Marinella Perroni: «la teologia è queer»

 «Non si tratta di “rendere queer” la Bibbia, ma del fatto che essa è già in se stessa, originariamente e sufficientemente, queer» scrive Gianluca Montaldi nell’introduzione all’edizione italiana di un commentario, la Bibbia Queer, curato da Mona West e Robert E. Shore-Goss. A chi ritiene questo accostamento stridente, oppure volutamente blasfemo, il commentario risponde convocando un numero vastissimo di studiosi ed esegeti che interrogano il senso molteplice delle Scritture, ovvero quell’irriducibilità che fa della Bibbia un testo mai integralmente decifrabile o appropriabile, se non in chiave fondamentalista.  Fondamentalismo che irrigidisce la teologia, arruolando l’esegesi in una serie di battaglie (come quella recentissima contro la “gestazione per altri”) che proprio la Bibbia potrebbe invece aiutare a decostruisce con un’altra prospettiva, sovra-naturale (o addirittura contro-naturale).

Α fronte delle molte critiche, l’accostamento tra Sacre Scritture e queerness non ha invece sorpreso Marinella Perroni, una delle figure più singolari della teologia italiana. Nata nel 1947, docente di Nuovo Testamento presso il Pontificio Ateneo S. Anselmo di Roma e promotrice inesausta di una teologia militante (lontanissima però dal “muscolarismo woytiliano”), Perroni ha negli anni intessuto un fitto dialogo con Michela Murgia, che l’ha più volte citata come «capostipite della sua genealogia intellettuale». Proprio a lei dedica ora un libro, Colloqui non più possibili, dove la conversazione riprende a partire da un congedo forzato, da una separazione inevitabilmente dolorosa che permette però a Perroni di restituire la forza del pensiero teologico di Murgia, che non si muove di-contro ma proprio all’interno dell’orizzonte esegetico: «la Bibbia, la gabbia più strutturata e duratura di tutte, poteva essere smontata e rimontata in modo liberatorio» (Ricordatemi come vi pare).

Anche per Murgia, infatti, queerness e teologia hanno in comune la loro irriducibilità. In God save the queer, un catechismo femminista pubblicato nel 2022, la scrittrice si domandava, a proposito della carica sovversiva del “queer”, ma anche dell’assoluta alterità (della dissomiglianza) del Dio cristiano: come normalizzare chi rifiuta il concetto stesso di norma?  «Simili domande» scrive Murgia «sono piste di ricerca sociologica, ma sono anche domande teologiche, perché – estratte dal contesto – sono applicabili al Dio cristiano nella sua accezione di essere “Totalmente Altro” rispetto a noi».  Un’interrogazione queer che evita allora «di rapportarsi a Dio con definizioni – padre/madre o maschio/femmina, ma estensibili anche a bianco/nero, giovane/vecchio e altre dicotomie escludenti – che per le persone si stanno rivelando insufficienti o superate. La queerness come pratica della soglia è adatta a ragionare di un Dio trino che nella Persona di Cristo ha detto ai suoi: “Io sono la porta”.».

Emerge qui la radicalità di un pensiero che, forzando l’apparente sbarramento tra la militanza e l’interrogazione biblica,  delegittima non solo l’arruolamento oppressivo del culto cristiano (che per secoli ha trovato nel misticismo una straordinaria contro-narrazione), ma anche l’inconciliabilità tra fede e femminismo, spesso dichiarata per un (fin troppo) facile rigetto della religione tout court. Perroni invece ci pungola attraverso il pensiero di Murgia, tocca le questioni non stemperandole ma muovendosi nello stesso gesto radicale, in una forma di comune scottatura, come quando – a un certo punto del libro – si rivolge così a Murgia, riprendendo proprio la questione della “soglia”: «la tua radicalizzazione del discorso sulla soglia arrivava a individuarla non come luogo di passaggio verso nuove possibili fasi della vita o verso occasioni ancora inedite, ma come contesto interiore in cui abitare la soglia addirittura delle identità molteplici e accettare perciò come condizione permanente la continua rigenerazione non soltanto delle relazioni, ma perfino di sé. In un gioco, nel caso della famiglia queer, di reciproca libertà e di cura e di responsabilità di ciascuno e di tutti».

Una rigenerazione che diviene dunque mandato etico, e che mi ha spinto a provare a mia volta a entrare in questo dialogo “impossibile”, e a raggiungere Marinella Perroni al telefono per parlane insieme.

 

 

Giorgiomaria Cornelio: Partiamo dal titolo. “Colloqui non più possibili” sembra in qualche modo contraddirsi, dato che il libro stesso è un continuo dialogo, non solo tra te e Michela Murgia, ma anche con tante altre voci che convochi. È un libro che, nonostante parli di morte e congedo, trabocca di vita. Quindi, mi chiedo: davvero i colloqui non sono più possibili? O c’è ancora una promessa, uno spazio inatteso di dialogo con il dibattito contemporaneo?

 Marinella Perroni: Sai, il titolo in fondo smentisce se stesso. È come quelle persone che parlano del silenzio senza mai farne esperienza, o di cose come il sesso, come direbbe Woody Allen, proprio perché non lo fanno. Certo, il libro parla della fine di una persona, della perdita, ma è anche un libro che esplora i legami, che rivive le parole e i pensieri di Michela. Il “non” del titolo riguarda l’impossibilità di continuare a parlare con lei in un tempo che non esiste più. Ma questo non significa che il dialogo non continui.

 

G.M: Quindi, questi colloqui agitano ancora una memoria carica di futuro…

M.P: C’è però una tristezza che non può essere elusa, una sofferenza che viene fuori ogni volta che qualcuno, come te adesso, mi fa parlare di Michela. È una fatica che sento intensamente, soprattutto ora che l’età avanza e le perdite si accumulano. Non puoi fare a meno di portarle dentro, anche se cerchi di mettere da parte il dolore. Eppure, i colloqui non sono solo un modo per ricordare, ma un tentativo di tenere viva una relazione che non è finita, che continua ad evolversi nel tempo. Penso che questo libro sia un germe per tanti altri discorsi. In ogni pagina assenza e presenza sono due realtà che fanno una danza macabra o una meravigliosa danza primaverile.

 

G.M: E in queste pagine mi sembra che tu tocchi anche temi molto complessi legati alla fede, all’interpretazione delle Scritture. Parli di una teologia pubblica e di una teologia queer, che non si limita a una concettualizzazione distante, ma che è coinvolta interamente nella crisi: che sceglie di abitarla.

Scrivi, per esempio: «forse proprio per questo per secoli la Chiesa cattolico-romana ha espulso la Bibbia dal suo orizzonte teologico e quelle protestanti hanno cercato di tenerla a bada nelle gabbie del fondamentalismo letterario. È un insieme di libri complesso e contraddittorio, difficile. Soprattutto, però, è un libro sovversivo perché ti impone di andare alla ricerca del segreto della vita che la fede certamente illumina ma a corrente alternata, e mai senza farti nascere delle domande».

 In un’epoca come la nostra, può davvero esistere una teologia che non sia anche una teologia della crisi?

M.P: : Sì, purtroppo può esistere, perché esiste sempre una teologia “di palazzo”, quella che sta dentro le istituzioni, che segue il potere, che ha il compito di legittimare lo status quo. Ma quella non è la teologia che mi interessa. La vera teologia, quella che ha come base un Gesù che rifiuta il potere del palazzo – sia politico che religioso – è una teologia che nasce dalla crisi, che non ha paura di abitare il dolore, la perdita, la solitudine. La teologia che mi interessa è quella che esce dal palazzo, quella che guarda il mondo dal di fuori e lo interroga.

 

G.M. Quindi parliamo di una teologia che non è mai distante dal dibattito, e che non si rifugia nelle certezze. Proprio per questo nel libro hai affrontato (dialogando con il pensiero di Murgia) temi come la GPA (gestazione per altri), senza dare risposte nette, ma coltivando un’idea di complessità in netta distanza, per esempio, con il pensiero che ha portato a formulare recentemente il “reato universale” (arrogandosi il diritto dell’universalità).

 Quello che mi colpisce è che, mentre in alcuni ambienti si cerca di costruire certezze morali, questo libro sembra rifiutare quella logica, aprendo spazi a una riflessione più profonda, anche se più incerta.

 M.P: Quella del “reato universale” sarebbe una cosa spaventosa se non fosse ridicola, nel senso che a un certo punto quando tu ti rendi conto che non c’è nessun fondamento giuridico a una pretesa giuridica, allora capisci che questa pretesa non serve a dirimere i problemi della realtà, ma soltanto a orientarla ideologicamente. Quello che stiamo vivendo è un momento in cui alcune persone tentano di imporre verità universali. E lo fanno spesso appellandosi a principi religiosi, come se il cattolicesimo fosse una specie di monolite che offre risposte definitive. Ma questa non è la mia esperienza, e neppure quella di Michela. La legge, la religione, le istituzioni, in fondo, sono costruzioni umane. Quando leggi che i magistrati dovrebbero entrare in politica o che la Chiesa detiene la verità su questioni come la GPA, capisci che non c’è più una distinzione netta tra diritto e potere. È ridicolo, ed è per questo che ci dobbiamo interrogare. La legge è uno strumento per gestire il mondo, non per dettare verità assolute.  Io non ce l’ho con le istituzioni in sé, ma con l’idea che si possano usare per imporre una visione unilaterale e moralista.

 

G.M. : Quello che mi sembra emergere, soprattutto nel tuo approccio, è la necessità di mantenere una distanza critica, di rimanere fedeli soltanto a una ricerca senza destinazione certa.

 M.P.: Ogni volta che qualcuno si trova all’interno di un sistema, deve essere consapevole che la vera libertà di pensiero può venire solo da una visione che non è mai completamente dentro a quel sistema. È una questione di scelte personali, di storia, di esperienza. Chi guarda con occhi critici ha sempre una risorsa in più. E questo vale non solo per la teologia, ma per ogni campo di pensiero.

 

G.M.: La Bibbia è spesso vista soltanto come un testo conservatore,  da strumentalizzare, come avviene nel fondamentalismo. Eppure, leggendo il commentario queer recentemente pubblicato, oppure il tuo libro o ancora God Save The Queer di Murgia, le Scritture sembrerebbero tramutarsi  in una sorta di iniziazione alla pluralità. Può la Bibbia, anche per chi non studia teologia, essere un testo di rilettura queer del mondo? Un testo che ci aiuti a esplorare nuove possibilità di vita?

 M.P.: Questa è una domanda complicata, perché la Bibbia è tanto, anzi, è davvero troppo. È un testo vasto, che esonda, che non può essere ridotto a una singola cifra. Pensa appunto all’uso che ne fanno i Trumpiani, o i fondamentalisti israeliani, che la trasformano in una bandiera ideologica. Per questo poco tempo fa ho scritto a un amico: “La Bibbia è stata la rovina della storia.” E lui ha risposto che, purtroppo, è vero. Ma io, come Michela, sento anche che la Bibbia possiede il potenziale per essere la liberazione della storia. È tutto nel modo in cui la maneggiamo. È vero che le istituzioni religiose la usano in modo fondamentalista, seguendo una tendenza che sciaguratamente vediamo dominare oggi in tutti gli ambiti, dalla politica alla società.

 

G.M.: Quindi, tu intendi la Bibbia come una sorta di “vettore” di liberazione, e insieme di oppressione. Dipende da come orientiamo la lettura, o meglio: dalla nostra capacità di non cedere a un unico orientamento, conservando il “molteplice senso delle Scritture”…

 M.P: Esattamente. Il problema, come dicevo, è che oggi viviamo in un’epoca di fondamentalismo a tutti i livelli. Per esempio, alcuni cattolici dicono che se una cosa la fa il Papa, allora è una grande cosa, e non si può discuterne. Non esiste possibilità di  dialogo. Ma il fondamentalismo non è solo un fenomeno religioso: è un’attitudine psicologica, una modalità di guardare al mondo che si nutre di paura, di discredito dell’essere umano, e di miti come quello dell’Eroe. Questo tipo di antropologia ha prodotto i fascismi, e li produce ancora oggi. Fondamentalismo significa voler ridurre la realtà a un’unica verità, senza spazio per il dibattito, senza spazio per la pluralità. E la Bibbia, se letta in maniera superficiale, può diventare un veicolo per quel tipo di pensiero. Ma se la leggiamo con occhi queer, è capace di mostrarci qualcosa di molto più vasto e profondo.

 

G.M.: Abitando la tua riflessione, potremmo allora dire che se è vero da una parte che la Bibbia “esonda” e può essere un testo di iniziazione all’identità molteplice e mai “conclusa”, dall’altra però è anche quel testo che ci costringe a fare i conti con il riemergere dei fascismi, a capire che non possiamo cancellare il passato, non possiamo fare a meno di studiarlo. Insomma: per evitare i fascismi è bene prendere in analisi i miti fondativi che nascono proprio da una distorsione delle Scritture, capire che la Bibbia è molto più grande di ogni idealizzazione strumentale che ne fanno le destre, che ne fanno i fondamentalisti.

M.P.: La Bibbia è un testo enorme. I fondamentalisti ne estraggono una lettura che limita e riduce la sua ricchezza, ma noi dobbiamo imparare a prendere la Bibbia nel suo insieme, a non cadere nella trappola di una lettura ideologica. Per esempio, l’Antico Testamento è incredibilmente ricco e “diffrattivo”. Non è un testo da ridurre a una moralità rigida. È piuttosto un racconto che contiene una molteplicità di storie, voci, conflitti, ed è lì che si nasconde una potenzialità che i fondamentalisti non vogliono vedere.

 

G.M.: Molti, parlando della Bibbia, sembrano però preferire il Nuovo Testamento, mentre l’Antico Testamento è spesso giudicato come oscuro, interamente patriarcale. Tu, invece, da studiosa militante del Nuovo Testamento, sembri avere una particolare affezione per l’aspetto anticotestamentario…

M.P.: Sì, la mia affezione per il Vecchio Testamento è profonda. Trovo che il Vecchio Testamento rappresenti perfettamente l’assunzione della molteplicità, il riconoscimento che la realtà è complessa. Dopo di che, io sono neotestamentarista, sono cristiana, ma il Nuovo Testamento, pur essendo fondamentale per il cristianesimo, tende ad avvicinarsi a un’idea di unicità, di verità assoluta. L’Antico Testamento è invece l’espressione di una lunga storia di lotte, di conflitti, di differenze, che sono proprio ciò che caratterizza l’esperienza umana. Certo, ci sono nell’Antico Testamento anche aspetti difficili da comprendere, violenze terribili: non è che nella Bibbia si raccontino solo storie edificanti!

 

G.M.: Però noi dobbiamo fare i conti, lo dicevamo prima, anche con questi aspetti terribili, leggerne e rileggerne il mito, senza costringerci in una specie di “catechismo igienico” e moralista.  Anche perché può esserci del fondamentalismo anche in questo. Tu scrivi il contrario: «il compito di quella che chiamiamo teologia pubblica è entrare nel confronto tra i saperi»… senza strettoie, senza facili idealizzazioni.

M.P.: La Bibbia può insegnarci a vivere con la contraddizione, con l’incertezza, senza idealizzare il passato o pensare che la soluzione sia tornare a un’età “dorata” che non esiste. È un atto di liberazione, anche se non facile. Il punto è che dobbiamo essere disposti a fare i conti con la realtà nella sua interezza, senza nascondere la nostra paura. Se impariamo a leggere la Bibbia con questi occhi, vedremo che è molto più grande di come ce la raccontano i fondamentalisti. È il testo della molteplicità, e della vita che non si accontenta di risposte facili.

 

 

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Giorgiomaria Cornelio
Giorgiomaria Cornelio è nato a Macerata nel 1997. E’ poeta, regista, curatore del progetto “Edizioni volatili” e redattore di “Nazione indiana”. Ha co-diretto insieme a Lucamatteo Rossi la “Trilogia dei viandanti” (2016-2020), presentata in numerosi festival cinematografici e spazi espositivi. Suoi interventi sono apparsi su «L’indiscreto», «Doppiozero», «Antinomie», «Il Tascabile Treccani» e altri. Ha pubblicato "La consegna delle braci" (Luca Sossella editore, Premio Fondazione Primoli, Premio Bologna in Lettere) e "La specie storta" (Tlon edizioni, Premio Montano, Premio Gozzano Under 30). Ha preso parte al progetto “Civitonia” (NERO Editions). Per Argolibri, ha curato "La radice dell'inchiostro. Dialoghi sulla poesia". La traduzione di Moira Egan di alcune sue poesie scelte ha vinto la RaizissDe Palchi Fellowship della Academy of American Poets. È il direttore artistico della festa “I fumi della fornace”. È laureato al Trinity College di Dublino.
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