Lo Spazio dell’Immagine

 

di Gabriele Doria

There is no such thing as an empty space.

John Cage

Questa storia comincia, ovviamente, con un uovo.

Per essere precisi, un uovo appeso ad una grande conchiglia.

L’uovo fluttua sopra una scena affollata: vediamo vecchi dalle vesti lacere e sciancate, crani spaccati, piaghe in suppurazione; lievemente distaccato, un nobile privo di un occhio (il destro) porta con se’ il proprio elmo malinconicamente ammaccato. L’uovo sembra essere proprio sopra di loro ma è un’illusione: è molto più lontano, le architetture sullo sfondo della scena si rivelano dunque monumentali. Si tratta di un espediente ottico, per far coincidere l’uovo sospeso con un altro uovo, più in basso.  L’altro uovo è un viso di donna (una Vergine). Il convergere prospettico identifica il punto di fuga nel suo occhio sinistro. La Vergine, ovviamente, contempla un Bambino; il corallo che questi porta al collo rimanda a una rinascita di là da venire. Sull’orlo del visibile parlare, contemplazione e memoria chiuse nella fissità innaturale di una certificata presenza dell’assente: qui nessuno sembra volerlo dire, ma si sta piangendo un morto. Una morta. L’uovo sospeso, proiettato nel diafano che dovrebbe parlarci di un di là, emerge dal nero, da un fuori-scena, occhio che (stra) vede una lacerazione, perché l’immagine è sempre frantume, del presente con-temporaneo.

La Pala di Brera di Piero della Francesca sembra essere stata commissionata dal duca di Urbino (il nobile senza occhio, solo profilo) dopo la prematura scomparsa della moglie Battista Sforza, morta nel dare alla luce Guidobaldo I di Montefeltro. Ancora un’uscita dal nero: l’uovo tradizionalmente ha a che fare con la nascita (ovviamente). Istruzioni pagane: il mito di Leda, moglie di Tindaro, re di Sparta (dove appeso in un tempio si trovava un identico uovo) viene fecondata da Zeus sotto forma di cigno, precorrendo la fecondazione di Maria tramite i raggi divini emanati dalla colomba dello Spirito Santo.

Se il nostro uovo lo ritroviamo, facendo un lieve salto, zoomato, stra-visto, in copertina al catalogo della mostra di arte contemporanea lo Spazio dell’Immagine, allestita a Foligno nel 1967, è per la comune origine centro-italica, per il riferimento al rapporto fra l’oggetto e lo spazio, fra lo spazio e la luce, o per il rifarsi al dogma della verginità? E l’immagine è vergine? Non è impossibile trovare un collegamento tra l’arte ambientale e la maternità. Nel 1959 alla Galerie Drouin di Parigi Pinot Gallizio (pittore a sessant’anni, “il primo e forse l’ultimo pittore che abbia mai conosciuto” Carla Lonzi) espone un ambiente realizzato con 145 metri di tela dipinta, utilizzata per ricoprire completamente pareti soffitto e pavimento. Ciò che rimane è uno “spazio di intensa ed esplosiva energia organica”, “matrice pulsante di valori primordiali magici e mitici” (Francesco Poli): un grande “utero cosmico” dell’antimondo, metafora del grande cahos vehefactus lucreziano brulicante di possibilità. La Caverna dell’Antimateria viene così descritta dall’artista in una lettera: “Imprevedibile per toni e contrasti di colore […] per violenza, violenza (…) materie in eruzione come lava, in esplosione, per effetti sorprendenti di colori dai più tenui ai più scuri (…) pittura atomizzata, disintegrata! Le reazioni a catena descritte sulle pareti illustreranno agli attori-visitatori un dramma vissuto a loro insaputa” E se nel ‘59 si parla già di “attori visitatori” non sarà inopportuno arrivare al 1967 in cui Michael Fried pubblica, su Artforum, Art and Objecthood, furiosa invettiva in cui lamenta una “condizione generale e onnipresente” dell’arte contemporanea. Nell’arte precedente, ciò che si poteva trarre dall’opera “era strettamente all’interno di essa”. Ora, invece, la nuova sensibilità “è portata a considerare le circostanze reali in cui lo spettatore incontra l’opera”, producendo situazioni in cui lo spettatore è naturalmente incluso. La nuova arte “è in realtà un pretesto per un nuovo genere di teatro, e il teatro ora è la negazione dell’arte”. Non è questa la sede per attraversare la storia dell’arte ambientale. Basti dire che, come spesso accade quando si parla di ricerche nel contemporaneo, Duchamp dà un contributo decisivo, con gli interventi di allestimento per l’Esposizione internazionale del Surrealismo nel 1938 dove in una grande sala sono appesi al soffitto 1200 sacchi di carbone, e per la mostra “First Papers of Surrealism” a New York nel 1942, dove lo spazio è attraversato in tutti i sensi da ben 12 miglia di filo, disposto come una sorta di ragnatela. Per non parlare (parlandone) di Dati: 1. La caduta d’acqua, 2. Il gas d’illuminazione, opera nascosta nel buco di una serratura a cui lavorò per un ventennio, fessura-buca nel nero, altra luce altra lacerazione altra fessa. A proposito di dogmi, qui il visuale apre alla dimensione della violenza inaudita, l’occhio-pene nell’atto di registrare non un eden diafano ma una diretta del contemporaneo parodisticamente televisiva-cinematografica, quindi un presente sempre in ritardo, nell’attimo successivo allo stupro. Fine della storia.

Pinot Gallizio certamente conosceva Fontana e certamente conosceva Klein, che l’anno prima aveva esposto a Parigi Le Vide ou La Spécialisation de la sensibilité à l’état matiére premiére en sensibilité picturale stabilisée, ovvero il vuoto, per dimostrare l’esistenza di “un’essenza immateriale dell’arte”, fruibile da parte degli spettatori attraverso un’esperienza  allo stesso tempo sensoriale e spirituale. Dai situazionisti quella di Klein sarà definita “mistica incantatoria”, e quindi “mistificatoria” perchè invece che stimolare situazioni creative attive esaltava una “passività contemplativa”.

Klein provava un profondo interesse per le dottrine esoteriche, teosofia e alchimia, e per gli scritti di Gaston Bachelard, nome che ritroviamo anche in una conferenza del 1967 di Michel Foucault, “Des espaces autres”.

A Foucault interessano quei luoghi, tra tutti, che “hanno la curiosa proprietà di essere in rapporto con tutti gli altri luoghi, ma in modo tale da sospendere, neutralizzare, sovvertire  tutte le relazioni che si trovano da loro realizzate o riflesse”: le eterotopie. Proprie di ogni società e anzi cresciute in seno a ogni società, costituiscono “contro-locazioni”: le eterotopie sono luoghi fuori da tutti i luoghi in cui le altre posizioni sono contemporaneamente “rappresentate, contestate e invertite”, eppure localizzabili.

Lo specchio, ad esempio,  è un’utopia, poiché è un luogo senza luogo. Nello specchio, io vedo “dove non sono, in uno spazio irreale che si apre virtualmente dietro la superficie; Sono là fuori, dove non sono, una specie di ombra che mi dà la mia visibilità, che mi permette di guardarmi lì dove sono assente: l’utopia dello specchio.” Ma è anche un’eterotopia, “nella misura in cui lo specchio esiste realmente, e nella misura in cui esiste, nel luogo in cui Io occupo una sorta di effetto reciproco: è dallo specchio che scopro assente nel luogo in cui mi trovo poiché mi vedo lì. Da questo sguardo che in un certo senso è focalizzato su di me, dalle profondità di questo spazio virtuale che è dall’altra parte del ghiaccio, torno da me e ricomincio a indossare i miei occhi verso me stesso e per ricostituirmi dove sono.

Il Teatro, quella cosa “scandalosa, come è scandalosa ogni cosa divina” (Carmelo Bene) è un altro esempio perfetto di eterotopia, così come gli spazi ambientali, realizzati dagli artisti, in cui gli spettatori interagiscono, in cui le opere incarnano volta per volta universi totalizzanti. Superata l’ambizione di una equazione arte-vita, nostalgie di avanguardie di inizio secolo, l’arte ora gioca a farsi teatro, a superare il teatro, adoperando “supporti veri” (nella definizione del filosofo americano Kendall L. Walton) “nel gioco immaginario di far finta”: “ I partecipanti a un gioco possono interessarsi alle torte di fango unicamente sulla base della verità che attribuiscono al modo di fare finta”.  Sovviene la risposta che Pino Pascali diede a Carla Lonzi, riportata in Autoritratto: “Anche i bambini giocano seriamente, è un sistema conoscitivo, i loro giochi sono fatti proprio per sperimentare le cose, per conoscerle e nello stesso tempo per andare oltre»

Così come l’epitaffio intessuto da Palma Bucarelli l’anno successivo alla scomparsa dell’artista pugliese (riportato da Andrea Cortellessa nel suo saggio su Pascali per Antinomie[1]): «Chi può dire che il gioco cancelli il tragico dell’esistenza? Quando si è nel gioco bisogna giocare, e la necessità non è libertà. Giocare è giocarsi.”

(Bataille ne “La crudele pratica dell’arte”: “vogliamo decifrare cieli e dipinti, andare oltre questi sfondi stellati e, come bambini che cercano una fessura in una recinzione, provare a guardare attraverso le crepe del mondo”.)

 

Per qualcuno può essere lo Spazio. Se la mostra sopra menzionata, Lo Spazio dell’Immagine, è considerata epocale, lo è soprattutto per un paio di ragioni: la prima, biecamente storica, è perché “si tratta della prima mostra italiana di opere installate in situ intorno a un unico tema: l’integrazione dello spazio, del colore e dello spettatore in un ambiente totalizzante” (Romy Golan); la seconda è la congerie di fatalità che raduna in un ambiente provinciale alcuni dei più grandi artisti italiani dell’epoca (Foligno è una città umbra, snodo commerciale e ferroviario in recessione economica dopo aver particolarmente patito i bombardamenti alleati del 1944). Senza voler fare un’epica del decentramento, il fatto è che all’epoca la fragorosa mancanza di una rete di istituzioni italiane per l’arte contemporanea lasciava mano molto libera ai molti attori orbitanti attorno ad essa, rendendo episodi simili, ancorché clamorosi, addirittura vantaggiosi (Romy Golan in un articolo per Flash Art[2] ripercorre altre due mostre di quegli anni nate in ambienti provinciali, come Arte povera più azioni povere (1968), agli Arsenali di Amalfi, e Amore mio (1970), a Montepulciano).

L’evento fu possibile grazie all’iniziativa del designer Dino Gavina, che aveva impiantato una factory nelle vicinanze (parodiato nel geniale libro AntiGavina Design di Corrado Costa, dove si propone la via per un totale Falli & Mento s.p.a. con sede legale a Torino: “L’arredamento di un interno coi prodotti Antigavina crea irritazione nel single, malumore nella coppia, intolleranza in un nucleo familiare di tre persone e mezzo. Chi regala uno dei nostri prodotti lo fa per disprezzo. In una società di malvagi i prodotti Antigavina andranno a ruba. L’oggetto Antigavina stimola l’istinto di distruzione. […]”), unita al coordinamento di Gino Marotta e all’interessamento di critici come Maurizio Calvesi, Gillo Dorfles, Umbro Apollonio e Palma Bucarelli, oltre a Giulio Carlo Argan.

E’ ignoto a chi, fra questi nomi e altri ancora che parteciparono alla mostra, si debba la scelta del nostro uovo come simbolo, riportato su manifesti e cataloghi. Il taglio che lo scontorna dalla dimensione religiosa, lo vorrebbe forse riportare alle sue radici pagane?

La mostra venne realizzata all’interno di un palazzo patrizio tardo-medievale, decorato da preziosi affreschi rinascimentali. Per quanto gran parte della mostra abbia oscurato le opere già presenti nelle stanze, decidendo di fare a meno del dialogo, non c’è nudità più esibita di quella s-velata, e gli dei pagani fuggiti dagli affreschi e nascosti da un telo attendono oltre il limite oscuro dell’occhio-voyeur, continuando a infestare il palazzo. Ne è una prova Cinque pozzi (1966) di Michelangelo Pistoletto, allestito nella Sala delle Arti e dei Pianeti. Allo spettatore che si fosse affacciato a uno dei cinque cilindri bianchi in fibroresina dal fondo specchiato (dunque eterotopico), ciascun pozzo poteva restituire, oltre al personale fantasma di ciascuno, parti di soffitto: lo sguardo della maestosa figura della Filosofia, o le parvenze di sette splendide donne che iniziano fanciulli alle arti liberali, o ancora sette pianeti, ciascuno accanto a una scena delle età dell’uomo associata a una specifica ora del giorno. Fascino del “guardarsi”, tornando a indossare i propri occhi, del sentirsi nello spessore fantomatico dell’immagine, nella trama di un “fantastic voyage” di cui si è passeggeri/piloti, dentro di essa.

 

Nel Medioevo lo spazio della superstizione era lo spazio della terra, l’angoscia della calamità biologica trovava sfogo nella lotta tra Chiesa e miscredenza per il predomio simbolico: influenza dell’uomo nell’ambiente, culto dei morti, fertilità, succedersi delle generazioni. Nella conferenza sugli spazi autre, Foucault traccia una storia dello spazio occidentale a partire da quello fortemente gerarchizzato del Medioevo, definito di localisation, formato da ambienti urbani e rurali, protetti e indifesi, sacri e profani (come pure è fortemente gerarchizzato lo spazio di Leon Battista Alberti e, ovviamente, di Piero della Francesca).

Lotta per lo Spazio e per il Tempo: il tempo che fa e disfa, il tempo a venire dei sogni e delle divinazioni continuamente strappato agli occulta dei, i segreti di dio. I laghi, le fonti, i fiumi, i boschi, erano luoghi infestati da rimanenze pagane, ben più difficili da abbattere dei templi degli idoli: nel gran lago Elario – racconta Gregorio di Tours – una folla di contadini  gettava biancheria e stoffe destinate ad abiti maschili per scampare a una tempesta di pietre; nella vita di San Lucio si parla di un “bosco di Marte” dove i bovari andavano per adorare vitelli come fossero dei; e non potendo impedire a San Martino di abbattere il pino sacro, i contadini meditavano di schiacciare il sant’uomo sotto quello stesso albero, ma ecco, accade il miracolo: il pino viene risospinto all’indietro e per poco non schiaccia i pagani…

Per la mostra di Foligno Gino Marotta (geniale scenografo per la Salomé di Carmelo Bene, ancora teatro) realizza Naturale-Artificiale, ambiente spaziale che rappresenta una foresta ghiacciata in perspex, fatta di sagome di alberi in plastica bianca trasparente. Una foresta fantasma. Nel testo scritto per il catalogo della mostra, Marotta fa riferimento al tempo orizzontale della memoria, all’interno del quale risiedono il passato, il futuro e la misura dell’esistenza. È quindi necessario osservare l’opera come campo di ricerca per “inseguire significati, illuminazioni, simboli e miti per il nuovo corso della vita”.

Palma Bucarelli dedica un saggio nel catalogo della mostra all’opera di Ettore Colla, ultimo “buon samaritano dell’epoca del Ferro”, viandante delle periferie dove raccoglie i materiali dell’industria al loro ultimo stadio di degrado.

Il museo diventa un cimitero di carcasse, la cui morte si trasforma in morte eterna. Gli oggetti dimenticati diventano segni derivati dalla città industriale che disprezza l’oggetto. Il suo ideale è un mausoleo a cielo aperto. Colla parla di una decomposizione feconda “il relitto, la cosa-segno, è ricomposto nel tempo così come si ricompone e si geometrizza nello spazio. […]”

Ma il relitto è anche quello della cultura classica, che si interpone in titoli mitologici: Orfeo, Pigmalione, Mosè… Scheletri svuotati non privi di monumentalità, descritti in vertici e spirali. Inoltre, come il collega Mattiacci, come un uomo del Quattrocento, Colla è affascinato dal cosmo e dai pianeti.

Odissea nello Spazio. “Non vogliamo abolire l’arte del passato o fermare la vita: vogliamo che il quadro esca dalla sua cornice e la scultura dalla sua campana di vetro. Un’espressione artistica aerea di un minuto è come se durasse un millennio, un’eternità. […] Lo spirito diffonde la propria luce nella libertà che ci è stata donata.” Fontana pubblica il Manifiesto Blanco a Buenos Aires, nel 1946, a cui seguirà, tornato a Milano, il Manifesto Spaziale l’anno successivo. In Fontana, grazie allo spazialismo, il materialismo radicato nell’arte figurativa/astratta scompare a favore di un senso di religiosità cosmica, nel gesto puro ed eterno che nasce da una necessità non solo artistica ma spirituale, metafisica. A Milano è in contatto con personalità come Gio Ponti, Ettore Sottsass e i membri del Gruppo T (T = tempo); a Milano presenta per la prima volta nel 1949 il suo Ambiente Spaziale a luce nera, costituito da un oggetto di cartapesta di forma astratta, dipinto in diversi colori, fluttuante all’interno di una stanza buia e rivelato da una luce al neon nera. È alla base del resto del suo lavoro e della sua ricerca, compresa la successiva serie Concetti Spaziali. In occasione della mostra del 1967 a Foligno, Fontana, che era vicino a Dino Gavina e Gino Marotta, decise di ricostruire l’Ambiente Spaziale a luce nera sotto la direzione di Giulio Carlo Argan, che dedicò all’artista un saggio nel catalogo della mostra. Conserviamo ancora parte del carteggio in cui l’artista dà istruzioni per la realizzazione dello spazio ambientale, specificando dimensioni e materiali. E’ anche in queste lettere che spiega come l’Ambiente spaziale fosse impossibile da fotografare a causa della presenza di luce nera (o luce di Wood); l’unico modo per ricostruirlo era seguire le sue istruzioni scritte e i suoi progetti, sorta di formula di evocazione.

[Altro fantasma. Si è ancora appesi, uscendo dal nero stavolta però per rientrare nel nero. E’ forse a questo buco bianco che pensarono di collegare l’uovo? Intanto, nel 1976, per la biennale di Gubbio, l’artista Mirella Bentivoglio decise di fare un omaggio “All’Adultera lapidata” presentando un grande uovo composto di detriti. La dedica era invisibile perché collocata all’interno della scultura, almeno, immaginiamo, fino a che non si sono potuti vedere i detriti. Perché l’uovo si ruppe, ed è stato solo recentemente restaurato]

Nell’Arte Povera (che sarà codificata di lì a pochi mesi, nel settembre 1967) l’unica certezza dell’artista è il significato dell’azione in relazione all’ambiente naturale. L’artista vuole in definitiva sentire di esistere in corrispondenza con altri esseri viventi. Si riscopre attraverso l’esperienza diretta, che non è più rappresentativa: vuole vivere e non vedere. Celant descrive l’opera di Pascali come una dimensione in cui una sensazione si realizza nella sua immediatezza. Pascali, che per tutta la breve vita terrà divisi il lavoro di scenografo per la televisione e quello di artista, a Foligno espone per la prima volta i 32 mq circa di mare, uno dei suoi capolavori più riconosciuti. L’anno successivo, pochi giorni prima della morte, tragica, in un incidente in motocicletta, Pascali inscenerà per la cinepresa di Luca Patella la sua unica performance, una sorta di inquietante rituale pagano di ritorno all’acqua, di tragedia e di risurrezione. Penone scriverà anni dopo che, benché lo lasci “deluso” scoprire come l’acqua del “mare” non fosse <<di mare»,  l’«estroversa e imperfetta tautologia» di Pascali «suscitava la magia del fare»: «una scenografia al di fuori degli studi televisivi, una scenografia per la vita di tutti i giorni» fa sì che «lo stupore di Pascali sia sincero, non sia calcolato, sia vissuto».

Un altro teatro immanente è quello di Ceroli. L’uomo misura di tutte le cose è a diretto contatto col materiale per lui più vicino alla vita, il legno, il legno dei boschi sacri. Come uno sciamano, evoca la propria ombra inesorabilmente imprigionata, all’interno di una Gabbia di legno (anticipatrice della Double Steel Cage di Bruce Nauman) in cui il visitatore è invitato a diventare parte integrante. Ancora, il tubo di Mattiacci è un mostro sorprendente elastico, un evento plastico passivo che accoglie qualsiasi ambiente, che invade e distrugge lo spazio riproducendosi continuamente, riaffermando la propria ubiquità. Un demone infestante del contemporaneo. Gilardi vuole anche lui rendere attivo lo spettatore: lo invita a visitare un prato verde ricoperto di fiori e foglie, cerca di riconnetterlo alla natura. Una natura falsata: il contatto svela immediatamente l’illusione, non si tratta di erba ma di muschio industriale. E’ l’inganno del genio maligno, è l’eden prodotto dal capitale.

Di Tano Festa c’è ancora chi racconta di come girasse per le strade di Roma a testa alta, come un presocratico, cercando di afferrare le nuvole che aveva tra le mani, le stesse nuvole che disegnava nei suoi dipinti e che si ritrovano nell’opera esposta a Foligno nel 1967. Festa non ha creato un vero e proprio spazio ambientale per la mostra, ma piuttosto un’opera-monumento, intitolata Il Cielo, su cui è stato dipinto un cielo azzurro con nuvole bianche. Si trattava di un’opera dedicata alla morte di Francesco Lo Savio, l’ultimo fantasma di questa storia, artista che si suicidò all’età di ventotto anni nella Cité Radieuse di Marsiglia. Un altro morto. Lo Savio fu grande amico anche del poeta clandestino Emilio Villa, il quale per difenderlo ebbe un alterco con Piero Manzoni. Festa, che negli anni Sessanta aveva ormai costantemente integrato nelle sue opere porte e finestre, a proposito di quest’opera scrive:

« […] Guardo ancora la porta chiusa e mi sembra che in questo momento non ci sia nulla dietro, né il corridoio né il resto della casa. Se lo aprissi, vedrei solo un grande cielo azzurro pieno di nuvole bianche […] »

Nel IX secolo l’arcivescovo di Magonza Rabano Mauro racconta come “una notte, tra l’imbrunire e l’inizio della notte”, fu messo in allarme da “una così spaventosa vociferazione del popolo, che la sua irreligione sembrava dovesse penetrare in cielo”; “Quando chiesi loro cosa volevano ottenere con quella chiassata, mi risposero che le loro grida dovevano venire in soccorso della luna sofferente, che si sforzavano di aiutare durante la sua eclissi”.

[Per una di quelle coincidenze mai davvero casuali, Lo Spazio dell’Immagine è anche il titolo di un libro di Saverio Zumbo su Michelangelo Antonioni, edito nel 1995 da Ripostes. Rimandando a un secondo momento l’esplorazione del legame tra il regista e l’arte contemporanea, chiudo con questa riflessione che Antonioni aveva premesso all’edizione einaudiana dei suoi Sei film:

Noi sappiamo che sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà, e sotto quest’altra un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima. Fino alla vera immagine di quella realtà, assoluta, misteriosa, che nessuno vedrà mai. O forse fino alla scomposizione di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà.]

[1]https://antinomie.it/index.php/2024/09/18/pino-pascali-giocarsi-la-vita/#_ftnref16

[2]https://flash—art.it/article/fare-finta-nellarte-italiana/#_ednref

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Giorgiomaria Cornelio
Giorgiomaria Cornelio è nato a Macerata nel 1997. E’ poeta, regista, curatore del progetto “Edizioni volatili” e redattore di “Nazione indiana”. Ha co-diretto insieme a Lucamatteo Rossi la “Trilogia dei viandanti” (2016-2020), presentata in numerosi festival cinematografici e spazi espositivi. Suoi interventi sono apparsi su «L’indiscreto», «Doppiozero», «Antinomie», «Il Tascabile Treccani» e altri. Ha pubblicato "La consegna delle braci" (Luca Sossella editore, Premio Fondazione Primoli, Premio Bologna in Lettere) e "La specie storta" (Tlon edizioni, Premio Montano, Premio Gozzano Under 30). Ha preso parte al progetto “Civitonia” (NERO Editions). Per Argolibri, ha curato "La radice dell'inchiostro. Dialoghi sulla poesia". La traduzione di Moira Egan di alcune sue poesie scelte ha vinto la RaizissDe Palchi Fellowship della Academy of American Poets. È il direttore artistico della festa “I fumi della fornace”. È laureato al Trinity College di Dublino.
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