Pratolini poeta. Un mannello dimenticato
di Marco Nicosia
Il mannello di Natascia e altre cronache in versi e prosa (1930–1980) rappresenta un’opera unica nella produzione di Vasco Pratolini. Lo spunto per questa breve recensione nasce da una piacevole sorpresa: la scoperta di questo libro raro, ricevuto in dono dalla moglie di un poeta recentemente scomparso, proveniente dalla sua libreria personale. Si tratta di un volume ormai introvabile, reperibile solo a caro prezzo nei negozi di libri usati. Mentre riordinavo i tanti volumi, mi sono dunque ritrovato tra le mani due copie autografate, corrispondenti alle due differenti edizioni del Mannello.
La prima, pubblicata con il semplice titolo Il mannello di Natascia dalla galleria d’arte “Il Catalogo” di Salerno, fu stampata nel settembre 1980 in 350 esemplari fuori commercio. La seconda, considerata l’edizione definitiva, venne pubblicata da Mondadori nel febbraio 1985. L’edizione limitata della galleria d’arte — dedicata a Vittorio Sereni, coraggioso nell’esserne «estimatore» — è impreziosita da quattro acquerelli di Bruno Bècchi (Su una poesia di Pratolini, 1935; Spagna, 1938), Ottone Rosai (Bagnanti, 1932) e Renzo Grazzini (Via delle Casine, 1980), rendendola di fatto un vero pezzo da collezione. L’edizione pubblicata da Mondadori — dedicata anche a Ruggero Jacobbi, uno dei primi lettori — raccoglie cinque sezioni distinte, ciascuna legata a un diverso periodo della vita di Pratolini: a Il mannello di Natascia (1930–1936) — suddiviso in Elegia dell’adolescenza e L’epoca di Natascia — si aggiungono le plaquette La città ha i miei trent’anni (1944), Calendario del ’67, L’anno della senescenza (1978) e Ora che s’è fatto silenzio (1980).
Ad aprire la raccolta è un’avvertenza dell’autore, che ne spiega brevemente la storia: A proposito di un manoscritto tornato al suo autore come dentro una bottiglia. La prima sezione dell’antologia fu elaborata nella prima metà degli anni Trenta, quando Pratolini non aveva ancora esordito come romanziere, e fu dedicata e consegnata alla merlettaia fiorentina Maria Alfani, affettuosamente detta Natascia. Il «tesoro» fu poi restituito nel 1978 su suggerimento della nipote, «un mostro di ventidue sulle ventitré primavere costei, linguista glottologa studiosa degli stilnovisti e dei contemporanei, supplente alle medie, aggiunta all’università, inedito narratore, con maggior segretezza poeta, extraparlamentare di sinistra, mia demolitrice e mio amico». «Ti potrebbe che ne so servire», sono le parole che lo scrittore prende alla lettera.
È così che va alle stampe un esordiente Pratolini poeta, ormai più che settantenne, il quale, dopo questa raccolta, di inedito pubblicherà soltanto cronache minori. Una silloge di nostalgia per la temeraria giovinezza lontana, dunque, accresciuta da testi che offrono uno sguardo disincantato verso il presente. Un dono per collezionisti che l’autore di Metello può permettersi di indirizzare ai sopravvissuti lettori di poesia degli anni Ottanta, dopo che le sue più fortunate opere hanno scalato le vette dei manuali scolastici.
“Non conosci le stampe dei Lavatoi visti
da San Simone ora spariti? Né delle tante
e mai chiese la cupola il battistero
il campanile di sfondo ai venditori,
le loro gerle i gridi?
Nonno ce n’ha la casa piena.
Son pancia di Campi ecco il panfino
vendo le scoole e il pan di ramerino.
Centenario bacucco mamma dice si gingilla,
le ramazza spendendoci gli ultimi duini.
Fino all’altr’anno faceva il cenciaiolo.
Donne chi vuol comprar l’istoria bella
di Ippolito Dianora — e Chiarastella.
Babbo suo figlio più grande bravo
gli dice, lasciaci eredi, tu fuma e trinca.
Ogni sera torna che sbanda, dolce amoroso.
Un trapassato ritrarria da morte
questo ch’io vendo a fiaschi aceto forte.
Mica son versi di poeti mi confida,
ma io bambina mia li ho sentiti,
coteste figurine le seppi di persona.
A chi vuol colar brodi ecco lo staccio
al prezzo più discreto io ne fo spaccio.
Lasinio com’è scritto disegnò e incise
dal vero, ponici gli occhi sono
i tuoi avi, di quando berta filava e sul Mugnone
crescea erba trastulla. Con la panaia di Campi
giovani forti s’andò per prati.”
*
«Tornando a casa ne hai buscate?»
«Mah, il babbo, le solite cinghiate»
*
Il cielo basso il gelo nelle case,
impiastri mucillaggini suffumigi,
quando per Berlingaggio è festa
l’ospedale.
«Ti hanno fatto entrar solo? l’estremo
desiderio prima dell’estrema unzione.
Tu invece vivrai, nevvero? chissà quanto.
Peccato!»
*
E sulle labbra il suo ultimo fiato
aspro il commiato. «Sono fregata, Casco,
la morte non è un sollievo, è un’imboscata.»
Ora c’è un albero di mimosa nel campo dei giaggioli.
(Da Elegia dell’adolescenza, dedicata all’amica Bianca nel quinto anniversario dalla sua scomparsa)
Il Mannello offre un Pratolini che supera l’obsoleta etichetta di scrittore neorealista. Neoclassicheggiante crepuscolare, magari, eccentrico scapigliato e vociano nella sua adolescenza, che tuttavia non fa a meno delle innovazioni linguistiche e letterarie del suo tempo, strizzando l’occhio — soprattutto nelle ultime sezioni più tarde — alle nascenti avanguardie, se ne si considera l’impegno politico, nonché agli isolati massi Caproni e Penna, se negli scaffali lo si volesse mettere accanto ad altri autori del suo tempo.
Amara ironia, malinconia, lirismo cinico e smaliziato sono i caratteri preminenti delle centinaia di poesie confluite in quest’opera singolare nella produzione pratoliniana, fatta di omaggi alla città natale, delusioni romane, figure di spicco contemporanee, donne amate e morte, rassegnazioni, tempo che scorre inesorabile. La sintassi tipicamente spezzata della poesia lascia comunque spazio a un discorso piano, a un linguaggio semplice e scorrevole, ricco di dialettismi, neologismi, forestierismi inglesi e francesi, dialoghi diretti, coniugati a un ironico registro medio-basso che rende le composizioni colloquiali, in un tu-per-tu coi vari dedicatari delle poesie e di conseguenza con il lettore. A predominare sono i quadri della vita scapestrata di un moderno Cecco Angiolieri o, se si vuole, di un chierico vagante del XX secolo.
*
ALDO MI CALI UN FILINO?
Palazzeschi è bello come il sole,
l’uomo di fumo lasciateci divertire,
con Aldo si pensa con lui ci svaghiamo:
di fumo come mai e perché di fumo siamo?
perché ne parla tutta la città? Sentiamo.
[…]
Se quel filino un giorno un po’ s’allenta,
con penna carta inchiostro ci provo mi tenta.
E in questo mondo buio ove la fame cresce
la giustizia stenta, viva colui che mesce
sberleffi e fantasia — madonnabella!
come son belli Palazzeschi e il sole.
*
ABBASSO L’ACCADEMIA
[…] Roma doma non c’è discussione
grande folla, ventitré marzo,
enormi bandieroni. Ma squillano
di più le idee il sangue
oppure le fanfare i fanfaorini?
☆
Anche a me Bontempelli vestito
da Starace mi disturba assai,
crepi l’orbace, lui di così fertile
ingegno, europeo dai selvaggi odiato,
magico realista surreale,
col fez in testa fucile nella mano
come un balillino di stagno,
un ojetti qualunque, tempo dannato.
☆
Pirandello pure ci va bene, come
ci va bene Marconi, è gente di scienza
di teatro piena di colpi di scena
d’invenzoni d’urli di scoperte umane:
la psiche il telegrafo senza fili la radio.
*
RIVOLUZIONE
E mentre io parlo parlo e m’arrovello
più m’escon fiamme e fuoco dal cervello
ridendo a larghe cosce a piena gola
più il tuo “grullo grullo” mi sconsola:
«Ghigliottina, Maria», ieri, sotto Montesenario.
«Dici sul serio? Non ti conoscevo sanguinario.»
*
PER GLORIA INATTESA AL CAPEZZALE
[…] Càpita nella vita trovarsi
entro un odoroso porcile ove si sguazza
beati col senso come di morire. Di abbruttire.
4
E corso e corso sopra la tua saura puledra
allentati gli sproni si cadeva sul dorso
il fiato scosso dalla gioia postuma del sangue
fermentato. Fu la volta che dicesti, press’a poco:
«Torbide dolci bollenti acque, maschili penne,
mona la donna angelicata, trenta e lode.»
5
«Mi danno per spacciato, Gloria, tu ci credi?»
Una mano sulla fronte l’altra sul pube:
«La mia diagnosi è no. Prescrivo carne vino
amore in forti dose.» Col moccio al naso, sorridi.
6
e seppure…
«Il marengo giovinezza intero spese
e nell’azzardo perse questa vita»
direte amici, io riderò cavalcando
un arcangelo biondo e femmino.
(Da L’epoca di Natascia)
*
what’s in a name?
Mattino di Trinidad
che d’un nonnulla tocca la memoria
— sulla pista dell’aeroporto la donna
a cui incredibile somigli «Every day
its own dawn» disse «I got you not you»,
volava il DC8 sulla rotta di Portorico
e già stentavo a ricordarne il nome:
Florence? o il tuo?
*
…a specchio del nostro happening festoso
il reale che ci assedia, le br Moro rapito
l’infame potere che invece di tremarne
se ne giova, la classe operaia e il suo grande
Partito forti al punto da volersi sussidiari,
i compagni cèchi e d’Argentina…
…a tutto quanto insomma popola
la mia cronica inerzia la tua ancor bella persona
sembrò offrire l’ennesimo diversivo, poi la gioia
di mirarti in viso, accoglierti sul petto, affidarmi
alle tue mani — né tu né io abbiamo barato.
*
A Villa Sciarra dove Scipione dormiva coi pavoni,
ancora in macchina, muso a muso con un tratto
delle Mura Gianicolensi, nostro luogo deputato
— sino a quelle tue ciglia da Bradamante inumidite,
che misero the end, cara. E lancinante, e così,
nel mio squallido lessico non esiste altra parola.
*
IL COLLE DELL’OMBRELLINO
D’altronde basta averne coscienza e proibirsi
di sfidare l’esistenza coi languori, anacronistico
spirito. «Non è concesso» lei dice, neanche con le ossa
rotte neanche coi “nervi a pezzi” il parletico
alle mani, neanche avendo una vita tutta da rimeditare.
«Cioè» mi spiega, insegna va a caccia di supplenze
sta in un collettivo. «Il processo siamo noi che lo facciamo,
movimento settantasette, non lo dimenticare…»
(Da L’anno della senescenza, 1978)