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Una storia emiliano-romagnola

 

ph. Luigi Ghirri

 

di Valeria Merante

C’è un grosso rudere abbandonato in mezzo alla pianura sconfinata lungo la via Emilia, più o meno all’altezza di Varignana. Sopra il campo arato spuntano le colline, fitte e rotonde in lontananza. Pure questa terra si solleva, si alza dolcemente a mezz’aria per un tratto, lasciandoti credere che oltre non si possa andare e invece anticipa vette più alte – Cimone, Falterona, Fumaiolo, Corno alle Scale –, terre estreme di confine dove le uniche abitazioni si chiamano rifugi, le cui aspre arenarie e le forti pendenze sono solo per romantici e temerari. Pure qui si alzano gli occhi al cielo; lo si fa dal basso, dal fondo della pianura sconfinata, dal finestrino di un’auto, di un treno o di una corriera. Tu tagli la terra in due lungo una strada dritta e da un lato tutto si abbassa e da un lato tutto si alza.
Sono uscita dai confini della città scoprendo un mondo di selvaggi bordi stradali, di ingressi monumentali con i cancelli inghiottiti da rovi e infestanti, piante che anticipano i campi che anticipano le colline che anticipano le foreste. Si sente l’odore della montagna già dalla Bassa. Il verde oscilla e brilla alla luce del sole nelle ore più calde e nelle giornate terse; la nebbia a volte nasconde tutto, come se il verde, gli alberi, i prati, gli arbusti fossero un’illusione e noi sciocchi avessimo abboccato. Qui la natura gioca a nascondersi per metterci alla prova, così noi nella nebbia e nella pioggia spesso ce ne dimentichiamo e ci chiudiamo in casa pensando che una finestra e la luce di un abat-jour possano salvarci, e che il rumore della pioggia sia solo rumore e nient’altro. Non è così.
Io che vengo dal mare sento l’odore della montagna da quando sono uscita dai confini dell’area metropolitana.
Castel San Pietro Terme per esempio è verde, più verde di certi quartieri bolognesi, e io sento l’odore di corteccia e foglie. Qui gli alberi convivono con le case e il parco è selvaggio; c’è un fico che cresce indisciplinato e canneti lungo il bordo del laghetto; platani, pietre, insetti e un’estesa comunità di oche. C’è una sorgente di acqua naturale e una di acqua termale. È qui che vengo da qualche giorno a questa parte, su prescrizione del medico, in metodico pellegrinaggio, tutti i giorni Bologna-Faenza, Faenza-Castello, Castello-Bologna lungo le vie più disparate e con mezzi diversi: auto, treno, corriera. Con l’auto i percorsi variano per non annoiarsi, complice un Google Maps che sembra leggermi nel pensiero e mi propone ogni volta un’opziona diversa: dritta lungo l’autostrada, dritta lungo la via Emilia, qualche sosta, diverse deviazioni, persino strade che si gettano nel ventre della pianura e sbucano dentro verdi gallerie o sottopassi a rischio allagamento, giù per gli Stradelli.
Vengo in pellegrinaggio per curare le vie respiratorie, pulire e idratare i condotti nasali, porte del respiro, intasati da stress e smog. Faccio la doccia al naso, prima una narice poi l’altra, con le irrigazioni salsoiodiche, poi l’aerosol; fisso un punto del lavabo igienizzato al quale sono collegati molti tubi e rubinetti mentre tengo appoggiato appena dentro le narici il nasetto biforcuto dal quale esce un caldo vapore sulfureo. Inspiro col naso ed espiro dalla bocca. Siamo io e molti anziani, diversi bambini, pochi coetanei. Tra una cura e l’altra ci sono dieci minuti di pausa. Ho il mio posto preferito, un set di sedute cilindriche che spingo verso il muro per sedermi appoggiando testa e schiena. Tutti guardiamo il cellulare o leggiamo, badando a non abbassare la testa per evitare che il naso goccioli. Si ha la sensazione di avere tutti lo stesso scopo: la salvaguardia della propria salute. È rassicurante.
La parte peggiore sono i lavaggi nasali. Mi affaccio all’ingresso dell’area cure e mi accoglie l’operatrice. Prende il bigliettino, controlla il numero di ingressi rimasti e le cure prescritte dal medico. Ti guarda in faccia a malapena, non la biasimo, poi alza il braccio come per indicare e dice: «I lavaggi di là, seconda corsia, numero 41». Nel lavabo c’è sempre una pallina colorata; ho immaginato per i bambini, ma dev’esserci di più: credo sia il segno che il lavabo è stato igienizzato e può essere destinato al cliente successivo.
L’operatrice mi mette un bavaglio, sfila un tubo da un gancio e io c’infilo la mia “olivetta” sterile. Aspetta che la inserisca nella narice e fa partire il meccanismo. Prima narice: cinque minuti. Seconda narice: cinque minuti. Tutti noi pellegrini devoti alle vie respiratorie ci allunghiamo sul lavabo per evitare di gocciolare, il getto d’acqua entra in una narice ed esce dall’altra, a volte scende in gola e devi sputare; altre, la pressione del getto è alta, allora l’acqua straborda dalla narice, rompe gli argini e va dappertutto e per fortuna che noi tutti pellegrini devoti ai nasi siamo piegati in avanti. Anche le acque del Marzeno strabordano e si gonfiano portando fango e detriti nel Lamone, il fango e i detriti esondano per le campagne, imputridendo i campi e i frutteti. A Faenza ci insegno; mentre l’acqua termale mi entra in gola portando detriti e la pioggia precipita nel parco delle Terme, io immagino i miei studenti e le loro famiglie portare la roba al piano di sopra, cibo, vestiti, oggetti su dagli inquilini che aprono le porte. L’alveo di un fiume è un luogo pericoloso. La confluenza di due corsi d’acqua un incontro perverso. «È colpa del Marzeno se siamo alluvionati» ha detto una mia alunna in classe lasciando l’aula al suono della campanella. Sono andata a cercare dove nasce il torrente. Nasce a Modigliana, dall’incontro di due rami, Tramazzo e della Valle, figli di due monti, rispettivamente Collina e Bruno, di circa mille metri, nel comune di Marradi, in Toscana.
Figli di due monti, ripeto a mente. Il Marzeno è il figlio di una serie di incontri sfortunati ma spontanei. Puoi chiedere a un corso d’acqua di non sorgere? Non è che un torrente che porta il peso intrinseco di un’alluvione, eppure non ha chiesto di nascere, lo ha deciso la natura. Vogliamo forse dirle che non si fa? I torrenti nascono e basta, così come sorge l’acqua termale che m’inonda la faringe e io, pellegrina diligente, ringrazio.
Le Terme sono un presidio di tutela dei nasi, delle faringi, degli alberi, delle fonti.
Qual è la fonte della tua tristezza, chiedo al mio amico pellegrino Matteo, cha ha gli occhi piccoli e scuri come buche. La morte di mia madre, risponde. E, prima ancora della sua morte, la sua tristezza, continua. La tristezza di una madre ci costa tutta la vita.
Matteo è magrissimo, dice che la vita è difficile se nei primi anni di vita non sei stato amato. Dice che puoi avere tutto ma sentirti vuoto e che quel vuoto non va mai via, che si è sempre affamati e assetati.
– Perché tua madre era triste?
– Perché era sola e doveva badare a noi, mentre mio padre era via per lavoro.
Elementare, penso.
Io e Matteo ogni tanto passeggiamo lungo il viale o nel parchetto selvaggio con le anatre e le oche. Mi racconta sempre le stesse cose, come se gli incontri precedenti non fossero mai avvenuti. Dice che il corso del Sillaro è stato alterato per costruire il Villaggio della Salute, un posto fichissimo e diabolico nel cuore dei calanchi. Quando dico che faccio le Terme i miei colleghi mi immaginano in costume da bagno in una vasca di acqua calda a rilassarmi, con le colline sullo sfondo, invece sto tutta storta piegata in avanti sul lavabo autopulente.
Parlo a Matteo dei castagni del Poranceto, alberi maestosi e cavi dentro i quali abitare. A Bologna un affitto è più caro di un mutuo ed è una notizia indegna. Tutti pensano al capitale investito come la ricchezza migliore. Matteo ha un camper e vuole vendere la sua casa immensa, non vede l’ora. Se l’affitto fosse accessibile continuerei a pagarlo a vita e mi comprerei un camper per andare al Poranceto nei fine settimana oppure alla biblioteca sul crinale a Monteacuto, per scrivere. Non posso comprare una casa e il camper, ma posso chiedere a Matteo di venire con me nel castagneto. Riempiremmo il vuoto delle cavità dei tronchi e i tronchi cavi ci abbraccerebbero riempiendo il vuoto d’amore in noi.
Mi chiedo se affannarsi a costruire abbia un senso. Per costruire devi prima distruggere. Sventrare un appartamento, sventrare una via. Sono tornata a Bologna dopo la pausa estiva e ho trovato le viscere di via dell’Indipendenza a cielo aperto, senza pudore, e pure via Riva di Reno, con le sue acque sotterranee disseppellite con diligente accanimento: detto, fatto. Mi sono chiesta perché, ma non ho mai avuto l’inclinazione alla politica, così mi limito a leggere qualche post pensando di non essere all’altezza di una rivolta. C’è qualcuno che lo è? Mi unirei per ascoltare in silenzio, se posso. Una volta si rischiava la vita per i diritti, si imbracciavano fucili e si pedalava con esplosivi addosso e portando messaggi segreti, ora i diritti ce li facciamo soffiare da sotto il naso con la promessa di un futuro roseo. La nuova Bologna come l’America. Bologna è in crescita, dicono le infografiche sul profilo Facebook del Comune. Costruiremo un nuovo studentato futuristico e fluorescente sull’unico lotto rimasto libero che c’è. Abbiamo sete di soldi, gli stessi che arriveranno dai localini agghindati sull’incombente naviglio bolognese. Pagheremo tutti caro il nostro finto benessere. Berremo una birretta dopo l’altra e fumeremo paglie con le gambe accavallate pensando di avere raggiunto il Nirvana. Parleremo sul bordo del canale esposto al pubblico ludibrio e disturberemo la quiete pubblica, per sfregio. Però faremo yoga e meditazione, diremo che siamo illuminati. Non ci saranno case, solo per i turisti, e noi saremo sputati ai margini della città.
Le case sono trappole o ancore di salvezza. Ci diciamo questo con Matteo pensando alla sua casa-zavorra o alla casa che in futuro ho intenzione di comprare. Sembra che ti liberino e invece ti legano.
Il Poranceto rimane la migliore alternativa; non ci sarà bisogno di birrette, di paglie, di flirtare, di fuochi d’artificio, spettacoli di droni, concerti, mercatini; di sventrare pavimenti, picconare piastrelle, scrostare muri, sfilacciare impianti. Lavoreremo durante la settimana ma poi fuggiremo dalla città e dal rumore assordante di un pub pieno di gente per ascoltare i sibili del bosco.
Ci andremo io e Matteo con i rispettivi camper, io porterò l’abat-jour e scriverò il sabato sera; sono benvenuti tutti i pellegrini devoti alla propria salvezza.

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ornella tajani
ornella tajani
Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa prevalentemente di studi di traduzione e di letteratura francese del XX secolo. È autrice dei libri Tradurre il pastiche (Mucchi, 2018) e Après Berman. Des études de cas pour une critique des traductions littéraires (ETS, 2021). Ha tradotto, fra vari autori, le Opere di Rimbaud per Marsilio (2019), e curato i volumi: Il battello ebbro (Mucchi, 2019); L'aquila a due teste di Jean Cocteau (Marchese 2011 - premio di traduzione Monselice "Leone Traverso" 2012); Tiresia di Marcel Jouhandeau (Marchese 2013). Oltre alle pubblicazioni abituali, per Nazione Indiana cura la rubrica Mots-clés, aperta ai contributi di lettori e lettrici.
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