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Nessuno può uccidere Medusa

Marino Magliani intervista Giuseppe Conte

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

MM Giuseppe Conte, se da una parte abbiamo il ritorno, per il piacere dei tuoi lettori, al mito, si può dire che Nessuno può uccidere Medusa” ci conduca in territori piuttosto nuovi. Non so mica, infatti, se hai mai ambientato un romanzo, prima di questo, in Sicilia. Nella Sicilia almeno in parte anche tua, visto che tuo padre ha risieduto gran parte della sua vita in Liguria, ma dopo essere nato a Catania, ed esserci tornato ciclicamente, con voi, tua madre e te e tuo fratello. In effetti questo è un romanzo che avresti potuto ambientare in qualsiasi parte del mondo, ma l’hai ambientato in Sicilia, e di certo non solo per una questione di radici. A proposito di radici, tanti anni fa, ma davvero tanti, quando ti conobbi, ti chiesero se le tue radici erano in Liguria, e la tua risposta, conoscendoti già un po’, non mi sorprese: “le mie radici non le sento nella terra, nelle profondità fangose, ma le immagino piuttosto nel mare”.

GC Per me, propriamente, non si può parlare di un ritorno al mito. Io lavoro intorno al mito dagli anni Settanta del secolo scorso, quando mi ribellai, allora davvero solo in Italia, allo strapotere della cultura analitica, della semiologia, del formalismo, una cultura che avevo attraversato come allievo e poi assistente di Gillo Dorfles alla Statale di Milano, ma che all’improvviso mi sembrò portare in un vicolo cieco, nell’impossibilità di creare, nel nichilismo più totale, in una realtà senza più passioni, senza più carne, senza più il mistero del sacro. In giovinezza ho lavorato tantissimo sulla teoria della letteratura, e non   me ne vergogno. Ma le mie esigenze erano già allora esistenziali, necessarie per la mia vita, cioè miravano a una riscoperta di me stesso, a superare la mia fase di materialismo assoluto, per ritrovare il senso dell’anima come soffio vitale, dello spirito come luce ed energia. Per questo mio andare per la mia strada controcorrente (“controcorrente in acqua limpida”, come le trote di Camillo Sbarbaro) ebbi allora molti nemici. Gente che oggi mi viene a dire che avevo ragione, che il mito, la natura, il bisogno di ridare incanto e sacralità alla vita era la strada giusta, e si è visto dopo. Ma allora… Ho dovuto combattere tantissimo, e subire tantissimo. Danni, insulti, censure. Ma ho la pelle dura. Il mito nella poesia, il mito nei romanzi. Non ci credeva nessuno. Oggi esiste ed è perfino di moda il retelling mitologico… Io ho usato il mito come racconto per decenni. In Nessuno può uccidere Medusa è più organica la trasposizione del mito nella realtà contemporanea. Ogni personaggio è un archetipo del mito, e nello stesso tempo un personaggio vivente del nostro tempo. E veniamo alla Sicilia, tasto, caro Marino, per te dolente… Ricordo la tua smorfia di perplessità, quasi di rimprovero quando ti annunciai che avrei ambientato il libro in Sicilia. Vedi, io me ne sono fregato per decenni della Sicilia. Ma anche un po’ della mia cittadina natale, che oggi disconoscerei del tutto non fosse la città, amatissima, di mia madre. La mia geografia era tra Nizza, Milano, la Bretagna. Però con gli anni ho cominciato a sentire un richiamo nascosto, è il richiamo della terra dei padri, non delle radici, il richiamo del DNA, della continuità della vita che io, eternamente figlio e senza figli miei, ho spezzato. Il richiamo di mio nonno don Peppe, capomastro tipo il don Gesualdo verghiano, che viveva ancora come ai tempi dell’Iliade, in una Sicilia piena di bellezze e di orrori, di generosità sublimi e di efferata violenza. Ambientare il romanzo in Sicilia è stato necessario: inoltre quale terra più ricca di miti, quale terra più adatta a una storia di sangue e di vendetta? Per un altro verso, c’è anche un omaggio a Sciascia, al suo impegno razionalista, il ricordo di una sua telefonata un mattino di tanti anni fa in cui mi parlò del mio Equinozio d’autunno, il rimpianto di non essere subito corso a Palermo a trovarlo e salutarlo di persona. C’è il ricordo di D.H. Lawrence in Sicilia, continuo a considerarlo il mio più vero maestro, il massimo cantore della natura e dell’eros nella letteratura del Novecento (io ho canone diverso da quello ufficiale, come Henry Miller nel suo supremo Max e i fagociti bianchi). Dove ho le radici? In Liguria? Nell’estremo Ponente dove sono nato? Vedi, io non ho mai avuto il culto della liguritudine. Adoro Sbarbaro e il    Montale degli Ossi, ho avuto la fortuna di frequentare Calvino e di avere il suo appoggio, ho letto festosamente il libro del mio amico Mario Soldati intitolato Regione regina. Alla fine amo la Liguria, ma non mi fermo lì. Sono stato un grand voyageur (copyright Le Monde, mio massimo successo mondano). Ho concepito sempre la vita come viaggio. Non ritorno ulisside. Viaggio senza meta che il viaggio stesso, che la pienezza della vita. Chi scava troppo nella terra, cosa trova? Faccio sempre l’esempio dell’albero. Le radici nel profondo della terra, le fronde nella luce del cielo. Se ti ho detto una volta, nel corso della nostra lunghissima amicizia, di avere radici in mare, mah, forse in quel momento mi pensavo un delfino, a compiere quei bei salti sulle onde e la schiuma della vita.

MM E ora veniamo a Med di “Nessuno può uccidere Medusa”, a parte la questione geografica, come nasce un romanzo così duro? C’è sempre qualche vendetta nelle tue pagine, la sperimenta Giannetta ne “I senza cuore”, ed è presente in qualche modo anche in “Il male veniva dal mare”, ma qui la potenza e il destino che conducono alla vendetta Med diventano i binari del libro, sembrano persino alimentarne ogni respiro. A tratti è come se nascosto, ma indelebile, il senso di colpa scatenato da una tragedia capitata ai genitori, possa trovare la sua pace solo nelle sete di vendetta di Med.

GC Giusti i riferimenti ai romanzi precedenti che fai. C’è un filo rosso che lega tutti i romanzi, e persino la poesia, nell’insieme della mia opera. La vendetta di Med è la risposta alla violenza subita e al suo essere diventata vittima senza volerlo essere. Ecco, direi che Med si ribella innanzi tutto alla resa, al vittimismo, al piagnisteo. Med diventa di pietra. Nel mito, Medusa diventa un mostro che pietrifica chiunque la guardi. Nel romanzo, Med diventa un mostro, sfigurata nella sua bellezza, nella sua innocenza, nei suoi capelli, e pietrifica innanzi tutto sé stessa. Non ha più altro sentimento che quello della vendetta. Vive quasi in simbiosi con il male, perché adatta la sua vita a quella di chi l’ha violentata, vive solo per il desiderio ossessivo di punirlo, rovinarlo, fargli pagare un prezzo altissimo. Certo Med è toccata dalla sventura (la morte dei genitori che può sembrare causata da lei, il disamore delle sorelle, la loro freddezza, e infine la brutale aggressione di Vittorio Ventura, uno di quei bastardi che, per dirlo col titolo di un romanzo della saga di Millenium, sono “uomini che odiano le donne”). Ha anche chi la ama. Esmeralda, teneramente, il giovane immigrato Abdelnur, e padre Homer Grant S I, che le prospetta l’ipotesi del perdono. La vendetta è un istinto naturale. Per questo ne parla così spesso il mito. E ricorre nei miei romanzi “mitici”. Il perdono richiede di salire a un livello superiore di coscienza. Non è naturale, è una conquista dell’anima. Homer Grant è un sacerdote. Parlare a Med di perdono è suo dovere. Ma Homer Grant è un conoscitore, da gesuita, da grecista, dell’anima umana. E così aiuta Med, la capisce, non la giudica, la aiuta. Le vuole bene nel modo migliore in cui si può voler bene.

 

MM La centralità nel romanzo spetta a Med, sebbene ogni altro personaggio, da quelli importanti come le sorelle, a Grant, per non parlare di Esmeralda e del professore di greco, e sacerdote, Homer Grant, e persino i mezzadri della masseria di proprietà della famiglia di Med, siano ben scolpiti, come lo fossero dalla luce siciliana. Dalla natura. Persino dai silenzi.

GC Di democrazia romanzesca parlava se ricordo bene Nabokov (che per altro non è tra i miei amori letterari). Ma questa idea la trovo giusta. I personaggi hanno tutti una loro dignità che va rispettata. I personaggi centrali vengono indagati, scavati, si ripercorrono tappe della loro esistenza, come con Vittorio Ventura, di cui faccio intravedere per flash infanzia e adolescenza, come per Esmeralda, e naturalmente per Med. Altri personaggi appaiono sulla scena per come sono in quel momento, ma hanno un loro linguaggio specifico, loro caratteristiche linguistiche e morali. Prendi quell’egoista smidollato del Principe Laerte Lancia di Paternò e San Sebastiano, padre di Esmeralda. È un personaggio che dà nel comico, e nel suo linguaggio mescola siciliano e francese, e a volta anche si traduce, dal francese al siciliano, ironicamente, snobisticamente in favore della povera madre illetterata di Vittorio Ventura. Calì e i suoi uomini, tra cui spicca per comica ignavia Pippo Triglia, parlano spesso in siciliano. Ho usato un siciliano non filologico, basato su letture, glossari, impressioni, ricordi. In casa mia nessuno parlava in dialetto, mio padre aveva perso persino l’accento siciliano, così difficile da perdere. Ma ogni tanto affiorava qualche proverbio, qualche detto… I parenti liguri parlavano in dialetto tra loro, mai con me e mio fratello Silvio. Per cui se io parlo oggi in dialetto ligure, e mi piace farlo, spesso brevemente anche con te, si sente che è di testa, imparaticcio, anche se sicuramente amato (il dialetto di Porto Maurizio è la lingua madre di mia madre!). Due personaggi cosiddetti minori sono Abdelnur Nassry e Homer Grant. Il primo si islamizza in seguito alla difficoltà e alle ingiustizie subite. Ma di fronte all’orrore sanguinario del terrorismo si tira indietro. Homer Grant è il porto sicuro di Med. In lui lei trova comprensione, affetto, cultura, sicurezza, aiuto. Mi sono reso conto a libro uscito che, in una storia di passioni violente e crude, i due personaggi che incarnano in pieno la positività del vivere sono due uomini che hanno, sia pure uno islamico e l’altro cattolico, una religiosità profonda, una visione sacrale dell’umanità. Non era progettato. Ma vorrà dire qualcosa, io credo.

 

NdR: Il romanzo di Giuseppe Conte “Nessuno può uccidere Medusa” è stato pubblicato recentemente da Bompiani

 

 

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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