Un inizio
di Edoardo d’Amore
È una storia piccola, troppo minuta e fragile perché se ne sia parlato. Si può non credere a queste parole e andarla a cercare tra mondi virtuali e mondi reali, ma si scoprirà solo quanto già detto. Non quotidiani o riviste, né blog o social network e tantomeno i telegiornali, hanno trattato questa vicenda in alcun modo. È rimasta all’interno delle conoscenze di nicchia, senza suo malgrado o fortuna riuscire a uscirne. Ha avuto la stessa vita di quei templi che per fato o volontà si ritrovano a essere sperduti in una giungla fitta, coperti non dalla sola vegetazione ma da un destino verde che li occulta.
Come le vecchie leggende, una volta sentito l’episodio qualcuno lo dimenticò, molti altri lo ignorarono e solo alcuni cercarono di capire se potesse essere adatto alle loro necessità. I complottisti vedendo che non vi era niente all’interno della sua narrazione che potesse mettere in dubbio i sistemi precostituiti della società contemporanea, lo considerarono inutile alle loro esigenze di complotto. Con diverso proposito ma medesima conclusione fu analizzato anche dall’antica stirpe dei fondatori di sette che, in riunione plenaria, trovò il racconto «un po’ troppo sopra le righe e di scarso interesse» per considerare di poterci fare un qualche tipo di guadagno. Infine vi furono i massoni che, impegnati com’erano a mantenere i loro numerosi segreti sul mondo, sospettandone un ennesimo e temendo un’involontaria rivelazione degli altri, scapparono in gruppo a gambe levate senza neanche ascoltare di cosa si trattasse.
Fra le poche persone comuni che ne vennero a conoscenza, molte equipararono la storia alla stregua di quelle favolette che si raccontano ai bambini la sera per farli addormentare. Qualche disperato, probabilmente privato del riposo dalle urla incessanti dei propri pargoli, nello stato catatonico nel quale si trovava, utilizzò davvero il racconto della vicenda per accompagnare i propri figli nel sonno. La storia non turbava i bambini anche perché, per la mancanza di lucidità che la mente aveva in quelle occasioni, veniva raccontata con lo stesso trasporto che si ha nella lettura del menù di un ristorante etnico nel quale si entra per la prima volta per caso.
Se, come detto, qualcuno non considerò l’avvenimento come reale, qualcun altro invece lo fece.
Un giovane sceneggiatore, ad esempio, ne arrivò a conoscenza accidentalmente ascoltando le chiacchiere di alcuni avventori in un importante caffè romano. Lavorava lì da diverso tempo per arrotondare una paga che il mondo dello spettacolo gli dava a intermittenza. Il giovane non si sentiva frustrato da quel lavoro ma considerava quel tempo come tirocinio formativo: non scriveva storie ma esplorava il diverso materiale umano che aveva attorno ascoltando i racconti più disparati. Se le reazioni e i commenti alle partite di calcio o agli avvenimenti della politica locale ed estera erano all’ordine del giorno, ogni tanto gli capitava di ascoltare di circostanze alle quali la sua scrittura avrebbe potuto ispirarsi. Così fu per la storia della signora che pensava che suo marito si fosse reincarnato nel pappagallo e con il quale dialogava con disinvoltura durante le ore del giorno; per quella del ricettatore di diamanti che aveva partecipato a una rapina e non sapeva se avesse «trasformato in un ghiacciolo» il gioielliere oppure no; per quella dell’uomo che riteneva di essere l’ideatore di un noto medicinale contro la febbre e il mal di testa a cui non era stato riconosciuto alcun merito; e per la nostra vicenda. Delle quattro solo l’ultima gli diede un incentivo per mettersi alla scrivania a descriverne gli avvenimenti. Lo fece solo dopo aver verificato in banca di avere abbastanza liquidi per prendersi un breve periodo di aspettativa, che il suo datore di lavoro gli concesse non senza qualche perplessità.
Nonostante sul conto avesse un saldo che gli avrebbe permesso di vivere solo per un mese, impiegò poco meno di cinquanta giorni per raccontare la storia come l’aveva in testa. Rimase alla scrivania più che poté limitandosi a distaccarsene solo per dormire e andare in bagno, ma anche in quei casi lo faceva non scollando mai l’attenzione dal proprio lavoro, rimanendoci su in modo continuativo. Anche se la storia era giunta alle sue orecchie di sfuggita, se la figurò così bene in mente che arrivò inconsapevolmente a raccontarla in modo molto vicino a come si svolsero realmente i fatti ma sempre con la finzione scenica che è propria dei copioni cinematografici. Però, la soddisfazione di avere qualcosa di interessante tra le mani l’ebbe alla quarta stesura del copione, ottenendo una versione definitiva solo alla sua sesta riscrittura.
Rileggendo il testo per l’ultima volta, lo considerò impossibile da migliorare ulteriormente. E così era.
Il giovane si sentì per la prima volta con il mondo in pugno, immaginando come sarebbe stato il suo grande successo. Qualcosa che ogni regista conosciuto avrebbe desiderato ritrovarsi tra le mani e che lui avrebbe donato al più meritevole o a chi gli avesse fatto l’offerta più cospicua. Se poi fosse stata l’unione delle due cose, tanto meglio.
L’euforia del ragazzo però durò poco infatti, come i migliori eventi di causa effetto, non riuscì mai a sottoporre il testo a nessun produttore: morì sotto casa sua, appena a pochi passi di distanza dal portone d’ingresso del suo palazzo. Non venne ucciso dalla distrazione, ma essa fu largamente responsabile del fatto che un autobus lo investisse. Nella sua casa diviso per tanto tempo dalle cose del mondo, colto dalla felicità di quanto prodotto, si dimenticò dei pericoli della strada.
Così va la vita a volte.
Con la morte del giovane, il copione sparì. Probabilmente venne buttato o abbandonato in qualche scatolone, come spesso succede agli oggetti lasciati dai defunti e di cui chi rimane non ne capisce il valore o non sa cosa farne.
Se il giovane sceneggiatore fu il migliore esempio fra quelli che presero seriamente la vicenda, intenzionato com’era a renderla conosciuta, molti altri lo fecero a loro volta senza loro malgrado avere alcun tipo di forza o capacità per divulgarla. Per questi, la storia rimase un elemento astratto, qualcosa a cui appigliarsi con la propria fantasia. Un’entità che popolava i loro pensieri, cullandoli o tramortendoli prima del sonno, senza mai avere un effetto o un’intensità tale da costringerli a trovare un modo per farla uscire dalle proprie carni.
Quanto rimane a noi, purtroppo, sono solo voci e dicerie. E così, ci ritroviamo a intuire solamente come la vita spesso segua dei percorsi inattesi che conosce solo lei. Strade che appaiono dal nulla, che ne dissolvono delle altre. Strade che impongono di venir attraversate, lasciando come possibilità solo il paesaggio. Strade la cui accettazione non è un fine, ma l’unica speranza.
Strade che pur sempre sono quello che sono, e che in qualche modo hanno lasciato traccia del passaggio di qualcuno. Dei suoi atti.