Solo in poesia coincidono così gli opposti
di Pietro Cagni
Quale movimento sospinge, cosa sostiene i versi della prima sezione dei Frammenti di nobili cose di Massimo Morasso. Il poeta ha affidato al libro un’esigenza duplice: compiere un’esperienza piena della poesia e, insieme, individuare la sua fondazione. Un libro da cui imparare, ammirando, le possibilità di ogni evento poetico e le ineludibili questioni che sempre lo attraversano. Res e verba, parole e cose: non c’è altro tema. Tanto più oggi che il reale mostra la sua ultima indecifrabilità. Come mai prima d’ora, è stato scritto, “abbiamo smesso di capire il mondo”. I nostri sistemi di comprensione non ne reggono l’urto, e più affondiamo gli occhi, più allontaniamo la possibilità di afferrare qualcosa, e il caos si moltiplica. Le cose mortali, povere e meschine, ora appaiono anche terribilmente sole. Dobbiamo arrenderci alla fisica quantistica, aspra severa e controintuitiva, che disinnesca i nostri tentativi. Ma se anche così non fosse, cosa ci resterebbe tra le mani: un mondo comunque malato, insufficiente, una promessa non mantenuta. Possiamo solo “patire il mondo”, come indica il titolo della sezione, Geopatia, come soffrendo una malattia indimostrabile ma vera: «le cose si sfracellano». Eppure, scrive Morasso, in noi si agita una «nostalgia celeste» che impone una scelta: l’attraversamento del mondo o il suo pensiero.
Nel paesaggio in cui siamo sperduti Morasso continua ad abitare, e ci restituisce i frantumi del conflitto, in cui qualcosa è apparsa. La prima poesia del libro sembra dire di una sconfitta:
Per anni, in cerca di sollievo,
ho tratto dai ricordi le parole,
ma adesso il mio paesaggio si è invertito.
Ora ho levato
il mondo e
vivo solo negli anfratti
meno esposti del reale:
sono una nostalgia celeste
ardentemente arresa al suo delirio.
Ritirarsi dalle cose, “levare il mondo”, lasciare che la «nostalgia celeste» diventi delirio: se questo accade, non è possibile la poesia ma la bestemmia o la finzione, fino al silenzio («Troppo facile / pensarti un animale, / troppo difficile / uno spirito di carne.»). La poesia che apre il libro descrive un tradimento dell’ansia verticale e abissale che ci costituisce e che, nonostante tutto, permane. Al suo mistero Morasso potrà faticosamente obbedire. Avviene già nella quinta poesia del libro, che non a caso trova una forma più ampia e distesa, meno assertiva, mossa da un ritrovato procedimento interrogativo: in questa e in altre poesie della sezione la realtà irrompe come nuovo respiro, nella sua evidenza materiale (alcuni luoghi vengono indicati, al termine, col loro nome), e chiama il poeta a partecipare gioiosamente al suo movimento. Chiede una resa incondizionata, vuole far tacere le armi della mente, così che possa risuonare il canto e non il lamento, un amore possibile tra verba e res:
Il vento che mi detta
soffia, stamattina, ricordandomi:
per me tu parli,
per me tu susciti i significati
e unifichi le cose alle parole
sposandole nei nomi.
Il refolo che soffia
al mio risveglio ha sussurrato:
per me tu insegui il vero,
la luce del tuo fuoco,
la tua chiarezza oscura, solo tua,
di te che incontri un tu
nella semenza, provvida, del Bene.
Lo sai: la lettera è mortale.
E, dunque, perché non smetti
di sparlare? Perché ti areni come
tanti, fra chi bestemmia il mondo
e chi lo finge?
Io tremo come un corpo, sinopia della polvere.
Io scorro nel tuo sangue
e genero realtà
con un’arcana sottigliezza verticale.
E tu, non hai piacere di seguirmi?
Di diventare un uomo, o di provare
a esserlo di più?
Nel mio messaggio, l’anima si affina,
cerca le vie per crescere, si tempra,
sfociando nell’immagine sorgiva
di un puro, interminabile fluire.
Si alza come nell’Infinito la voce del vento. Ed è possibile allora fidarsi del mondo, delle creature che lo abitano. La confusione si disperde, il verso trova un nuovo slancio. Da bambino, in campagna, mio padre mi diceva di “fare andare gli occhi”: non più frenati dai palazzi nelle strade della città, potevano andare lontano. Allo stesso modo, dopo la sconfitta dell’inizio, Morasso ritrova la misura spalancata (che prende il ritmo dell’endecasillabo, attorno a cui costruisce i versi), una nuova possibilità per gli occhi. Si insinua una voce, estranea, segnalata dal corsivo, che vorrebbe ribaltare la prospettiva, convincere ad arrendersi, ad accettare il fallimento. Si sente puzza di slogan. L’io resiste, fedele alla vita, non vuole arrendersi a un esilio: «Non so. Mi esercito. Mi sporgo». La vera soluzione è affondare gli occhi nella realtà, sporgersi dalla finestra, scoprire la screziatura del mondo (la parola marcata di Gerard Manley Hopkins), puntare non a ciò che è “alto” ma a ciò che è “lontano”. Gli occhi devono andare lontano, bisogna farli andare.
Giorni scorati. Ama il caduco
e non il trascendente, mi si dice.
O anzi, addirittura, sii felice
di cadere. Non so. Mi esercito. Mi sporgo
alla finestra come da un esilio.
Mentre gli uccelli impazzano,
screziano d’ali l’aria nel via vai
e a me viene la voglia d’inseguirli,
simile a un raptus, a un sogno d’aeroplano,
a un gorgo spirituale cui m’affido
con tutti i sensi tesi verso l’alto,
non perché è in alto ma perché è lontano.
Solo in poesia coincidono così gli opposti, in espressioni fulminanti e prodigiose che moltiplicano le possibilità di significazione. Accade anche in un successivo componimento di questa prima sezione, in cui il verso ripetuto, mentre dice di risalire, al contrario scende, si inabissa, e la finitezza della terra per un attimo sfiora una fecondità senza fine. Un’obbedienza a ciò che è scritto nel sangue, la legge micidiale che ci portiamo dentro.
Internandomi
salgo
salgo
salgo.
Ogni passo
vorrei fosse una svolta:
il centro è il Bene,
e il Bene
sta nell’alto esattamente com’è appeso
al filo della legge, micidiale, del mio sangue.
Come il frutto di una semina
terrena, senza fine.
Morasso vuole cedere, come scrive in un’altra poesia, al bene di vivere. Non è appena l’inversione di polarità che l’autore imprime all’evidentissima sporgenza montaliana, ma tutta la scena che la inquadra assume una direzione nuova: «Spesso / mi è capitato di incontrare / il bene di vivere»: il soggetto adesso ha ruolo di complemento, e il verbo assume forma impersonale, distendendosi in una struttura fraseologica. L’evento adesso viene còlto nel suo farsi incontro, indipendente e gratuito. Questa rinnovata disponibilità al mondo dà risarcimento, e fa esclamare «tutto / il visibile s’intreccia nell’ordito / della vita, niente non va» o, più avanti, «le cose belle danno gioia sempre»… terso endecasillabo di parole sorelle, legate tra loro da una fitta tessitura di vocali, in ritmo serrato e al contempo disteso. Le cose chiedono di essere dette, e c’è chi è chiamato a cogliere questa responsabilità. Non è un’acquisizione definitiva, ma drammatica, seguendo Luzi e Caproni. C’è spazio per la fatica e il ripensamento («Potessi smettere di credere al mondo […] Potessi / girarmi dall’altro lato del qui / e addormentarmi, fluttuando / nel centro buio della notte… ») e per il sogno oscuro, che porta cancellazione. Vengono meno le forze, ma sono ancora possibili la musica e la meraviglia, a cui ci si può abbandonare con fiducia: «Principessa, desiderio, / fiamma indomabile e mistero», «Luce, però, tu non abbandonarmi / al mio sgomento: avvicinami.».
Due ultime poesie, per concludere questa lettura di Geopatia, che sanno commuovere: il compito dei poeti, il mondo che si fa spazio nel loro assenso, il mondo che si fa incontro e si offre alle nostre parole.
Se la smettessi di scrivere poesie
diventerei un ostaggio del pensiero
che tende a far del Tutto una materia
per comunicare: il reservoir
di uno sproloquio cosmico, infinito.
Se all’improvviso, in un sentiero di campagna,
dietro a una curva mi apparisse un sorbo
forse neanche me ne accorgerei,
e il sorbo rimarrebbe lì a guardarmi
dalla compressa densità di un cosmo
chiuso in sé, anch’esso in viaggio, come me,
meno terragno, chiamato ad evocarne la bellezza
in qualche frase esatta, solidale.
***
per Mario Benedetti
Dico, un
amico che è lontano. Uno che
poeta lo è stato per davvero –
uno che anche adesso lo è,
e lo resta per sempre.
Comprendimi. Non intendo
un cembalo squillante
come tanti, ma un uomo
simile a una foglia
quando il vento l’incalza,
un essere che trema
perché è vivo,
e quando trema e si raccoglie
parla, perché è bello –
perché, fra noi, chi deve farlo, fa così.
Una voce molto interessante.