, sono la storia lunga dell’antisemitismo europeo, oltre a quella breve e devastante della Shoa, e infine la storia del colonialismo europeo (inglese, in particolare) a determinare la nascita dello Stato di Israele nella Palestina mandataria”.
Post molto interessante!
Caro Andrea Inglese,
1) nel tuo precedente post, “La trappola e il diniego. Riflessioni a margine della guerra” (8 dicembre 2023), il concetto di “diritto internazionale” permeava ogni tua argomentazione; infatti, lo citavi ben cinque volte per evidenziare quanto il comportamento di Israele lo infrangesse. (Un solo esempio: la “scelta del sionismo di scommettere sulla legge del più forte piuttosto che sulla legge del diritto internazionale”).
Ora, in questo articolo, non citi mai il “diritto internazionale”. Tutto sembra soggettivo, pare impossibile esprimere un giudizio oggettivo sull’operato di Israele, tant’è vero che fin dall’inizio riporti la citazione: “Chiunque parli della questione palestinese deve cominciare per dire innanzitutto chi è, come questa questione lo riguarda” che a mio giudizio è tendenzialmente razzista, infatti non si capisce perché questo assunto dovrebbe valere solo per la questione palestinese. Un intellettuale, un politico, non mette mai le questioni sul personale, non è amico né nemico di nessuno.
Come mai dunque questa tua contraddizione, questa inversione di rotta?
2) Al termine del tuo articolo scrivi: “condanno l’uso del terrore dei miliziani di Hamas come quello dello Stato israeliano, senza produrre un’equivalenza tra torti palestinesi (che vivono su un territorio controllato e occupato) e torti israeliani (che controllano e occupano terre altrui), né un’equivalenza riguardo all’entità del male procurato”.
Ma questa volontà di non produrre una “equivalenza” è smentita dall’impianto del tuo pezzo. Tu, oggi, dopo oltre un anno di genocidio, dopo che Gaza è stata rasa al suolo, la Cisgiordania invasa e ripulita etnicamente, la Siria invasa e in parte occupata, scrivi ancora: “La guerra tra Hamas e Israele è stata scatenata da un’azione terroristica delle più crudeli (uccisione di civili, bambini inclusi) e ha prodotto una rappresaglia militare da parte israeliana”.
Non è una guerra tra Hamas e Israele, Andrea. Né tanto meno una guerra iniziata da Hamas il 7 ottobre [sul fatto che sia stata semplicemente una “azione terroristica delle più crudeli” tornerò alla fine]. È in corso una occupazione militare dal 1967, quindi non c’è una guerra iniziata da Hamas. Nessuno, tranne i più incalliti sostenitori di Israele, parla ancora oggi di guerra iniziata il 7 ottobre con conseguente “rappresaglia” di Israele – seppur specificando che tale rappresaglia ha assunto “la violenza sistematica e terrificante del ‘genocidio’”.
Come mai questa contraddizione nell’impostazione del discorso?
3) Citi questa frase di Liliana Segre: “In primo luogo, solo coprendosi occhi e orecchie si può evitare di percepire il compiacimento, la libidine con cui troppi sembrano cogliere un’opportunità per sbattere in faccia agli ebrei l’accusa di fare agli altri quello che è stato fatto loro”. E aggiungi: “Io a questo ci credo, e credo che valga soprattutto per alcuni europei.”
Di recente ho scritto una lettera a Stefano Levi Della Torre dove, tra le altre cose, citavo esattamente quella frase di Segre per dire: “Davvero, secondo Liliana Segre, troppi di noi “cristiani” (nel senso di “non ebrei”) non aspettavano altro che uno sterminio di palestinesi da parte di Israele in modo da provare la libidine di accusare gli ebrei di genocidio”? Davvero insomma non abbiamo altro di meglio da fare per provare libidine che accusare di genocidio gli ebrei?
Come fai a non renderti conto che in quella citazione è sotteso del disprezzo verso non meglio identificati “troppi” non-ebrei che ci riguarda tutti (proprio perché manca di specificazione)?
Poi ho capito. Tutto gira intorno al motivo per cui hai abbandonato il diritto internazionale, visto che ormai sempre più va consolidandosi il giudizio di genocidio (basti pensare al pronunciamento di Amos Goldberg, ebreo israeliano docente di Studi sul genocidio a Gerusalemme: Sì, è un genocidio, non possiamo più evitare questa conclusione, la storia del popolo ebraico sarà per sempre macchiata).
Lo hai scritto chiaramente: “In questione non è tanto la pertinenza o meno di questo “termine” sul piano strettamente giuridico, per molti versi plausibile […]. Preferisco non usarlo per gli effetti, inconsapevoli o meno, che la sua formulazione può indurre in me, cittadino italiano, appartenente a quel popolo che ha avuto un ruolo nello sterminio degli ebrei in Europa.”
In altre parole, ti senti parte in causa. Ti consideri uno dei, come dire?, carnefici degli ebrei in quanto italiano e francese per via del fascismo e della repubblica di Vichy. Hai assunto il senso di colpa europeo per la Shoah come criterio per non chiamare “genocidio” l’operato di Israele, legittimando in questo modo:
1) uno status d’eccezione (d’elezione?) per il popolo ebraico
2) l’equivalenza che fa Liliana Segre tra Israele e popolo ebraico.
Evidentemente, secondo te noi europei dovremmo muovere critiche a Israele in modo più soft rispetto a come ci rapportiamo verso gli altri stati, in modo da non provare libidine nel ritorcere contro agli israeliani, e agli ebrei tutti, le accuse che in passato sono state avanzate a carico nostro.
E allora tutto è chiaro. Tu, per il senso di colpa per la Shoah, da intellettuale europeo ti limiti nel parlare di genocidio in modo da salvaguardare la sensibilità degli ebrei
– o meglio: quella che tu attribuisci a loro, dato che prendi come punto di riferimento Liliana Segre e non per esempio Amos Goldberg o gli ebrei antisionisti: ci sono infatti molti ebrei che considerano importante parlare di genocidio e chiedersi come sarà il futuro dell’ebraismo dopo Gaza, ritenendo essenziale rielaborare la propria percezione di vittime – ,
i media si limitano nella denuncia dei crimini di Israele, dando loro dei nomi diversi da quelli più appropriati (come fai tu evitando di parlare di genocidio), gli stati europei usando le tue stesse premure continuano a sostenere Israele senza pensare minimamente a fare sanzioni, la Francia, l’Italia e la Germania restano le più care alleate di Israele dopo gli Usa, fornendogli appoggio diplomatico e militare e…
Insomma, il tuo discorso in linea di principio è lo stesso che ha portato tutta l’Europa a essere complice di questo genocidio. Hai deciso, in definitiva, di fare degli ebrei le vittime per l’eternità. Li hai posti sull’altare, li hai sacralizzati.
Questo spiega anche il comportamento che hai avuto nei miei confronti un anno fa, nel tuo articolo già citato all’inizio.
Nei commenti a quel post citavi una mia frase, questa:
“E qui arrivo al secondo punto. Ciò che ho scritto mi sembra molto chiaro: qualunque azione contro gli ebrei della diaspora che trovi la sua origine nei crimini che commette Israele non è “vero” antisemitismo poiché il vero antisemitismo è un odio e discriminazione verso gli ebrei in quanto ebrei. Insomma, le conseguenze sugli ebrei derivanti da qual che fa Israele non sono vero odio razziale. Mi sembra semplice la questione.”
Per dire che la ritenevi “inaccettabile” e che, anche per quello, chiudevi i commenti – ma come, tu non sei l’autore che qui scrive che val la pena parlare, confrontarsi?
Non solo, arrivavi a scrivere che: “Galbiati non vuole proabilmente riconoscere che gli attacchi terroristici perpetrati in Francia dal 2015, in modo particolare, e che hanno colpito cittadini ebrei francesi (e anche non ebrei), sono ammazzamenti apertamente antisemiti. Perché mai dovremmo discutere dei bombardamenti di Gaza, se uccidere dei civili legati a un certo governo è un’azione politca e militare legittima?”
cioè dicevi, in modo intellettualmente DISONESTO, che secondo me sarebbe legittimo uccidere ebrei francesi filoisraeliani.
La disonestà di questo tuo intervento (evidente a chiunque legge) mi ha ferito profondamente (e tu lo sai) per due motivi: primo, perché ci conosciamo da quando abbiamo vent’anni, e pur non frequentandoci ti consideravo un amico (ci eravamo appena visti alla festa di Nazione Indiana) oltre che un intellettuale onesto e integerrimo; secondo, perché sottende uno scatto irrazionale, un pregiudizio razzistico nei miei confronti: a tuo parere – questo è il sottinteso della tua scorrettezza – io sarei tendenzialmente antisemita (sennò perché attribuirmi che uccidere certi ebrei sarebbe legittimo?). Il tuo pregiudizio razzistico è facilmente dimostrabile: se fosse stato un ebreo antisionista a scrivere quelle mie frasi (e ce ne sono, ti assicuro, che le condividono), tu non avresti risposto allo stesso modo, non avresti chiuso il post attribuendogli quell’enormità di considerare “azione politica e militare legittima” l’uccisione di ebrei in Francia nel 2015.
Potresti leggere, sull’antisemitismo, a rappresentanza delle mie opinioni, quel che dice Ilan Pappé a Bruno Montesano del Laboratorio Ebraico antirazzista, di cui citi l’articolo per il Manifesto. Sotto scrivo il link.
In conclusione, il genocidio di Gaza è uno spartiacque per chiunque, anche per te.
Tu hai deciso di restare a metà del guado, di guardare a destra e a sinistra, di attingere argomenti da entrambe le sponde, contraddicendoti – come succede agli ebrei sionisti di “sinistra” che pare siano i tuoi principali punti di riferimento.
(Per esempio, citi Enzo Traverso e Judith Butler, che non condividerebbero granché del tuo discorso, infatti considerano Hamas una formazione partigiana, che attua una resistenza legittima. E contestualizzano il 7 ottobre in modo molto diverso da te, che parli solo di terrorismo crudele. Forse non sai ancora quante notizie sui presunti crimini di Hamas si sono rivelate fake news, non sai cosa sia la direttiva Hannibal applicata da Israele quel giorno provocando l’uccisione di un numero di civili non trascurabile ecc. Ora non mi dilungo su questo tema, è indubbio che Hamas abbia commesso molti crimini di guerra, ma il 7 ottobre è stata una operazione militare che inizialmente non aveva come obiettivo primario i civili, è degenerata in terrorismo anche per la mancanza di militari al confine e la presenza del festival Supernova, di cui Hamas non era a conoscenza. Judith Butler per le sue dichiarazioni sul 7 ottobre è stata menzionata dall’Osservatorio italiano sull’antisemitismo, a conferma che il fantomatico allarme antisemitismo si basa su rilevazioni che riguardano quasi sempre critiche a Israele o opinioni politiche legittime a sostegno della causa palestinese).
Ma alla resa dei conti, quando sei costretto a prendere posizione, non scegli l’ebraismo antisionista che distingue popolo ebraico da stato di Israele, che parla espressamente di genocidio, che non considera antisemita il 7 ottobre o i fatti di Amsterdam – anzi, semmai parla del “razzismo suprematista ebraico-sionista” di Israele e dei tifosi del Maccabi –, no; scegli di restare, seppure in modo contraddittorio, dentro il comodo recinto di intellettuale organico all’establishment europeo (francese in particolare) filosionista e islamofobo, dal pensiero ebreocentrico, che richiede solo per gli ebrei, facendone tutt’uno con Israele, un trattamento d’eccezione.
Per cui, prenditela con te stesso invece di disprezzare “i dirigenti politici occidentali cinici e vigliacchi che esibiscono ancora una volta i “due pesi e due misure””: lo fai anche tu evitando di parlare di genocidio per Israele. Tu ti muovi a livello di narrazione intellettuale, loro a livello politico, ma il principio del doppiopesismo è lo stesso.
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Links:
– https://www.nazioneindiana.com/2023/12/08/la-trappola-e-il-diniego-riflessioni-a-margine-della-guerra/
– https://lucysullacultura.com/essere-uno-storico-e-un-attivista-politico-una-conversazione-con-ilan-pappe/?fbclid=IwY2xjawHWcPVleHRuA2FlbQIxMQABHd1QfPHEvK1FgRwZwSLqZQJ8rDFgCdXegniTuaJhRaLrGHUFVjV1pDndYg_aem_TqpVKwsdqFrpd-eNvisHeA
– https://www.osservatorioantisemitismo.it/articoli/la-femminista-judith-butler-definisce-le-violenze-di-hamas-del-7-ottobre-atti-di-resistenza-armata-contro-la-violenza-di-stato
Lorenzo Galbiati nel tuo lungo commento, tra le altre cose cerchi di riaprire con me una discussione che per parte mia ho già chiuso l’11 dicembre 23. Per continuare una discussione bisogna essere in due, ma io non ne ho intenzione, e tantomeno sotto questo post. Rimani della tua posizione, nessuno te lo nega. Se vuoi continuare qui una discussione che non m’interessa avere con te, sotto un post che parla d’altro, chiuderò nuovamente i commenti.
Risponderò invece con serietà ad alcuni dei punti che sollevi relativi a questo post. Cominciamo da:
“1) nel tuo precedente post, “La trappola e il diniego. Riflessioni a margine della guerra” (8 dicembre 2023),”
No, il mio precedente post, come ho linkato nel cappello che forse ti è sfuggito, s’intitola La sineddoche israeliana e la contestazione studentesca. Il diritto internazionale è l’asse portante di tutti gli interventi, compreso questo, e non a caso ho linkato i miei interventi precedenti, in quanto sono tappe e “fuochi” diversi di una stessa riflessione.
Tu su questo articolo fai un accurata selezione, e poi concludi: “Insomma, il tuo discorso in linea di principio è lo stesso che ha portato tutta l’Europa a essere complice di questo genocidio. Hai deciso, in definitiva, di fare degli ebrei le vittime per l’eternità. Li hai posti sull’altare, li hai sacralizzati.” Chissà… Qualcuno che legge molto rapidamente questo mio solo pezzo, potrebbe anche arrivare a conclusioni simili? Ne dubito fortemente, ma non posso escludere interpretazioni selettive e distorte di quello che scrivo. Però, al di là delle conclusioni che tu hai voluto tirare, ci sono un paio di punti che non ho sufficientemente sviluppato, e che tu sollevi in modo per me pertinente. Il primo riguarda lo statuto di Hamas e il secondo l’uso del termine “genocidio”. Innanzitutto, non pretendo che questo mio scritto sia privo di contraddizioni interne, dal momento che è stato, anzi, mio interesse portarle alla luce. Ed entrare nello specifico di una posizione a sostegno del popolo palestinese e a condanna della politica israeliana, che vuole esplicitare il più possibile i suoi presupposti. E quasi ovvio dire che non pretendo che tutte le posizioni a sostegno del popolo palestinese siano in ogni punto coincidenti con la mia. Rovesciare invece la prospettiva, costruita in quattro articolati interventi, per farne una posizione filoisraeliana è ben altro conto.
Prendiamo il primo punto controverso: lo statuto di Hamas e la valutazione dell’azione del 7 ottobre. Non ho nessun problema a considerare Hamas come una forza politica di resistenza contro la politica israeliana. E’ un dato di fatto. Questo non mi impedisce di riconoscere nelle sue forme di lotta delle azioni di tipo terroristico. Come scrive Paola Caridi alla fine del suo libro su Hamas, l’uso che questa organizzazione ha fatto della violenza terroristica non la riduce a un’entità puramente terroristica, come invece l’hanno dichiarata, con Israele, una serie di stati occidentali. Detto questo, il fatto che Hamas sia un’organizzazione che promuove la lotta contro l’occupazione israeliana non “giustifica” per me un’azione come quella del 7 ottobre. L’ho scritto nel mio primo pezzo, e lo ripeto qui, perché sia ben chiaro. Ma questa posizione è sostanzialmente quella che esprimono Traverso e Butler, anche se da posizioni e tradizioni diverse. Vi è una questione enorme in gioco qui, ossia la questione della violenza legittima e dei confini di questa violenza in una lotta di difesa e di autodeterminazione. Possiamo poi valutare l’azione di Hamas da un punto di vista morale o da uno puramente politico, ma in ogni caso io non mi sento di aderire a un tale atto. Non solo, ma aggiungo che il rifiuto esplicito del riconoscimento dell’esistenza di Israele da parte di Hamas mi sembra una regressione, nei confronti delle posizioni raggiunte dall’OLP. Ripeto, solo questa questione implicherebbe uno sviluppo apposito, un’esplorazione specifica, un lavoro di analisi difficile. Non ho verità nette intorno a questo punto, solo una posizione che comunque assumo: comprendo il ruolo di Hamas nella storia attuale della resistenza palestinese, ma non “aderisco” ideologicamente, come spettatore terzo quale sono, all’azione del 7 ottobre.
Secondo punto. In questo articolo ho scritto:
“La guerra tra Hamas e Israele è stata scatenata da un’azione terroristica delle più crudeli (uccisione di civili, bambini inclusi) e ha prodotto una rappresaglia militare da parte israeliana, che non solo si è dispiegata attraverso modalità altrettanto terroristiche (bombardamenti indiscriminati su case e edifici pubblici come scuole, università, ospedali, ecc.), ma ha acquisito la violenza sistematica e terrificante del “genocidio”. Questo almeno agli occhi di una parte importante dell’opinione pubblica mondiale, ma anche di istituzioni internazionali e ONG indipendenti. Tornerò in seguito su questo termine. E dirò, perché è un termine che personalmente non amo utilizzare. Ma poco importano le mie ragioni o i dubbi sulla piena pertinenza dell’uso: esso si è imposto contro ogni tentativo di censura mediatica anche in una parte dell’opinione pubblica occidentale, e questo in reazione all’entità inedita della distruzione scatenata contro la striscia di Gaza, che nei fatti rende inabitabile quel territorio così densamente popolato. Possiamo utilizzare vecchie o nuove categorie, parlare di pulizia etnica o di urbicidio, quel che risulta chiaro è l’intenzione del governo israeliano di rendere Gaza un territorio dove non sia più possibile abitare, trasformando i Palestinesi in una massa di profughi sulla loro stessa terra.”
Che la “guerra” di cui si fa riferimento sia quella in atto tra Israele e la popolazione palestinese dopo il 7 ottobre è evidente, dal fatto che ci sono ben tre pezzi precedenti dove si fa riferimento all’occupazione israeliana e alla storia del conflitto israelo-palestinese. Detto questo, è comprensibile la tua perplessità. Ma se dici che “agli occhi di una parte dell’opinione pubblica mondiale, di istituzioni internazionali e di ONG indipendenti questo è un genocidio”, tu allora da che parte stai? Sto dalla parte di coloro che denunciano il genocidio. Lo ripeto infatti: “In questione non è tanto la pertinenza o meno di questo “termine” sul piano strettamente giuridico, per molti versi plausibile, e in ogni caso legittimo in una campagna politica di denuncia dell’azione militare israeliana e di richiesta di un cessate il fuoco.” Non essendo io un giurista, non essendo impegnato nella raccolta di prove, non ho la certezza assoluta che si tratti di un “genocidio”, ma lo ritengo plausibile, inoltre “politicamente” penso sia legittimo parlarne, nell’ottica di intervenire per arrestare il massacro e imporre un cessate il fuoco. Potrei fermarmi qui, e non aggiungere altro. Invece non l’ho fatto, perché ho voluto esplorare i possibili effetti che, sui di me, europeo, un uso di questo termine può indurre. È una sottigliezza? Forse. Come scrittore, però, trovo che ci sia qualcosa di vero in quel passaggio di Liliana Segre. Non credo per nulla che sia una cosa generalizzata, né tanto meno sia una caratteristica dei difensori europei della palestina, ma ho “sentito” che esiste, ed è alla base della mia reticenza personale. Quindi, lo ripeto: non solo non mi scandalizza l’uso di questo termine, ma lo trovo legittimo politicamente, anche se ha la virtù e le pecche di tanti slogan politici. Bisogna poi saperlo “dispiegare” nella giusta complessità. Le mie reticenze da questo punto di vista contano ben poco, anche perché so trovare parole chiare per condannare l’azione israeliana e cercare di misurarne il carattere abnorme. E però volevo mettere in parole e in modo pubblico anche la mia “personale” reticenza e le sue ragioni. Volevo che anche ciò entrasse nel quadro.
Andrea Inglese,
questo è il mio ultimo commento.
Prima una doverosa precisazione.
Tu scrivi: “tra le altre cose cerchi di riaprire con me una discussione che per parte mia ho già chiuso l’11 dicembre 23. Per continuare una discussione bisogna essere in due”.
Non cerco di riaprire nessuna discussione avuta con te un anno fa – il mio intento era un altro -, per il semplice motivo che hai chiuso i commenti al già citato articolo “La trappola e il diniego” per una mia frase, anch’essa già citata, che non era rivolta a te bensì a Giuseppe Samonà, dopo che questi mi aveva espressamente interpellato.
Detto questo, entrando nel merito di quel che scrivi, pongo alcune questioni:
1) Premesso che non ho mai citato lo Statuto di Hamas (che è stato già corretto anni fa ed è, come scrive Pappé, del tutto marginale), la questione per noi europei non credo sia “aderire” o “non aderire” al “7 ottobre” che, comprendendo anche violenza diffusa su civili, è stato un atto criminale. Io, per inciso, non “aderisco” nemmeno alla resistenza palestinese armata “legittima”. La questione, a mio parere, è come inquadrare il 7 ottobre: quali erano le motivazioni politiche che hanno fatto maturare la scelta di una poderosa e lungamente meditata operazione militare? Quali erano i reali obiettivi di Hamas? Perché non è andata come preventivato? Quale è il stato il ruolo di Israele nell’uccisione dei civili? Perché in Europa (Macron in particolare) si insiste a definirlo, scriteriatamente, “pogrom antisemita”? Perché le infinite fake news su alcune mai avvenute crudeltà di Hamas continuano a circolare tra giornalisti e politici? Perché insomma manca un inquadramento giornalistico e politico adeguato del 7 ottobre?
E poi, altra questione. Tu scrivi: “il rifiuto esplicito del riconoscimento dell’esistenza di Israele da parte di Hamas mi sembra una regressione, nei confronti delle posizioni raggiunte dall’OLP.”
Hamas ha dichiarato più volte di volere uno stato palestinese entro i confini del 1967: questo non è già un modo implicito per riconoscere Israele? E poi: perché Hamas dovrebbe impegnarsi a riconoscere uno stato occupante prima che questi torni nei suoi confini e a sua volta si impegni in un riconoscimento reciproco? Con il passare degli anni, sempre più politici e storici palestinesi moderati, legati a Fatah, come Rashid Khalidi, hanno criticato Arafat per i suoi accordi con Rabin, dai quali non ha ricavato quasi nulla (Arafat riconosceva Israele, Rabin si impegnava non a dare uno stato autonomo ai palestinesi, ma a riconoscere l’Olp come interlocutore). Secondo molti, è stato soprattutto il riconoscimento di Israele senza nulla in cambio (nemmeno la fine della colonizzazione) ad aver determinato, qualche anno dopo, la vittoria di Hamas alle elezioni.
2) Non credo sia una “sottigliezza” valutare gli effetti che possa avere sulla nostra società (e sulla nostra vita di singoli cittadini) l’uso della parola genocidio. Credo sia molto importante, soprattutto perché noi europei siamo complici. Dopo che professori, giornalisti, politici, intellettuali, ci hanno martellato, fin dalle scuole dell’obbligo, per decenni, sul rispetto dei diritti umani, sulla Giornata della memoria, sul “Mai più genocidi”, noi europei siamo attivamente coinvolti in un genocidio. E allora bisognerebbe chiedersi se l’uso (selettivo e sacralizzato, a mio parere) che abbiamo fatto della memoria non abbia favorito proprio il verificarsi di quello che, a parole, dicevamo parte del passato in quanto inaccettabile per la nostra cultura. La percezione di Liliana Segre può avere molte sfaccettature di verità, può dire molto su Segre e su molti ebrei sionisti “critici” come lei, può dire molto su alcune persone che tu e lei “sentite” coinvolte in un certo agire – e in questo caso, la domanda mia è: siete sicuri che la spinta di queste persone sia l’antisemitismo e non piuttosto un surmenage lento e prolungato sul sentirsi colpevolizzati per i crimini del passato?
E infine: serve a qualcosa condannare Israele da parte di noi europei? Se alla condanna viene assecondata e confermata l’alleanza politica, militare (Germania e Italia rispettivamente secondo e terzo stato fornitore di armi), commerciale, accademica, sportiva… siamo sicuri che stiamo condannando?
Cos’altro deve ancora succedere per farci muovere come intellettuali e chiedere verso Israele le più estese sanzioni e il più totale boicottaggio?
“La questione, a mio parere, è come inquadrare il 7 ottobre: quali erano le motivazioni politiche che hanno fatto maturare la scelta di una poderosa e lungamente meditata operazione militare? Quali erano i reali obiettivi di Hamas?”
Come contestualizzare storicamente l’attacco del 7 ottobre è doveroso (tema del mio primo pezzo contro l’articolo di Giordano), ma capire quali erano le motivazioni politiche di Hamas, questo lo lascio fare ad altri. A me, il risultato di tutto cio’, anche in un’ottica strettamente politico-militare, sembra una totale catastrofe per il popolo palestinese. C’è chi la pensa diversamente, c’è chi pensa che adesso che vengono uccisi almeno se ne parla. Con quali risultati?
Il riconoscimento “esplicito” di Israele, con revisione della sua “carta”, non è mai stato fatto da Hamas. Ora su questo punto ho letto un pezzo di Luca Illetterati su Le Parole e le Cose che mi ha convinto definitivamente. Se c’è una pace da fare basata sulla giustizia, oggi, questa non puo’ non implicare anche l’accettazione di principio, come dice Alain Greish, dell’esistenza di due popoli sul territorio della vecchia Palestina mandataria. Naturalmente non è in sé il principio che conta, ma quello che esso puo’ indurre nell’arco di qualche generazione nelle concrete mentalità. Ma se non si pone neppure il principio da dove si parte?
Per parte mia sono per l’arresto di ogni aiuto militare e anche di ogni collaborazione culturale con istituzioni israeliane legate all’attività dell’esercito. Non sono favorevole all’interruzione “in generale” di ogni collaborazione d’ordine culturale, perché vorrebbe dire boicottare anche tutto le voci, interne a Israele, seppure minoritarie, di dissenso e critica nei confronti del sionismo e della politica di annessione.