Abbagli tra le rovine del mondo caduto

di Alice Pisu

quella che segue è l’introduzione di Alice Pisu al racconto di Dario Voltolini “Acqua chiusa”, edito recentemente da Oligo Editore, nella nuova collana “Ronzinante”, diretta da Marino Magliani; i disegni contenuti nel volume, particolarità comune alla nascente collana, sono dell’autore del testo;
per gentile concessione della casa editrice mantovana

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Quando il fuggiasco de L’invenzione di Morel entra nel salone rotondo di un museo che pare disabitato come il resto dell’isola in cui è appena approdato, nota con disgusto che i suoi piedi calpestano un pavimento-acquario in cui galleggiano pesci putrefatti. Quella sensazione di abbandono è pura apparenza, generata da uno spazio e un tempo allucinati, strutturati come pura forma. Schernirsi del vero equivale per Adolfo Bioy Casares a generare uno straniamento rinnovato, reso nel muoversi entro una concezione alterata di realtà e apparenza: un elogio dell’irrealtà utile a indagare, tra proiezioni e invenzioni, uno smarrimento più profondo, esistenziale, destinato a permanere irrisolto.

Da una sospensione affine, connessa al presagio dell’inesorabile, si origina Acqua chiusa. Una storia di gorghi e detriti, di desertificazione, retta su materiali di scarto, simbolo della coesistenza della morte nella vita, dell’impossibilità di un vigore autentico in ciò che ormai è logorato dal tempo, dalla storia, dall’ineluttabile.

L’irrequietezza ammanta l’inerzia apparente del quartiere di Torino al centro del racconto, sostentato in passato dalla fervente attività della grande fabbrica Michelin di cui ormai non resta che un cratere. Attesta la deriva di una contaminazione che ha corroso ogni cosa, deformato i connotati delle abitazioni, le palazzine dall’estetica beffarda, il flusso tossico e purificatore delle sue acque. Le rovine industriali, le stratificazioni urbane, le finte piazze, i tetti a cresta di drago, i campanili al posto delle ciminiere si legano a un tempo irraggiungibile. L’assenza di precisi riferimenti temporali e spaziali e l’anonimato di personaggi che finiscono per annientarsi nel loro ruolo celano il passo favolistico del racconto: sfilano sulla pagina figure che lambiscono quotidianamente la catastrofe, accomunate da una coscienza anteriore alla loro esistenza. Lo sguardo del narratore rende tangibile la privazione, incapace di immaginare una forma di grazia in un passato proletario verso cui stride ogni nostalgia.

In costante equilibrio tra la perlustrazione e il racconto interiore, Voltolini indaga il corpo, scandaglia la dimensione fisica di un luogo prosciugato, in bilico tra realtà e mito, per coglierne lo spirito e comporre una personale geografia dell’immaginario. Le macerie di edifici divenuti assurdi nella loro tenace insistenza attestano un annichilimento nel calco del non tempo. Aleggiano interrogativi sottili sul cadere e lasciarsi cadere, sull’insensatezza del vivere scorta nell’evocare quel che accade a coppie segnate da ristrettezze, a figli miracolosamente scampati alla morte, a nuove generazioni inconsapevoli e sarcastiche. Si staglia sul resto la figura di un viandante perennemente di spalle, all’ombra dell’esistenza, immagine che rimanda a un’erranza manganelliana senza rimedio.

Intrigato dalla vita nascosta nella materia morta, da ciò che è ormai privo di senso, Voltolini genera visioni nel gioco di accumuli utile a sostanziare una dimensione estranea al noto. La tensione alla vertigine esorta chi legge a concepire una cifra di inconoscibilità e al contempo di familiarità in luoghi infestati dalla solitudine: analogie con l’ignoto che ogni individuo sperimenta se osserva il proprio vuoto. La levità sui drammi con scorci teneri e crudeli, caratteristica della prosa di Voltolini, trova nella forma breve la misura per sondare un dolore mai esplicitato nei suoi toni vividi, con una prosa retta sul dialogo tra gli oggetti, gli spazi fisici e quelli interiori. L’elogio del frammento, la cura estrema per la parola esatta, il sapiente tratteggio lirico, le insistenze descrittive sulla metamorfosi, l’inganno delle insorgenze della memoria, la costruzione dell’immaginario tra rifiuti e carcasse, concorrono a definire una desolazione senza rimedio, segnata dal fluire sfuggente dell’acqua e del tempo che annulla l’idea del futuro.

Emergono due distinte dimensioni nel racconto: il tempo verticale della costruzione e del crollo e quello orizzontale del fluire della natura che si riappropria degli spazi, ripulisce e annulla il preesistente. L’incedere per contrappunti – l’immobilità di un’atmosfera post-industriale e lo scorrere inesorabile dell’acqua – si inserisce idealmente nella concezione della natura liquida del linguaggio associata all’inafferrabilità dell’elemento naturale studiata da Anne Carson. Voltolini gioca con i vuoti, i pieni, i dislivelli, studia la cifra imperscrutabile di spazi perennemente esposti attraverso un allestimento urbano che solo in parte coincide col tangibile, per soffermarsi sugli esiti delle quotidiane disgrazie operaie, radicate e ineludibili, che concorrono a definire il tempo svuotato da ogni prospettiva del mondo caduto. Ogni elemento è definito nello squilibrio perenne, in una spirale di disgregazione e creazione che attesta una falsificazione perpetua, un’inutile resistenza all’abbattimento.

L’autore narra una decadenza anzitutto interiore, la trasfigurazione di un contesto in dismissione ormai falso, inservibile, che rimanda alle fantasie di Sebald su catastrofi future tra le rovine della civiltà estinta. Lontano da nostalgie per un passato guasto, con Acqua chiusa Voltolini concepisce nel disegno di fallimento la naturale conseguenza dell’inafferrabilità del reale, dell’abbaglio del visibile. Indugia sulle sovrapposizioni di storie per scorgere grovigli senza via d’uscita nel posare fugacemente lo sguardo sugli esiti individuali dei suoi soggetti.

Il racconto è un invito a rintracciare una personale geometria del tempo nel bilico tra memoria e perdita, a fare propria la curiosità immaginativa del narratore sulla vita anteriore per riconoscere nella fragilità di un ambiente in dissoluzione una configurazione interiore nell’enigma tra salvezza e oblio, e riflettere sull’incapacità moderna di relazionarsi al paesaggio e di lasciarsi interrompere da esso.

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giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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