OBIT. Poesie per la fine

di Victoria Chang, nella traduzione di Adele Bardazzi

Il lobo frontale di mio padre: morto senza pace per un ictus il 24 giugno 2009 presso lo Scripps Memorial Hospital a San Diego, California. Nato il 20 gennaio 1940, il lobo frontale si era goduto la vita. Amava essere il capo. Provò a parlare nuovamente ma qualcuno lo aveva messo dentro a un sacchetto. Quando il lobo frontale morì, si risucchiò le labbra come una finestra serrata. Al funerale delle sue parole, mio padre non smise di parlare e il suo amore mi trapassò, cadde a terra, una terra che non c’era. Potevo sentire qualcuno sbattere i piedi. Il corpo è qualcosa di disorientante tanto quanto il linguaggio; il lobo frontale stava facendo un capriccio o stava ballando? Quando presi il telefono di mio padre, le sue parole morirono in quella bara di plastica. Al funerale per le sue parole, discutemmo del mio aborto. Non è davvero un bambino, disse. Finii le parole, mi allontanai per risvegliare il bambino senza vita. Pensai al tecnico che aveva abbandonato la bacchetta e era uscito silenziosamente dalla stanza nel momento in cui non fu in grado di trovare il battito del cuore. Capii allora che l’oscurità è cadere senza fine. Quell’oscurità non è assorbimento di colore ma assorbimento di linguaggio.

 

My Father’s Frontal Lobe—died unpeacefully of a stroke on June 24, 2009 at Scripps Memorial Hospital in San Diego, California. Born January 20, 1940, the frontal lobe enjoyed a good life. The frontal lobe loved being the boss. It tried to talk again but someone put a bag over it. When the frontal lobe died, it sucked in its lips like a window pulled shut. At the funeral for his words, my father wouldn’t stop talking and his love passed through me, fell onto the ground that wasn’t there. I could hear someone stomping their feet. The body is as confusing as language—was the frontal lobe having a tantrum or dancing? When I took my father’s phone away, his words died in the plastic coffin. At the funeral for his words, we argued about my miscarriage. It’s not really a baby, he said. I ran out of words, stomped out to shake the dead baby awake. I thought of the tech who put the wand down, quietly left the room when she couldn’t find the heartbeat. I understood then that darkness is falling without an end. That darkness is not the absorption of color but the absorption of language.

 

*

 

Victoria Chang—died unwillingly on April 21, 2017 on a cool day in Seal Beach, California, on her way back from the facility named Sunrise, which she often mistakenly called Sunset. Her father’s problems now her problems, nailed to her frontal lobe. Like a typist, she tried to translate his problems, carry the words back in a pony carriage one by one. When the pony moved, the letters strung together to form sentences. But when the pony refused to move, the carriage disappeared. The letters tagged her and ran into the cornfields. The police came and shined their lights onto the field, started shooting the letters even though they had their hands up. Sometimes, they shot the letters twice, just to make sure. Sometimes, they shot them in the back. When we shoot a letter once, it’s called typing. Twice, engraving. When someone dies, letters are always engraved. When someone dies, there is a constant feeling of wanting to speak to someone, but the plane with all the words is crossing the sky.

 

Victoria Chang: morta a malincuore il 21 aprile 2017 durante una bella giornata a Seal Beach, California, sulla via di ritorno dallo stabilimento chiamato Sunrise, che spesso sbagliando chiamava Sunset. I problemi di suo padre, ora i suoi problemi, si inchiodarono al lobo frontale. Come una dattilografa, provava a tradurre i problemi del padre riportando indietro le parole una a una in una carrozza trainata da un pony. Quando il pony si muoveva, le lettere strette insieme formavano frasi. Ma quando il pony rifiutò di muoversi, la carrozza svanì. Le lettere la inseguirono e corsero verso il campo di grano. Arrivò la polizia che proiettò le proprie luci sul campo, iniziò a sparare alle lettere anche se tenevano le mani alzate. Ogni tanto, sparavano due volte, giusto per essere sicuri. Altre volte, sparavano alla schiena. Quando spariamo una sola volta a una lettera, è battere a macchina. Due volte, incidere. Quando qualcuno muore, le lettere sono sempre incise. Quando qualcuno muore, c’è un sentimento costante di voler parlare a qualcuno, ma l’aereo con tutte le parole sta attraversando il cielo.

 

*

 

Linguaggio: morto, geniale e bello l’1 agosto 2009 alle 14:46. Amando alzare la mano, visse una vita piena di domande. La sua attività preferita era rigirare ciò che gli altri dicevano. La sua attività preferita era scrivere il mondo in bianco e nero, per poi osservare le persone mentre cercavano di leggere le parole a colori. Le lettere scorrevano il cervello di mio padre prima di lasciarsi andare. Adesso, le sue parole sono cieche. Sono avvolte. Sono il mittente, i messi, e il destinatario. Quando mia madre stava morendo, feci mettere tutti attorno al suo letto per scattare quella che sarebbe stata l’ultima foto di gruppo. Alcuni di noi sorrisero pure. Perché morire dura per sempre fino a quando non si esaurisce. Qualcuno disse, Scattane un po’. Qualcuno disse, Dite cheese. Qualcun altro disse, Grazie. Il linguaggio ci tradisce. Nel modo in cui rompersi un braccio significa anche che un osso del braccio può rompersi ma il braccio stesso non può a meno che non sia ricucito o tagliato. Mia madre non poteva parlare ma i suoi occhi erano gli unici a vedere.

 

Language—died, brilliant and beautiful on August 1, 2009 at 2:46 p.m. Lover of raising his hand, language lived a full life of questioning. His favorite was twisting what others said. His favorite was to write the world in black and white and then watch people try and read the words in color. Letters used to skim my father’s brain before they let go. Now his words are blind. Are pleated. Are the dispatcher, the dispatches, and the receiver. When my mother was dying, I made everyone stand around the bed for what would be the last group photo. Some of us even smiled. Because dying lasts forever until it stops. Someone said, Take a few. Someone said, Say cheese. Someone said, Thank you. Language fails us. In the way that breaking an arm means an arm’s bone can break but the arm itself can’t break off unless sawed or cut. My mother couldn’t speak but her eyes were the only ones that were wide open.

 

*

 

Form—died on August 3, 2015. After my mother died, the weather got hotter so gradually we all became blind. Another bird fell out of the ficus, left its eggs. The arm that turned the earth never bothered to stop for the bird and the bird was crushed between the earth and time. After my mother died, my love for her lost all shape. Everything I had disliked about her became fibrous. I let them harden and suffocate. I posted about her last days on an online pulmonary fibrosis board, typing to strangers into the night, the edges of our fingertips touching. That story is still there but I can no longer find it or the people who might be dead. Each letter a small soldier in formation for a new dying person to read, to see how the living might perceive them when they are unconscious. Grief isn’t what spills out of a cracked egg. Grief is the row of eggs waiting in the cold to lose their shape.

 

Forma: morta il 3 agosto 2015. Dopo la morte di mia madre, il tempo si è fatto più caldo e gradualmente siamo diventati tutti ciechi. Un altro uccello cadde dal ficus, mentre deponeva le sue uova. Il braccio che girava la terra non si è mai preoccupato di fermarsi per l’uccello, che è rimasto schiacciato tra la terra e il tempo. Dopo la morte di mia madre, il mio amore per lei ha perso ogni forma. Tutto ciò che non mi piaceva di lei è diventato fibroso. Ho lasciato che i sentimenti si indurissero e soffocassero. Scrissi dei suoi ultimi giorni su un forum online sulla fibrosi polmonare, scrivendo a sconosciuti fino a notte fonda, con i bordi delle nostre dita che si toccavano. Quella storia è ancora lì, ma non riesco più a trovarla né a trovare le persone che potrebbero essere morte. Ogni lettera è un piccolo soldato in formazione da proporre a un nuovo morente, per vedere come i vivi potrebbero percepirli quando non sono coscienti. Il dolore non è ciò che fuoriesce da un uovo rotto. Il dolore è la fila di uova che aspettano al freddo fino a perdere la loro forma.

 

*

 

Similes—died on August 3, 2015. There was nothing like death, just death. Nothing like grief, just grief. How the shadow of a chain- link fence can look like a fish’s scales but never be. Once my mother called late at night because she was constipated. The streetlamps still looked like things with their long arched arms. I sat on her bed in the dark. The glow from the bathroom light still like everything. I filled and emptied the plastic sitz bath that looked like something. Her two elbows still able to make small bowls on her knees. I gave her instructions and said nothing more. If only words could represent thought in the way a microphone represents words.

 

Similitudini: morte il 3 agosto 2015. Non c’era niente come la morte, solo la morte. Niente come il dolore, solo dolore. Come l’ombra di una rete metallica può assomigliare alle squame di un pesce ma in realtà non esserlo. Una volta mia madre chiamò a notte fonda perché era stitica. I lampioni sembravano ancora delle cose con le loro lunghe braccia arcuate. Mi sono seduta sul suo letto al buio. Il bagliore della luce del bagno sembrava ancora tutto. Riempivo e svuotavo la vasca di plastica che sembrava qualcosa. I suoi due gomiti erano ancora in grado di creare piccole ciotole sulle sue ginocchia. Le diedi istruzioni e non dissi altro. Se solo le parole potessero rappresentare il pensiero come un microfono rappresenta le parole.

 

**

 

“OBIT: è ancora possibile l’elegia?” (1)

di Adele Bardazzi

[…] Dunque, cosa è OBIT, o meglio, cosa sarà OBIT in Italia? Sono due domande che non credo troveranno una risposta univoca proprio per il fatto che ciò che la critica italiana ha voluto definire come ‘lirica’ non corrisponde necessariamente agli sviluppi di questo concetto fuori dai confini di questo paese. Questo è uno dei motivi per cui credo OBIT sia importante nel suo viaggio verso la nostra lingua: una possibilità che rimarrà sospesa e, insieme a lei, la possibilità di riconsiderare il genere della poesia lirica, e quindi anche quello dell’elegia.

Cosa significa, dunque, portare questi obit-necrologi di Chang, compatti, rettangolari, regolari e regolati dalla forma stessa del foglio, in italiano e in Italia? Oltre alla meccanica della traduzione, il trasporto lento da A a B, sempre e necessariamente irraggiunto eppure completo, e perfettamente irrisolto nel lavoro della traduzione, ci offre diverse possibilità, tra le quali una fondamentale: quella di tradire OBIT proprio attraverso questa nuova lingua, l’italiano, in cui lo destiniamo. Con questo, intendo anche la possibilità di tradirlo leggendolo insieme ai suoi contemporanei non negli Stati Uniti, ma qui in Italia, e facendoci così dialogare, scoprire, o rileggere la nostra stessa poesia. Un esercizio certamente possibile anche senza la traduzione, ma che avviene in modo più immediato con essa. È questa una delle forze sconcertanti di questo libro nel momento in cui viene trasportato in Italia. Facciamo un esempio. L’attenzione, sempre figurativa e quindi anche sempre letterale, sul cibo che, nell’obit-necrologio dedicato al linguaggio ci porta a un ristorante all-you-can-eat, non si tratta forse dello stesso all-you-can-eat del potentissimo viaggio alimentare che percorre lo scheletro poetico tenuto tenacemente in vita da Lidia Riviello in All you can eat (Nino Aragno editore, 2021)? Il lavoro del lutto ci porta a essere “empty and so full” – “svuotati eppure così pieni” – come leggiamo nell’ultimo verso della tanka “Do you smell my cries?” (“Sentite l’odore delle lacrime”); oppure, ‘contenuto ma non forma’ (“Lacrime”) che per contrasto ricorda come Mosca fosse, anche dopo la morte, : ‘non […] più forma, ma essenza’ (Xenia I.14, v. 4). Forma che la poesia è in grado di rendere, tuttavia attraverso la forma del genere dell’elegia, seppur decostruita, riformulata, deformata. Per rimanere con Montale, colpisce come anche in Chang troviamo la stessa domanda che Montale si pone negli Xenia, più precisamente ne “Il grillo di Strasburgo notturno col suo trapano…” (5):

I wonder whether her last thought was in Chinese. I wonder what her last thought was.
(“My Mother’s Teeth”)

Mi chiedo se il suo ultimo pensiero fosse in cinese. Mi chiedo cosa fosse il suo ultimo pensiero.
(“I denti di mia madre”)

Dove siamo mentre leggiamo OBIT, dunque? In Italia? Potremmo leggere questo libro non solo in italiano, ma facendolo accadere in Italia. I riferimenti a Montale o Riviello non vogliono essere filologici, ma piuttosto rivelare come la lettura di OBIT possa accadere insieme alle nostre altre letture. Vuole anche mostrare la forzatura di tale lettura in Italia, in un dialogo distante ed immaginato con Montale, in questo caso. Un atto violento, la violenza implicita in qualsiasi atto di lettura e di critica. La stessa violenza con cui Chang muove le figure che animano la sua raccolta, o la stessa violenza sempre implicita nell’atto di mettersi in ascolto quando si compie il miracolo della traduzione.

In alternativa, niente ci vieta una lettura più filologica all’interno dei confini geografici originari di OBIT e dunque all’interno dei suoi confini culturali, che in questo caso sono quelli di un nucleo familiare immerso nell’America morta il 14 febbraio del 2018 (come leggiamo nel testo conclusivo della raccolta) ma la cui lingua madre rimane il cinese, lo stesso cinese che, nella poesia-obit “Segreti”, dirompe in fasce rosse con caratteri cinesi durante il funerale della madre: rimane illeggibile, straniero all’io. Si tratta di un io “onnipresente”, e proprio per questo, intoccabile dalla morte non solo di tutto quello che lo circonda (le amicizie, il ricordo, la ragione, l’appetito), ma di se stesso: Victoria Chang è al centro di diversi dei suoi obit-necrologi mentre affronta morti diverse.

Se c’è qualcosa che dirompe oltre qualsiasi confine geografico-simbolico e che la traduzione è in grado di evidenziare è la potenzialità transnazionale dei testi, non tanto il discorso attorno al lutto, ma il lutto che perdura, il lutto anticipato, il lutto prima della morte che la malattia innesca. Questo riguarda il lobo frontale della figura del padre con cui il libro apre: balzeranno fuori, cammineranno ossessivamente avanti e indietro nelle sue passeggiate programmate alle 10 del mattino parole (come leggiamo in “Ragione”) che sono, ancora una volta, segni: il piano letterale e simbolico si continuano a incrociare nel piano di iper-realtà che un ictus porta nel linguaggio. Un linguaggio di nonsense che risuona nella poetica di Chang ma allo stesso tempo rimane tragedia letterale, individuale. Individuali sono i dolori che attraversano questo libro e, allo stesso tempo, condivisibili attraverso una lingua che fuoriesce dall’inglese come anche dall’italiano, dai confini del linguaggio: si tratta della lingua della poesia, del piano altro dove rimane necessario avvicinarsi e al tempo stesso da cui è fondamentale tenerci a distanza: quel bordo ultimo del senso, della ragione, della mente che può abbandonarci come quella del padre colpito da un ictus. Ma la parola rimane anche dove non c’è più linguaggio. Farsi scheletro e proseguire nonostante la mancanza assoluta è una lezione di poetica, una lezione a cui Chang sopravvive e porta avanti lentamente e sapientemente, lasciandoci sconcertati e spaesati, come dei bambini davanti alla morte che portano un palloncino con scritto “Get Well Soon” (“Guarisci presto”) alla visita al cimitero (“Privacy”): come i due figli a cui l’io, attraverso le brevi tankas, diventano gli ultimi interlocutori, il vero centro della direzione che il libro vuole tracciare.

 

Note:

(1) Questa prefazione riprende e rielabora un saggio precedentemente pubblicato in inglese su il Journal of Comparative Literature dove si propone una lettura incrociata di OBIT con Geologia di un padre di Valerio Magrelli: Adele Bardazzi, ‘“Maybe Nothing is an Elegy”: On the Impossibility of Elegy and Transnational Criticism in Victoria Chang and Valerio Magrelli’, Journal of World Literature 8:1 (2023), pp. 26–46, https://brill.com/view/journals/jwl/8/1/jwl.8.issue-1. xml.

[…]

(5) In un’intervista del 1968, pubblicata solo nel 1990, Montale rivela le origini di questa poesia: “Il suo [della poesia] punto di partenza è questo: mi sono chiesto spesso che cosa dirò in punto di morte. Goethe disse: Luce, luce. Io che cosa dirò? Che cosa pensa la gente quando muore? Forse pensa a cose insignificanti, bazzecole, bagatelle, argomenti di nessun interesse che, dimenticati nella memoria, in quel momento vengono in mente. Che cosa ha pensato, morendo, mia moglie? Forse si è ricordata di un mese che passammo a Strasburgo. Io facevo un servizio giornalistico sul Consiglio d’Europa. Era il 1949 [in realtà il 1950, NdR]. Stavamo all’hôtel Maison Rouge. La sera telefonavo il pezzo al giornale, e poi tornavo in albergo e trovavo mia moglie che stava parlando con il barman, il quale le dava qualche piccola lezione di lingua basca. Andavamo poi a pranzo e c’era con noi Ruggero Orlando, ma c’era anche un signore […] il quale parlava sempre dei suoi dispiaceri coniugali. Pare che avesse sposato una turca, che fosse stato più volte tradito, e parlandone arrossiva. Quel signore si aggregava sempre a noi, e quando arrivava il conto si distraeva in modo da non pagare. Ecco, forse alla mia povera moglie sono tornate in mente cose di questo genere. In realtà lei disse una cosa che nella poesia si legge all’ultimo verso. Una cosa molto gentile, molto cara. Si vede che lei sapeva di andarsene, e pensava che questo fatto mi avrebbe sconvolto. Ora credo che la poesia possa essere letta senza ulteriori spiegazioni.” Eugenio Montale, ‘A vent’anni sapevo soltanto ciò che non volevo’, in Il secondo mestiere. Arte, musica, società, ed. Giorgio Zampa (Milan: Mondadori, 1996), pp. 1679–1685 (1679–1680).

 

***

 

Testi scelti e un estratto dal saggio introduttivo da Victoria Chang, Obit. Poesie per la fine (Internopoesia, 2024), traduzione e cura di Adele Bardazzi.

 

 

 

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Renata Morresi scrive poesia e saggistica, e traduce. In poesia ha pubblicato le raccolte Terzo paesaggio (Aragno, 2019), Bagnanti (Perrone 2013), La signora W. (Camera verde 2013), Cuore comune (peQuod 2010); altri testi sono apparsi su antologie e riviste, anche in traduzione inglese, francese e spagnola. Nel 2014 ha vinto il premio Marazza per la prima traduzione italiana di Rachel Blau DuPlessis (Dieci bozze, Vydia 2012) e nel 2015 il premio del Ministero dei Beni Culturali per la traduzione di poeti americani moderni e post-moderni. Cura la collana di poesia “Lacustrine” per Arcipelago Itaca Edizioni. E' ricercatrice di letteratura anglo-americana all'università di Padova.
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