Il Dimidiato

Foto di Nika Akin da Pixabay

di Astronauta Tagliaferri

[Pubblichiamo un estratto, le prime 5 pagine, dal racconto Il Dimidiato]

È il sei settembre e sono alla scrivania a scrivere con la mano sinistra perché stasera alle otto, alla spalla destra, m’hanno messo un tutore blu che puzza di nylon. Sono caduto mentre alleggerivo l’albizia il cui tronco è stato svuotato da un fungo cresciuto a causa della poca luce, tutta assorbita dalle imponenti acacie; sovrappensiero rimuginavo sulla casa vista oggi a Firenze e sul messaggio in cui, annodato al trionfo e alla circospezione, un caro amico mi annunciava l’ingresso nel club dei novelli babbi.

Avrei voluto rispondergli che l’arrivo di un figlio è bello e stancante allo stesso tempo, di navigare leggero, di dimenticare i propri bisogni. Con lievi forzature, la nascita di un figlio potrebbe definirsi un’esperienza mistica se non fosse, come spesso accade, per il regresso nel paludoso nucleo familiare di partenza dal quale, con fatica, uno si è emancipato. Avrei voluto rispondergli con queste frasi fatte, con questi luoghi comuni in cui galleggiano tocchettini di vero.

Gli ho risposto semplicemente con un: “Grandissimo! Sono davvero felice per voi!” Non mi ricordavo il nome della sua donna, peraltro credo di non averla mai vista. E poi poteva anche domandarmi come sto io, come sta mia figlia Matilde, come sta Clara. Gli avrei riassunto gli ultimi mesi, la verità,compatibilmente con la confusione che mi porto dentro.

Ho cominciato a fumare oppio, lo faccio di nascosto per ovvi motivi e anche perché nascondermi, proprio come per un adolescente, m’è piacevole tanto quanto fumare. Va da sé che stasera ho già fumato, nella casina in legno in fondo al giardino, una sorta di mausoleo tra le acacie in cui, dopo ore di scavo per creare una trincea lunga ottanta metri e profonda trenta centimetri col fine di interrare la forassite, adesso posso accendere due luci: una dentro, una tartarughina bianca accanto al cui interruttore c’è una presa Schuko, e una fuori, un faretto con il vetro rettangolare che illumina fino al boschetto di salici e alla recinzione che delimita la fine del mio terreno e l’inizio di quello della curia.

Dopo tre tiri si amplifica tutto: sento i lombrichi strusciare nelle loro gallerie buie e umide sotto i miei piedi e il frullare dei fagiani quando ruotano su sé stessi per uscire dai loro giacigli nelle sterpaglie rugginose e volare sui rami dove trascorreranno la notte. Beato sulla sdraio di tela, stasera ho chiuso gli occhi e ho sentito la calotta cranica sbriciolarsi delicatamente, la spalla e tutto il corpo distendersi e la corazza riporsi tirando via ansie e preoccupazioni. Ho spento le luci del mausoleo e sulla siepe di lauro brillavano macchioline azzurrine di luce lunare, tante piccole lune su ogni foglia come tanti occhi. Riesco a osservarmi dall’esterno, proiettare i fatti, dividerli in blocchi.

Tra luglio e agosto, a Firenze, abbiamo seguito un percorso di dodici incontri con una tiflologa e una psicoterapeuta. In separata sede abbiamo incontrato la tiflologa al fine di personalizzare i libri di testo per Matilde: arriveranno direttamente dalla biblioteca dei ciechi Regina Margherita, a fine mese, ingranditi, con le figure diradate, le scritte in carattere Tahoma 26 e più nette. In contemporanea è partito un ciclo di incontri di gruppo con altri genitori di figli ciechi o ipovedenti. Ci si riunisce ogni sabato, senza figli, con la mediazione di una psicoterapeuta.

Clara non c’è mai perché il sabato le è difficile assentarsi dal lavoro. Forse sono pazzo o è il mio solito modo di evadere, ma durante i discorsi mi incanto a guardare la mamma di Nicolas, un bambino di dieci anni con la maculopatia, perché la trovo curiosa, esercita su di me un richiamo, ha le unghie curate e smaltate color amaranto e i braccialetti di oro bianco che tintinnano mentre gesticola, e me la immagino distesa, un nido di peli tra le gambe, qualche smagliatura biancastra sui fianchi, i capezzoli larghi e scuri. Nella pausa caffè di sabato scorso le ho anche consigliato L’incubo di Hill House. Lei si chiama Eleonora come la protagonista del libro. Siamo diventati amici, facciamo insieme il tratto di strada dal padiglione di Careggi al parcheggio.

Il lunedì e il venerdì porto Matilde dalla neuropsicomotricista, le serve per migliorare la coordinazione occhio/mano, la motricità fine e per lavorare sulle emozioni. Nell’attesa, leggo sulla panchina di legno sotto i tigli. Tra poco inizierà a piovere e sarà freddo e leggerò nella sala d’attesa; negli ultimi tempi la sala d’attesa si è definita come una dimensione esistenziale cartellonata e assertiva alla quale tento invano di ribellarmi: vietato fumare, tenere la voce bassa, non mangiare, attendere seduti il proprio turno.

Di notte, prima di fumare, cammino in paese con il cane, lo lascio slegato e sono contento di urlare il richiamo “ITALOOOO, VIENI, ‘NDIAMOO”, più forte possibile, fino a sentire stringersi la gola proprio come ha fatto il caldo di questo agosto in cui abbiamo incontrato la dirigente scolastica quattro volte, all’ultima c’erano anche le maestre e l’insegnate di sostegno assegnata alla classe: hanno fatto su di noi un’ottima impressione. Abbiamo esposto alle insegnanti le nostre perplessità riguardo all’utilizzo del banco ergonomico per ipovedenti e insistito affinché sia promossa l’autonomia di Matilde e non l’assistenzialismo.

La loro prospettiva ci è piaciuta, sostanzialmente in linea con la nostra. Abbiamo perlustrato la scuola con l’istruttrice di orientamento e mobilità in cerca di possibili ostacoli: ne abbiamo trovati di silenti e manifesti, e rimossi. Sulla scalinata di marmo bianco all’ingresso della scuola abbiamo applicato delle strisce scure che permetteranno a Matilde di individuare la profondità di ogni scalino. Salire e scendere, inciampare, alzarsi e ripartire. Un saliscendi convulsionario come quello per il riconoscimento della 104: visite dal medico legale slittate di mesi rimbalzando sui divisori in plexigas dei patronati, mentre certi fogli si smaterializzavano dalla mia cartellina gialla con il bottone di velcro aperto e chiuso almeno un milione di volte sulle mie cosce.

Poi l’Inps con il numero di protocollo smarrito, inciampare, il verbale spedito su un aeroplano di carta trascinato dalla corrente dentro una nuvola o in un triangolo di nuvole, cadere e precipitare con il rischio concreto di non essere in tempo per la richiesta del sostegno scolastico. Alla fine, il verbale è arrivato in tempo, al limite, ed è stato come riprendere il volo, rialzarsi.

Adesso, fino al 2025, anno in cui dovremo tornare in visita per il rinnovo dell’invalidità, come se ce ne fosse bisogno per una malattia neurodegenerativa quale è il glaucoma congenito, per di più bilaterale, questa barca scortecciata se ne starà ferma in un porto di fortuna, le boe ad attutire i colpi del pontile, e il suo marinaio si sente i polsi doloranti e la camicia strappata.

Se si fosse degnato di chiedermelo, avrei detto al mio amico che Matilde ha imparato ad andare in bici senza rotelle, ogni tanto cade, si scontra con un paletto, si rialza, gioisce e gioiamo per le sue conquiste. Prosegue le sue lezioni a cavallo e salta 50 cm al galoppo. Io la porto in giro e le dico che è la migliore, in macchina le chiedo: chi è la migliore? Lei risponde: io babbo, io, ’n tu lo sai? Vuole andare alle olimpiadi, ma ancora non sa con quale disciplina. Forse l’equitazione, ma a lei piace saltare e non fare il dressage, che trova noioso. Tuttavia, l’equitazione paralimpica per ipovedenti prevede solo il paradressage.

Spesso la spio mentre sta in camera a fare ginnastica davanti allo specchio, oppure tenta la verticale di nascosto. Non vogliamo che la faccia in quanto stare a testa in giù alza la pressione degli occhi, e la sua pressione deve stare bassa, l’umore acqueo immesso deve essere pari a quello fuoriuscito: il drenaggio attraverso il trabecolato deve essere bilanciato, in equilibrio, stabile. Un aumento di pressione indurirebbe l’occhio che andrebbe ad appoggiarsi sul nervo ottico, atrofizzandolo, escavando maggiormente la papilla. Una volta atrofizzato, quel nervo non si risveglia e le connessioni con il cervello finiscono.

Prego, sciancato sulla mia sdraio, confidando nello sviluppo della scienza e nello studio sulle cellule staminali.

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davide orecchio
davide orecchio
Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
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