“Tales from the Loop”: una tragedia non riconosciuta
di Lorenzo Graziani
Da anni ho smesso di leggere dopo cena. Posso dare la colpa alla pigrizia, o magari alle difficoltà di digestione; comunque, da quando è arrivata la rivoluzione dell’intrattenimento on-demand, anch’io ricerco la quiete della sera attraverso una massiccia dose di streaming. Qualsiasi sia la piattaforma, la regola aurea che orienta la scelta è sempre la stessa: se sei in dubbio, scegli fantascienza. Non è infallibile, ma sicuramente rodata: mi conosco abbastanza bene da sapere che preferisco un mediocre show di fantascienza a un mediocre show di qualsiasi altro tipo. Mi piace pensare che sia perché la fantascienza è il genere più speculativo e vicino alla filosofia, come sostengono Deleuze e Chalmers; ma forse è solo perché appartengo a quella generazione di nerd svezzati all’ombra di George Lucas.
È proprio in conseguenza dell’applicazione della regola aurea su Amazon Prime Video che ho scoperto Tales from the Loop. Le immagini dell’anteprima hanno catturato inesorabilmente la mia attenzione: goffi robot e misteriosi macchinari dall’appeal retro-futuristico si dividono la scena con vecchi furgoni Volkswagen. Leggo la trama. Siamo negli anni Ottanta, in una regione rurale dell’Ohio, dove è stato realizzato un imponente acceleratore di particelle, noto come “Loop”, che si snoda per decine di chilometri sotto la campagna circostante. La popolazione del luogo conduce una vita apparentemente tranquilla e ordinaria intorno al Loop, immersa nelle routine quotidiane e nei legami di comunità. Tuttavia, questa serenità è spesso scossa da eventi straordinari e paradossali legati alla misteriosa installazione, che si rivela così una presenza capace di sovvertire ogni certezza. Cercando in rete, scopro che lo sceneggiatore Nathaniel Halpern si è ispirato a un albo illustrato dell’artista svedese Simon Stålenhag, specializzato in scenari di storia alternativa. Per realizzare la serie, ha coinvolto non solo attori e registi di alto livello, ma anche musicisti del calibro di Philip Glass e Paul Leonard-Morgan. Non potevo chiedere di meglio.
Nel giro di qualche giorno vedo l’intera prima stagione che, con sorpresa, scopro essere anche l’unica. Certo, non tutte le puntate sono ugualmente riuscite, ma il livello mi sembra nettamente sopra la media. La serie è del 2020, e mi chiedo come sia possibile che in quattro anni tutto sia rimasto fermo e che l’algoritmo di Prime Video – pur conoscendo i miei gusti – non me l’abbia mai suggerita. Incuriosito, mi metto a cercare alcune recensioni, e le risposte alle mie domande non tardano ad arrivare. Salvo rare eccezioni, la maggior parte dei pareri disponibili in rete concorda nel dire che, nonostante il buon cast, l’ambientazione evocativa e il “tocco artistico” delle inquadrature, Tales from the Loop “is, all in all, a pretty terrible series” (James Guild). Dal “Guardian” ai blog, le ragioni sono evidenti e sempre le stesse: trama esile, ritmo lento, carenza di “sostanza” narrativa e troppe, troppe domande inevase.
Tra le critiche, spicca quella che, pur scorrendo sottotraccia un po’ ovunque, emerge con particolare evidenza da un pezzo di Serena Nannelli, pubblicato su “il Giornale” in piena crisi pandemica. Il difetto di Tales form the Loop è il seguente: in ogni episodio “all’indiscussa bellezza estetica si accompagna il sentimento costante d’impotenza e d’incomprensione vissuto dai personaggi”. Qualcosa – avverte Nannelli – da evitare accuratamente, soprattutto in un periodo in cui gli spettatori sono “già in balia di notevoli incertezze”: “l’immensa sensazione d’attesa che non conduce da nessuna parte è troppo simile a quella vissuta in massa da chi oggi cerca di evaderne di fronte alla tv”. In altre parole, la serie di Halpern tradisce le aspettative che si hanno oggi verso qualsiasi opera di mass art: che ci intrattenga senza farci pensare troppo, che ammazzi il tempo prima che lui ammazzi noi.
Ora, non c’è dubbio che la serie sia triste e lenta. Di sicuro esistono metodi migliori per anestetizzare il sistema nervoso e prepararlo al recupero notturno delle energie necessarie per essere svegli e produttivi il giorno dopo. Credo però che in questo caso si possa fare appello anche a un’altra ragione per spiegare l’insuccesso di questa serie: Tales from the Loop è una tragedia non riconosciuta.
Cerco di spiegarmi con un paio di esempi. Nel quarto episodio, “Echo Sphere”, Russ, direttore del centro e nonno di Cole, ha il gravoso compito di comunicare alla sua famiglia che non gli resta molto da vivere. La parte più difficile è dare la notizia al nipotino Cole. Russ decide allora, nel corso di una delle consuete passeggiate nonno-nipote, di portare il bambino a visitare l’oggetto che dà il titolo all’episodio: una grossa sfera arrugginita che giace abbandonata, poco fuori dall’abitato, in una chiazza di arido terreno. All’inizio Cole è diffidente e non vuole avvicinarsi, ma, rassicurato dalla presenza del nonno, si fa coraggio e i due entrano nella sfera. Russ invita Cole a urlare all’interno della struttura, che risponde riproducendo molte volte l’eco della voce del bambino. Più volte si ripeterà l’eco, più lunga sarà la vita di colui che ha prodotto il segnale originale, spiega il vecchio. E infatti, quando viene il turno del nonno, la sfera non restituisce alcuna eco. A questo punto, Russ si china verso il nipote, l’inquadratura si allarga e nella scena successiva vediamo Cole correre via, nonostante il vecchio lo preghi di fermarsi. Trascorsi alcuni giorni, Cole accetta di parlare con Russ e gli chiede se vi sia un modo per fermare la morte e, quando il nonno sostiene che è impossibile, il nipote gli ricorda le parole che aveva utilizzato per descrivere il suo lavoro al Loop: “se qualcuno dice che qualcosa è impossibile, io dimostro che è possibile”. Dopo un po’ di tempo, Russ viene ricoverato. Cole, convinto di poter trovare un rimedio per salvarlo, si intrufola nell’acceleratore, ma viene fermato dalla madre – alla quale nel frattempo è stata affidata la direzione del centro di ricerca – che tenta a sua volta di far capire al figlio come la morte vada accettata in quanto inevitabile parte della vita. L’episodio si conclude con Cole che, dopo la morte dell’amato nonno, torna alla sfera, ci urla dentro e, a ogni eco, vede trascorrere le decadi della sua vita futura. La sfera si riempie infine di lucciole e partono i titoli di coda.
Il secondo episodio su cui mi voglio soffermare è l’ottavo e ultimo, “Home”, diretto da Jodie Foster. Cole va a trovare il suo fratello maggiore, Jakob, dopo che questo, terminata la scuola, è andato a vivere fuori casa. Jakob però è stranamente freddo e distante. Quando Cole gliene chiede il motivo, il fratello confessa di non essere Jakob, ma Danny, un suo amico: in un episodio precedente, infatti, i due ragazzi avevano trovato un congegno in grado di scambiare le coscienze da un corpo all’altro e Danny, trovandosi a vivere in una situazione familiare molto più svantaggiosa di Jakob, si era poi rifiutato di tornare nel suo corpo. Poiché Danny gli racconta che la coscienza di Jakob è rimasta intrappolata all’interno di uno dei robot che si aggirano nella foresta, Cole parte alla ricerca del fratello con la speranza che la madre possa trovare una soluzione. Dopo averlo trovato, i due si dirigono verso di lei, ma un robot li attacca e il fratello maggiore si sacrifica per salvare il minore. A Cole non resta altro che ritornare, sconsolato, al Loop, ma nel farlo guada nuovamente il ruscello che all’andata aveva trovato congelato, il quale è ora scongelato. Al suo ritorno al centro, trova sua madre molto invecchiata. In una sequenza scopriamo, assieme a Cole, che sono passati molti anni dal momento in cui è partito alla ricerca del fratello; Danny ha confidato l’accaduto ai genitori di Jakob, che hanno ritrovato il “corpo” del figlio morto nella foresta; la nonna, a cui Cole era molto affezionato, se n’è andata, e così anche il padre. È sulla madre, ormai vecchia e sola, che ricade la responsabilità di dirigere il centro e di fornire una spiegazione dell’accaduto al figlio, mentre siede accanto a lui su una panchina pubblica:
Madre: “Il fiume nel bosco. L’hai attraversato quando era scongelato e sei stato via a lungo.”
Cole: “Non mi è sembrato tanto tempo…”
Madre: “Ma è così. Vorrei che tuo padre e tua nonna fossero ancora qui per vederti.”
Cole: “Non è giusto. Voglio che torni tutto com’era.”
La madre allunga la mano e prende quella del figlio, in silenzio. L’episodio si chiude con Cole, ormai adulto, che fa ritorno alla casa d’infanzia insieme alla compagna e al figlio adolescente. Quest’ultimo, osservando la casa, commenta che sembra passato molto tempo da quando suo padre era bambino. Cole, senza distogliere lo sguardo dalla casa, aggiunge: “Un battito di ciglia”. E così si conclude la prima stagione.
Ci troviamo chiaramente di fronte a uno di quei casi in cui, per dirla con le parole di Philip Dick, le trovate fantascientifiche servono solo a “trasferire in un ambiente esterno quello che di solito è un problema interiore”. Sarebbe pertanto fuori luogo lamentare l’assenza di spiegazioni riguardanti il funzionamento della “Echo Sphere” o i motivi degli slittamenti temporali provocati dal cambio di stato del fiume: grazie a essi vengono affrontati temi di interesse umano come lo scorrere del tempo e l’esperienza del lutto. A mio parere, quando i critici accusano gli autori della serie di lasciare troppe domande inevase, stanno in realtà criticando quella che definirei la gratuità inesorabile delle dolorose vicende rappresentate.
In (quasi) tutti gli episodi della serie, i personaggi si trovano impotenti di fronte alle forze che plasmano o distruggono le loro vite e si sottraggono al dominio della ragione o della giustizia. Sicuramente il rifiuto di Danny di ritornare nel suo corpo è riprovevole, ma è scarsamente qualificato come antagonista su cui scaricare la responsabilità del male. Il destino di sofferenza che grava sui personaggi appare già segnato e, nella maggior parte dei casi, accettato con olimpica consapevolezza e serenità: si pensi a Russ o allo stesso Jakob, che fa capire al fratello minore di non serbare alcun rancore nei confronti di Danny. A ben vedere, l’origine delle avversità che affliggono gli abitanti del Loop è il Loop stesso: il tentativo di rendere possibile l’impossibile, anziché portare beneficio, non fa altro che acuire le sofferenze. È il caso del congegno scambia-coscienze e delle alterazioni artificiali del flusso temporale, ma anche della “Echo Sphere” in grado di vaticinare la lunghezza della vita; per non parlare del penoso contrasto tra il potere del Loop di rendere possibile l’impossibile e l’incapacità di scongiurare la morte, desiderio che occupa mente e cuore degli esseri umani fin dall’alba dei tempi. In un certo senso, pare che il Loop non abbia altra ragion d’essere se non quella di ricordare come la sfera della razionalità, dell’ordine e dell’equità siano dolorosamente limitate e che nessun avanzamento scientifico o mezzo tecnico possa ampliarne l’estensione.
La necessità del fato, la nobiltà dei personaggi nell’accoglierla, la relazione tra la caduta dell’eroe e una sua debolezza morale (la “colpa”) e la consapevolezza dei limiti umani sono caratteristiche tipiche della tragedia. Il silenzio pieno di dolore della madre nella scena sulla panchina (ep. 8, “Home”) non potrebbe esemplificare meglio le parole con cui George Steiner descrive la concezione tragica della vita: “È inutile chiedere spiegazioni razionali, o pietà. Le cose stanno come stanno, inesorabili e assurde. La punizione è sempre più grave della colpa”. Tales from the Loop, quindi, non è una serie triste, ma una serie tragica, sebbene la sua tragicità non sia stata adeguatamente riconosciuta.
Se fosse stata correttamente identificata, probabilmente non sarebbero sorte critiche sull’assenza di spiegazioni e sul ritmo lento di molte scene, di cui trovo emblematico un esempio. Joel Golby, nel recensire la serie sul “Guardian”, si sofferma sulla scena in cui Russ e Cole vedono per la prima volta la “Echo Sphere” e accusa il regista di annoiare il pubblico con “20 secondi di inquadratura di loro due che camminano verso di essa, in silenzio”: “Don’t waste my time”.
Non credo che la questione si possa licenziare facendo unicamente appello alla scarsa raffinatezza del critico del “Guardian” o del suo lettore modello, oppure alla diminuzione – evidenziata da numerosi studi – della capacità di sviluppare un pensiero “profondo” a causa dell’abuso di internet e dei social. Ciò che sfugge a Golby è la ritualità della scena, e la ritualità è una questione di forma, non solo di storytelling (laggiù c’è qualcosa, ciò che importa è ora capire che cosa sia e che ruolo abbia nella storia). Il lento avvicinamento è profondamente significativo. È l’avvicinamento a un luogo a suo modo sacro, dove vengono fatte delle profezie; dove avviene l’incontro con l’opera del destino che – nonostante gli enormi progressi compiuti nel controllo della materia e nella scienza – l’essere umano non può comprendere né dominare. Ancora una volta, è la voce tragica a non venire compresa.
Che la modernità occidentale abbia assistito a un inesorabile tramonto della tragedia non è una tesi nuova, e proprio Steiner offre uno degli studi più completi sulle ragioni di questa perdita. Oltre ai problemi di ricezione del teatro shakespeariano e alla democratizzazione del pubblico, con il conseguente abbassamento del suo livello culturale, per Steiner un ruolo determinante è svolto dalla scomparsa di alcuni valori essenziali della sensibilità e della vita sociale, che avevano dominato dall’epoca di Eschilo fino a Racine, dunque fino al teatro tragico del Seicento. Con l’Illuminismo prima e il Romanticismo poi, si diffonde una visione più “ottimista”, che considera la condizione umana suscettibile di un radicale miglioramento grazie a trasformazioni nel sistema educativo e nelle condizioni sociali e materiali della vita. Tale concezione porta con sé una nuova visione del male, che “non può essere innato”. Se le cose stanno così, allora non solo la responsabilità dei crimini umani ricade sull’educazione o sull’ambiente, ma si dissolve anche la visione tragica del mondo, fondata appunto sulla gratuità inesorabile del male, ossia sull’idea che le intenzioni degli esseri umani si scontrino con forze misteriose e distruttive che, pur assumendo l’aspetto dell’ira divina, risiedono in realtà nelle pieghe più profonde della coscienza.
Complementare all’ottimismo è il concetto di redenzione, centrale in Cristianesimo, Romanticismo e Marxismo, le tre “mitologie” che, secondo Steiner, hanno forgiato la modernità. La redenzione è incompatibile con la visione tragica del mondo. Se qualunque male può essere sanato, nulla è davvero irreparabile: un riscatto e una ricompensa sono sempre possibili. Magari non in questo, ma in un altro mondo; oppure in un futuro imprecisato, a seguito di una rivoluzione che affranchi l’uomo dall’antica tara dell’egoismo. Vi è dunque spazio per la giustizia, ma non per il sentimento tragico, poiché – osserva Steiner – “la tragedia è irreparabile”.
L’analisi di Steiner ha sicuramente i suoi limiti ed è possibile integrarla con altri elementi. Per esempio, ha ragione Terry Eagleton a sostenere che La morte della tragedia emana in alcuni punti un malcelato conservatorismo: la nobiltà dei personaggi tragici e l’accettazione di un male gratuito e inesorabile non ci obbligano infatti a invocare alcuna incompatibilità della tragedia con politiche liberali e radicali; basti pensare alla “social catena” di Leopardi o alle “Note all’Antigone” di Hölderlin, secondo cui la presenza di personaggi come Antigone e Creonte, che hanno, ciascuno sul proprio terreno, insieme ragione e torto, testimonia la natura egualitaria e “propriamente repubblicana” della tragedia. Tuttavia, credo che Steiner abbia ragione nel ritenere di rilevanza capitale, per comprendere il tramonto della tragedia, la progressiva erosione di certi valori essenziali della sensibilità e della vita sociale, in particolare di quei valori che alimentavano il cosiddetto “senso del limite”.
Mi spiego. Steiner non è il primo a individuare nel Settecento una linea di frattura importante per la cultura Occidentale. Dall’Illuminismo in poi si è infatti affermata l’idea di un progresso illimitato, non interrotto da catastrofi ricorrenti, che permette all’uomo di trasformare ciò che prima riteneva immutabile. Questo processo ha contribuito, insieme ad altri cambiamenti dell’epoca moderna, a definire quello che oggi alcuni chiamiamo Antropocene. L’espansione dell’umanità – dalla conquista degli oceani e dei cieli, fino allo spazio – insieme alla globalizzazione, alla creazione di armi nucleari, alla diffusione dei mass media e della democrazia, ha nutrito l’illusione che il raggiungimento del completo dominio della ragione sopra ogni cosa sia solo una questione di tempo. Ecco come il senso del limite, così radicato nel pensiero greco da comparire tra le due iscrizioni del tempio di Delfi (dove accanto al celebre “Conosci te stesso” si leggeva anche “Nulla di troppo”), è stato quasi del tutto cancellato dalla cultura odierna.
Le recensioni di Tales from the Loop testimoniano che la mentalità moderna prova un certo disagio di fronte alle domande senza risposta: la risposta deve essere da qualche parte e, se non si trova, la si inventa. Come ricordato dall’articolo su “il Giornale”, in un periodo di incertezza, guai a chi amplifica le domande anziché fornire risposte!
Non voglio dire che l’arte e la scienza moderne non siano consapevoli del lato oscuro dell’essere umano, sarebbe assurdo pensarlo. Ma la modernità eccelle nella giustificazione del male, che è un modo di dominarlo, rendendolo comprensibile: anche verso il mostro di Düsseldorf non possiamo che provare compassione, malato di mente – vale a dire irresponsabile delle proprie azioni da un punto di vista medico – e, per di più, giudicato da un tribunale di ladri, assassini e prostitute. Il male è controllabile perché è sempre razionalmente spiegabile, fino alle camere a gas.
La tragedia si distingue proprio perché non cerca un’origine del male. Il male è immanente al mondo e al cuore umano. La tragedia – afferma Hölderlin – si riconosce per la “massima imparzialità”. Prendiamo come esempio l’Edipo re e il legame tra Laio ed Edipo: se Edipo finisce per uccidere suo padre e appare quindi condannabile per la sua violenza, Laio non è da meno. È infatti lui il primo a scagliarsi contro il figlio, tentando addirittura di ucciderlo per evitare che si avveri la profezia dell’Oracolo di Delfi. Così, tra padre e figlio, non si trovano differenze nette; vittime e carnefici si mescolano.
È proprio questa reciprocità violenta a costituire il cuore della tragedia. La crisi tragica raffigura un’umanità sconvolta dal dolore, un dolore che però la porta a comprendere l’esistenza di un orizzonte invisibile in cui tutti si trovano parimenti smarriti, anche se spesso non ne sono consapevoli e credono di avanzare con sicurezza. Gli eventi tragici, anche se rappresentano situazioni lontane dalla vita di tutti i giorni, spingono a distanziarsi per guardare le cose da una prospettiva diversa. Da questa nuova angolazione, le ragioni personali, solitamente così rilevanti, appaiono invece relative, e l’essere umano, di solito così certo di comprendere la realtà, si rivela governato da forze che, almeno in parte, sono fuori dal suo controllo.
La tragedia è quindi una lezione di umiltà: ricorda agli esseri umani la fragilità irreparabile della loro esistenza. Un messaggio banale, ma troppo spesso dimenticato, come nel caso della ricezione di Tales from the Loop, i cui personaggi subiscono tutta l’ironica assurdità della parabola umana: sono avvelenati dalle medicine che creano, tutte ugualmente mirate a “risolvere” la condizione umana e tutte immancabilmente destinate a fallire. Certo, la maggior parte dei personaggi non finisce murata viva in una grotta o incenerita nella caldera dell’Etna: muore sola, magari in un Hospice sotto cure palliative. Ma come sostiene Hölderlin in una lettera a Böhlendorff, “questo è il nostro tragico: in assoluto silenzio, chiusi in qualche ricettacolo, allontanarci dal regno dei viventi, anziché, divorati dalle fiamme, subire la fiamma che non abbiamo saputo domare”.