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Dogpatch

di Elizabeth McKenzie (traduzione di Michela Martini)

 

 

 

 

 

 

 

 

In quegli anni passavo da un ufficio all’altro per sostituire impiegati in malattia, in congedo di maternità, con emergenze familiari o che semplicemente avevano detto “Mi licenzio” e se ne erano andati. Ero veloce alla tastiera del computer e imparavo facilmente senza bisogno di molte ore di formazione. Come sostituta mi feci un’ottima reputazione nel raggio di tre isolati nel centro di San Francisco negli anni 90’. Uno di questi pullulava di piccole imprese e organizzazioni non profit, un altro di uffici medici e l’ultimo di uffici legali. Prima che me ne rendessi conto, non avevo più ore libere, quasi che tutti stessero pianificando le loro crisi familiari e gravidanze in base ai buchi del mio calendario.
Non direi mai niente di così presuntuoso se si trattasse di qualcosa che m’importava davvero; mi sentirei troppo vulnerabile e superstiziosa. Ma se ripenso a quei giorni, se parliamo di competenze di base in ufficio, non vedo motivo per non vantarmi.
A quei tempi ero single; avevo avuto qualche relazione sentimentale e non avevo urgenza di iniziarne una nuova. Mi piaceva tenermi impegnata con il lavoro, così non dovevo pianificare il tempo libero. Avevo un contratto d’affitto mensile per una stanza a North Beach; a volte saltavo la cena sostituendola con qualche cocktail e ignoravo le telefonate dei miei genitori fuori di testa. Ero giovane.
Al lavoro avevo trasformato la mia capacità organizzativa in un’arte. Non ero pignola in nessun altro ambito e quindi rimasi sorpresa quando i colleghi cominciarono a chiedermi di rivedere il loro lavoro, come se io fossi la pedanteria fatta persona. A volte sentivo di dovermi ribellare a questa reputazione per non passare per una che si fissava sulle piccolezze. Così, per esempio, quando uscivo con gente che avevo incontrato al lavoro, bevevo un po’ più del dovuto, lasciandomi dietro una scia di confusione con la speranza di crearmi delle amicizie autentiche. E sul lavoro non c’erano ripercussioni. Andavo d’accordo con gli impiegati interinali dell’agenzia che lavoravano per risparmiare i soldi per i loro viaggi in Tailandia o per altri obiettivi importanti. Ero molto richiesta. A volte l’agenzia mi toglieva addirittura un incarico per darmene uno con un cliente più importante.
Forse tutto cominciò con Eleanor, una delle addette al coordinamento del personale a TempRight. Era stranamente entusiasta nei miei confronti.
“Cara, hai diverse opportunità per la prossima settimana”, solitamente esordiva così. “Potresti andare a fare una sostituzione da Curtis per due settimane, la ragazza del front office si sposa e se ne va in luna di miele, e loro pagano più degli altri. Oppure potresti farti un mese da Shoreline, l’azienda specializzata nelle banche dati. Ti era piaciuto l’altra volta. Oppure, vediamo, oggi è arrivata una nuova richiesta da Haarton Medical, a questo punto ci faranno sapere giorno per giorno. Ma avere tutti quei bei medici attorno! Quale scegli?”.
C’era una cosa che m’infastidiva. Avevo l’impressione che Eleanor, avendomi vista salire di grado, pensasse che io avessi pianificato di lavorare per TempRight a tempo indeterminato, come se fosse lo scopo della mia vita. D’altra parte i miei obiettivi erano molto vaghi a quel punto. Fare toccate e fughe era diventata la mia specialità.
Un giorno Eleanor mi chiamò per dirmi di un nuovo cliente con sede nel quartiere di San Francisco noto come Dogpatch, una zona industriale a sud di Market Street dove l’agenzia aveva delle mire di espansione. Disse che TempRight voleva mandare me come loro ambasciatrice. Poteva trattarsi di una svolta decisiva per l’azienda. Di certo avrei fatto una bella impressione… come se io mi preoccupassi del buon nome dell’agenzia e volessi addirittura darmi da fare per promuoverla! Ero contenta che TempRight mi stimasse, ma che razza di posto era se consideravano me la loro arma segreta? E avrei dovuto anche accollarmi i loro problemi? Ma non era proprio quello il punto di fare la freelance: essere libera da grane di questo genere?
L’azienda in questione si chiamava Abernathy e produceva lacche e altri rivestimenti. Niente di emozionante. Un mese forse era anche troppo, ma accettai.

***

Il primo giorno di lavoro arrivai in ufficio con largo anticipo, essendo partita presto da casa con i mezzi pubblici perché non conoscevo questa parte squallida e abbandonata della città. La zona era disseminata di lattine e cartacce e, fedele al suo nome di Dogpatch, di cani randagi che annusavano i marciapiedi e frugavano tra l’immondizia in cerca di cibo in uno stato di perfetto distacco. Prima di arrivare all’indirizzo che cercavo, ossia a un edificio in blocchi di cemento adiacente a un magazzino, in successione oltrepassai un vecchio parcheggio coperto, un’officina rumorosa, un bar chiamato La grotta e un centro di duplicazione chiavi. L’ufficio aveva un portone di vetro e una reception ben visibile dalla strada. Quando entrai, mi presentai alla giovane donna seduta allo sportello. Aveva la pelle chiara e una peluria evidente sulle guance. Disse che il suo nome era Melody e questo era un giorno speciale per lei perché Abernathy le aveva dato un posto fisso e un ufficio tutto suo da qualche parte sul retro. A quel punto, arrivò una donna un po’ più avanti negli anni. Mi colpì molto con i suoi capelli scuri ben acconciati, la gonna color smeraldo, la camicetta bianca, un filo di perle, il rossetto rosso, i collant di nylon e le scarpe nere con il tacco. Disse: “Jan Wyatt?  Sono la signora Kennedy. Le chiedo di sedersi, per favore. Mi complimento con Lei per il suo entusiasmo, ma devo chiederle di aspettare.”
Entusiasmo? Che ridere! Mi divertiva l’idea di incoraggiare l’impressione che davo regolarmente in tutti gli uffici. “Certo”, risposi educatamente.
Dopo aver raccolto le sue cose, Melody fece scivolare la sua sedia sotto la scrivania. “Buona fortuna”, mi disse allegramente, e io risposi “Ci vediamo”. Entrarono in un corridoio e poi udii una porta grande e pesante richiudersi dietro di loro.
La reception non era molto interessante, con l’eccezione degli oggetti laccati appesi sul muro dietro alla scrivania: vassoi di legno, maschere e sculture, probabilmente provenienti da diverse parti del mondo. C’era anche una placcanon contenente coleotteri e altri insetti immortalati in manti lucidi. Forse l’articolo più singolare era una rosa rossa, legata a un gancio con un filo invisibile. Era levigata e lucente come vetro, ma quando mi avvicinai, vidi che c’erano i segni di scavo fatti da qualche insetto sul suo lungo stelo verde. Il che mi portò alla sorprendente conclusione che doveva trattarsi di un fiore vero, sospeso nel tempo grazie alla magia dei sigillanti.
Sospettavo che non sarei rimasta a lungo in quel posto. Cominciai a pensare a una scusa per Eleanor, ma poi sentii la porta che si apriva e richiudeva. La signora Kennedy ritornò da me di ottimo umore, come se l’aver scortato Melody verso il luogo che segnava la sua promozione l’avesse ingolfata di una sorta di estasi amministrativa. Quasi senza fiato disse: “Benvenuta ad Abernathy, una delle maggiori aziende produttrici di sigillanti della West Coast! Signorina Wyatt, io lavoro qui da quasi trent’anni. L’azienda impiega oltre cento dipendenti a tempo pieno e anche molti di loro sono qui da parecchio. Lei si occuperà della reception dove risponderà al telefono, smisterà gli ordini, inserirà dati nel computer e si incaricherà di vari lavori di dattilografia. La Sua agenzia ci ha detto che Lei è una delle migliori.”
“Grazie”, dissi io, arrossendo più per l’assurdità del complimento che per il complimento stesso.
Mentre la signora Kennedy descriveva altri aspetti dell’azienda e del mio lavoro, io l’ascoltavo sorpresa dalla sua insolita compostezza e dizione formale. Sembrava una che avrebbe dovuto ospitare cene eleganti a Washington, piuttosto che nascondersi in questo ufficio insulso in una zona malfamata. La ascoltai come se le istruzioni che mi dava fossero una questione di sicurezza nazionale.
L’iniziazione includeva un breve tour del magazzino. La signora Kennedy mi condusse nel corridoio ed estrasse un mazzo di chiavi per aprire la porta che prima avevo sentito chiudersi. Rimasi sbalordita dall’intensità dei fumi che ci circondavano quando entrammo nella fabbrica, che era decisamente più fredda dell’ufficio e immersa in una luce grigia che scendeva dai lucernari sporchi. Nonostante la temperatura, c’erano ovunque segnali di pericolo che allertavano sulle sostanze infiammabili. Macchine gigantesche ronzavano e sferragliavano rumorosamente; nastri trasportatori vibravano spostando i barattoli di metallo sotto enormi cilindri con imbuto, dove venivano riempiti e chiusi da bracci meccanici, etichettati dalle etichettatrici, raggruppati, messi su bancali e poi impilati dai carrelli elevatori in mucchi torreggianti vicino alle banchine di carico sul retro. Ventilatori imponenti ruotavano sul soffitto, ma i fumi riempivano l’aria. Attorno a me c’erano persone di età e sesso indefiniti che indossavano mascherine, cuffie e camici bianchi.
Mentre seguivo la signora Kennedy per il magazzino, di sfuggita le chiesi dove si trovava il nuovo ufficio di Melody. Lei si voltò e disse: “Si trova in un’altra sede. Mi dispiace, ma non potrà parlarle.”
“Va bene”, dissi io, mentre notavo che l’avevo fatta mettere sulla difensiva. Forse aveva pensato che io la criticassi per non aver organizzato un incontro tra me e Melody, che avrebbe potuto addestrarmi come era uso comune presso altri uffici. Forse avevo frainteso Melody quando aveva parlato del suo nuovo ufficio. “Non c’è problema”, rassicurai la signora Kennedy.
Ritornammo all’oasi della reception. Che posto miserabile là dietro, pensai tra me e me. Chissà come faranno gli impiegati a resistere? Presi posto alla scrivania, ricevetti una lista di nuovi clienti da inserire in un database e mi misi all’opera. Da lì non sentivo il frastuono del magazzino.

***

Quel mese mi svegliai ogni mattina contenta di avere un posto in cui andare e altrettanto contenta che presto tutto sarebbe finito. Non sono sicura di poter spiegare lo strano rapporto che avevo con questo tipo di lavoro. Ogni giorno ero consapevole di essere sul precipizio di dover prendere una decisione. In qualsiasi momento, se non fossero stati contenti di quello che facevo, avrei potuto chiedere un lavoro diverso a Eleanor. Se lei avesse detto di no, avrei abbandonato TempRight e mi sarei rivolta a un’altra agenzia. Non ero di proprietà di nessuno ed era proprio quello che volevo. Allo stesso tempo, però, mi piaceva essere desiderata e sapevo che questa era la mia debolezza. Era facile manipolarmi facendomi sentire necessaria. Questo dissidio interiore era una costante, ma in qualche modo mi aiutò a tenermi in riga.
La domanda e l’offerta di sigillanti divenne il leitmotiv delle mie giornate. Per movimentarle un po’ mi concentravo su dettagli marginali nella corrispondenza e nelle polizze di carico, come gli indirizzi ai quali i prodotti venivano spediti: Atlanta, Georgia. Oak Lawn, Illinois. Bisbee, Arizona. Binghamton, New York. Toledo, Ohio. Hammond, Louisiana. Crofton, Maryland. Mi immaginavo le varie città e poi sceglievo quella in cui mi sarei trasferita nel caso qualcuno dicesse che dovevo farlo. (Oak Lawn mi ispirava abbastanza, ma un po’ mi faceva anche pensare a un cimitero). Forse era colpa dei fumi tossici.
Infatti, di tanto in tanto, mi sentivo stordita, e mi chiedevo se i vapori stessero penetrando nell’ufficio e avessero qualche effetto su di me, ma poi la sensazione passava e riprendevo a lavorare. Le mie dita volavano sulla tastiera del computer. A volte mettevo alla prova le mie capacità: memorizzavo una riga che avrei dovuto digitare, poi la scrivevo senza guardare e infine controllavo per vedere se avevo fatto un casino. In genere ci azzeccavo. Altre volte, invece, producevo delle stupidaggini che chiamavo “la lingua dei tasti”. Tutto diventava completamente incomprensibile se spostavo le dita a destra o a sinistra di un solo tasto: YJsmld upi gpt upit trvrmy ptfrt pg zkimr…
I grossisti che si rifornivano da noi regolarmente impararono il mio nome e cancellarono quello di Melody dalle loro rubriche. Al telefono ci scambiavamo vari convenevoli per dare un’anima a transazioni altrimenti molto aride. All’ora di pranzo, andavo dal food truck all’angolo e ordinavo tre tacos con carne di maiale. La prima settimana gironzolai per il magazzino per vedere se tra quelli che respiravano i fumi tutto il giorno alcuni mangiassero insieme all’aperto, ma non era quel tipo di ufficio. Così, iniziai a portarmi dietro un romanzo da leggere o le parole incrociate e a mangiare alla mia scrivania.
La signora Kennedy mi faceva sempre i complimenti per una cosa o per l’altra: un giorno era la sciarpa, un’altra volta la gonna. Una volta mi tirò una frecciatina: “Naturalmente per una giovane non è poi così difficile essere attraente, ma ci vuole una vita intera di scelte intelligenti per esserlo durante la mezza età.” E in effetti sembrava avere molta cura del suo aspetto e si vestiva come Jackie Kennedy con completi in stile Coco Chanel o Oleg Cassini. Anche la sua pettinatura me la ricordava. Pensai che il farsi bella per andare in ufficio per lei fosse un modo per combattere la noia. Altrimenti, come avrebbe fatto a sopportarlo? Trent’anni in quel posto – in realtà in qualunque posto – a gestire l’ufficio e le buste paga?
Mi dispiace dirlo, ma la cosa più strana era che la signora Kennedy sembrava essere sempre circondata da un odore sgradevole. Quando parlava, un lezzo acre e di muffa sembrava emanare non solo dalla sua bocca, ma dal suo intero essere. Mi ricordava qualcosa e, ogni volta che lo sentivo, cercavo di capire quale fosse l’origine di quel fetore mortifero. Un giorno ebbi un’illuminazione: ripensai ad alcune scatole piene di cose mie che avevo lasciato dai miei genitori; a un certo punto si erano bagnate a causa di un’infiltrazione, e quando mi presentai per riprenderle tutto il loro contenuto era stato devastato dalla muffa. Ecco, nonostante la sua eleganza e la sua bellezza, le esalazioni della signora puzzavano di marciume. Mi chiesi se potesse essere affetta da qualche malattia non diagnosticata, un’infermità che divorava le sue viscere. O forse era solo la stagnazione causata da trent’anni passati nello stesso posto?

***

Un giorno arrivò il proprietario dell’azienda, il signor John R. Connelly. Avrà avuto un’ottantina d’anni, con capelli bianco ghiaccio e occhi azzurri ancora più freddi, denti bianchissimi che – nonostante la sua età – sembravano ancora in perfetta forma. Senza dubbio sarà stato un bell’uomo in gioventù e probabilmente si considerava ancora tale. Mi fece un po’ di domande sulle mie origini e sulla professione dei miei genitori, chiamandoli “i tuoi” e facendomi gelare il sangue. Io diedi una risposta vaga ma educata.
Si vedeva che era intenzionato a educarmi, con i suoi modi di anziano saggio.
“Vediamo, signorina, qual è la funzione di un sigillante? Sì, proteggere e preservare. In sostanza ho dedicato a questo i miei anni migliori. Quando ero giovane lavorare in banca era un’attività per galantuomini. Noi abbiamo protetto giovani famiglie e le abbiamo aiutate a diventare indipendenti finanziariamente. Poi arrivò la guerra. Quando finì e pensai a ciò che avevo visto in Europa, mi resi conto di aver assistito alla distruzione elevata a una forma d’arte.” Continuò dicendo che le cose cambiarono nel settore bancario dopo il conflitto. Divenne tutta una questione di crescita e profitto sregolati. Così, quando ebbe l’opportunità di unirsi alla comunità dei produttori di solventi, grazie alla famiglia della sua cara consorte ormai defunta, la accettò con entusiasmo e una visione ampia: la missione dell’azienda lo intrigava. Sigillanti, lucidanti, lacche: proteggere e preservare.
Poi mi chiese di indovinare chi l’aveva ispirato di più nel corso della sua vita, ma io non ne avevo idea. Il tono della sua voce cambiò e disse: “‘I tempi richiedono invenzione, innovazione, immaginazione, decisione. Chiedo a ciascuno di voi di diventare pionieri di questa Nuova frontiera.’ Sa di chi sono queste parole?”
Scossi la testa.
“È un peccato. Sono di John Fitzgerald Kennedy. Una volta incontrai lui e sua moglie. Erano il ritratto perfetto di gioventù, idealismo e bellezza.”
Ebbi un conato di vomito interiore. I miei genitori, che erano dei malcontenti di origini irlandesi, in qualche modo erano riusciti a fare spazio nel loro innato cinismo per il culto dei Kennedy. Per tutta la vita dovetti ascoltare il ritornello Se Kennedy fosse sopravvissuto, tutto sarebbe stato diverso, una scusa per la loro abitudine all’alcolismo, al gioco d’azzardo e ad altri vizi.
“Un momento breve e luminoso”, continuò.
“Ora capisco perché la signora Kennedy sia stata assunta qui”, sbottai io stupidamente.
“Che cosa?” disse lui, appoggiandosi a me.
“La signora Kennedy”, dissi io. “Il suo nome.”
Il suo sorriso era appena accennato, non ero sicura che mi avesse sentito. Mi disse che gli sembravo una brava ragazza ed ebbe la faccia tosta di farmi l’occhiolino mentre lasciava la stanza. Perfino in vista dei novant’anni, un uomo di successo dava per scontato che il mondo e tutto ciò che conteneva fossero a sua disposizione.
Più tardi quel giorno, la signora Kennedy mi disse che gli avevo fatto una buona impressione e allora, per deviare quel complimento superficiale, io ribattei: “Di certo ha la passione per i Kennedy.”
“Sì, è vero.”
“Pensa di essere stata assunta grazie al suo cognome?”
Era una provocazione ridicola, ma intanto i miei giorni in quel posto erano contati.
“Non mi chiamavo Kennedy quando sono stata assunta,” replicò.
“Oh, naturalmente, è il suo cognome da sposata.” A quel punto avrei voluto chiederle se avesse sposato un uomo con quel cognome per far piacere al signor Connelly, ma mi trattenni.

***

Gli anni ’90 furono meravigliosi e terribili per San Francisco. Persi molti amici. D’altra parte, avevo perso di vista così tanta gente che è difficile dire esattamente quanti ne fossero scomparsi per davvero. Il boom tecnologico non c’era ancora stato e l’aspetto della città era ancora strano e pittoresco. Non sono sicura che fossimo davvero in grado di apprezzare i prezzi bassi dei monolocali e il fatto che anche gente non carrierista come me potesse avere ancora un posto in città. Una sera, nel mio locale preferito, raccontai ai miei amici degli strani individui che lavoravano ad Abernathy, ma probabilmente nessuno mi sentì a causa del frastuono.
Il giorno prima della fine del mio contratto, la signora Kennedy fece la sua mossa. “Vieni nel mio ufficio, Jan. È ora di fare una chiacchierata.”
Naturalmente sapevo cosa intendeva, o almeno pensavo di saperlo. Mi avrebbe chiesto se volessi un posto fisso con loro. Ma la cosa non mi interessava minimamente. Sarebbe stato facile dirle che volevo rimanere con TempRight per lealtà, senza dover parlare di quello che davvero pensavo del loro lavoro mortifero.
La seguii lungo il corridoio fino al suo ufficio. Era la prima volta ci entravo. Era un ambiente scialbo, soprattutto considerando la durata della sua permanenza nell’azienda. Aveva una scrivania standard con sopra una pinzatrice, un grosso computer del tipo che si usava allora, una stampante, un vassoio per la posta in arrivo, una tazza che fungeva da portapenne. C’era una pianta da interni presso la finestra, una bromelia con foglie grandi come teste di coccodrillo. E c’era una sedia con sopra impilate riviste di settore e un tavolino su cui si trovava una piccola collezione di ditali, disposti in cerchio su un centrino.
Rimandai l’inevitabile chiedendole informazioni sul signor Connelly. A quei tempi, non si poteva semplicemente cercare qualcuno su Internet.
Le si illuminarono gli occhi. Lo descrisse come un uomo che veniva da un’antica famiglia di banchieri del Midwest, era stato un campione di football negli anni del college in Wisconsin, dove si era laureato in economia. Aveva trovato moglie nei quartieri alti di San Francisco ed era entrato nel settore di vernici e lacche con il suocero subito dopo la guerra, quando il mercato immobiliare in California era in piena espansione. Avevano accumulato una fortuna, ma John R. Connelly era più di un uomo d’affari, mi assicurò. Era un leader, un rotariano, un conservazionista, un anticonformista.
Ebbi la sensazione che fosse stata innamorata di lui, forse lo era ancora.
Dopo di che, disse: “Jan, fammi arrivare al punto. Il tuo contratto finisce domani, ma non può finire così. Tu hai tutto ciò che il signor Connelly – ed io – consideriamo essenziale per garantire il successo di questa azienda. Sono sicura che mi capisci.”
Meglio tagliare la testa al toro il più velocemente possibile. Espressi la mia gratitudine, ma spiegai che ero soddisfatta come impiegata di TempRight.
“Ma l’agenzia ci ha dato il permesso di offrirti un posto fisso. Naturalmente riceveranno una provvigione. Non sapevi che sono anche cacciatori di teste?”
Il suo volto, per quanto più composto che mai, era così pieno di falsità che difficilmente riuscii a nascondere il disprezzo che provavo. Risposi: “Mi spiace, ma non c’è modo che Eleanor si sia accordata su una cosa del genere senza prima chiedere a me. Chiamiamola adesso, chiediamoglielo.”
Mise la mano sul telefono, ma a quel punto mi sentii travolgere da un forte senso di vertigine e rimasi seduta. I fumi delle vernici erano più intensi nel suo ufficio che nel mio.
“Devo uscire di qui”, dissi.
“Signorina Wyatt, per favore”, disse lei con voce lenta e ferma. “Non c’è motivo di litigare. Questa è una grande opportunità per una nella Sua situazione. Non è facile passare da una compagnia all’altra, lo so bene…”
Un attimo dopo, ero di nuovo alla mia scrivania. Mi sentii come se fossi uscita da un banco di nebbia. A poco a poco rimisi a fuoco la realtà. Guardai l’orologio e mi resi conto che era passata quasi un’ora. L’orologio segnava qualche minuto dopo le cinque. Rabbrividii e indossai il cappotto. Cosa era successo esattamente?
Mentre camminavo sul marciapiede mi fermai in una desolante cabina telefonica. Puzzava di urina e l’apparecchio era incrostato di chewing gum. Una borsa unta era stata infilata tra il telefono e la piattaforma di metallo sottostante, e un elenco telefonico penzolava da un cavo sporco di un liquido rosso e appiccicoso come ketchup. Chiamai Eleanor e le raccontai la vicenda, chiedendole se davvero avesse fatto un’offerta ad Abernathy per piazzarmi da loro.
M’immaginavo mi porgesse delle scuse, ma mi sbagliavo. Eleanor mi aveva tradita. Mi disse: “Cara, la signora Kennedy mi ha detto che ti sei trovata bene, che sembravi a tuo agio. Mi dispiace se ho capito male, ma dobbiamo cercare di accontentare questa gente. Vogliamo restare in affari con loro. Per favore, domani ritorna in ufficio a completare il tuo incarico. Okay? Sei la migliore, Jan!”.
Uscii dalla cabina. Fino ad ora mi ero fatta l’idea che Eleanor volesse tenermi per sempre con TempRight. Non avevo mai immaginato che potesse cedermi a qualcun altro in questa maniera. Pensavo che stesse dalla mia parte, quasi come una mentore. Ma che stupida ero stata! Mi ero proprio illusa. Un’altra fregatura. Mi sentii rifiutata, ma anche in trappola. Che poi era anche come mi sentivo in genere, in un modo o nell’altro.

***

E così arrivò il mio ultimo giorno ad Abernathy. Mi presentai in pessima forma. Ero andata a letto tardi, dopo aver bevuto troppo e, in serata, avevo quasi fatto l’errore di chiamare i miei in un momento di debolezza.
Alla mia scrivania trovai un mazzo di rose e una busta con sopra il mio nome. Mi tolsi il cappotto e annusai le rose. Mentre aprivo la busta, mi sentii invadere da una sensazione piacevole. Mi sembrò quasi normale che il biglietto dicesse: Siamo contenti di averti con noi, Jan. Tu sei parte del successo di Abernathy.
Mi sedetti e risi. Non ero più arrabbiata. Provai a mettere insieme i pezzi degli strani eventi che avevano portato a questo malinteso, ma allo stesso tempo mi sentii spiazzata, pronta ad arrendermi. In fondo che importava, ora che mi apprestavo a strisciare in questo posto giorno dopo giorno? Quando la signora Kennedy entrò nella stanza, sembrò più smagliante e più Jackie che mai. Mi diede un abbraccio di circostanza, io trattenni il respiro e sentii il suo scheletro sotto il tailleur rosa. Disse: “Prendi le tue cose, Jan. Vieni con me.”
Vittima della mia insicurezza, obbedii. Dopo tutto, nella religione di TempRight, stavo finalmente raggiungendo uno stato simile al nirvana. Presi la borsetta e il cappotto e le andai dietro. Ritornammo nel magazzino e la seguii a distanza ravvicinata mentre ci aggiravamo tra i macchinari e i lavoratori vestiti di bianco, finché arrivammo dietro a una pila di barili in un angolo lontano. Dietro c’era una porta della quale lei aveva le chiavi. Mi fece entrare per prima.
Si trattava di una stanza piccola e soffocante con finestre dalle tende pesanti e due piccole poltrone. Le pareti e varie porte erano state dipinte di un rosso scuro e tetro. Sembrava la sala d’attesa di un’impresa di pompe funebri.
“Dove siamo?”, chiesi io.
“Siediti, per favore,” disse lei. “Questa stanza ha un posto molto speciale nella storia di Abernathy.”
Poi procedette ad armeggiare con qualcosa sul bancone, forse una teiera, mentre io – tra il divertito e l’indifferente – aspettavo di essere vezzeggiata. Sul muro c’era un grande ritratto del signor Connelly, giovane e attraente, un mito in divenire.
La signora Kennedy si avvicinò e prese l’altra sedia. Aveva in mano una macchina fotografica. “Jan, stai diventando parte di una grande tradizione qui ad Abernathy. Dovresti esserne fiera. Non offriamo la permanenza con leggerezza. Al contrario. Solo a coloro che hanno le qualità giuste e la grazia naturale che il signor Connelly considera un valore eterno. Ti chiedo di ripetere con me alcune parole che lui ha sempre trovato di ispirazione e che ancora gli fanno da guida. Sei pronta?”
“Devo esserlo”, risposi, non riconoscendo la mia stessa voce.
Saremo come una città sulla montagna. Vai avanti, dillo”, disse lei.
“Saremo come una città sulla montagna”, ripetei io, mentre lei sollevava la macchina fotografica e mi accecava con il flash.
“Gli occhi di tutti sono puntati su di noi”, intonò la signora Kennedy.
“Gli occhi di tutti sono puntati su di noi”.
“Per favore, ripetilo”, mi disse, mentre scattava altre fotografie.
“Saremo come una città sulla montagna”, dissi. “Gli occhi di tutti sono su di noi”.
“Molto bene. Ancora.”
Di nuovo ebbi un senso di vertigine. “Potrei prendere un po’ d’aria fresca?”, le chiesi.
“Jan, questa è una cosa che le nostre ragazze devono interiorizzare prima di fare l’ultimo passo. È un discorso toccante di John Winthrop, uno dei primi coloni del Massachusetts che vide il potenziale del nostro giovane paese di diventare un faro di speranza per il mondo, una cosa che il signor Connelly ha sempre voluto preservare. Ancora una volta.”
“Noi siamo…”, sbuffai, sentendomi un po’ agitata “… una città in un posto per cani, gli occhi di tutti i cani sono puntati su di noi.”
Ignorò la mia battutina, ma la sua voce cambiò. “Va bene, vieni con me.”
Si alzò, aprì un’altra porta e mi fece entrare. C’era uno spazio sulla destra che sembrava un ibrido tra un negozio di costumi e un laboratorio. “Avanti”, mi disse la signora Kennedy, ma in quei pochi istanti notai diverse cose strane: abiti da donna che pendevano da ganci, parrucche, scaffali pieni di scarpe, un grande tavolo di acciaio inossidabile e, lo giuro, un banco di lavoro con sopra coltelli, altri strumenti e fluidi vari. Vidi persino dei ditali e un grosso rocchetto di filo spesso rosa.
“Di qua, per favore”, disse lei mentre entravamo in una stanza buia e fredda. Chiuse la porta dietro di noi e accese la luce, al che mi si presentò uno degli spettacoli più insoliti che avessi mai visto. Per prima cosa vidi vetrate in grande quantità, come quelle delle vetrine dei musei di storia naturale che contengono creature abilmente imbalsamate e posizionate nei loro habitat. Ma qui dietro al vetro c’erano giovani donne agghindate per bene nell’ambiente di un ufficio, impegnate dietro a scrivanie, accanto a schedari o nell’atto di rispondere al telefono. Indossavano gonne a quadri, twin set e mocassini. Sembravano vere da tanto erano riprodotte nei minimi dettagli. Non avevano l’uniformità tipica dei manichini. Era uno spettacolo macabro ma anche ridicolo. Che tipo di ideale perverso doveva rappresentare? Un altro riferimento dell’azienda all’innocenza perduta della nazione, il feticismo di un pervertito o tutti e due? Ci saranno state almeno venti figure di ragazza in mostra, con gli occhi scintillanti e la pelle lucida e radiosa come la rosa nella reception.
La signora Kennedy disse: “Immagino che tu sia molto impressionata.”
“Cosa vi fa pensare che questa sia una buona idea?”, dissi io senza riflettere, chiedendomi quale delle mie molte scelte sbagliate mi avesse portata in questa situazione grottesca. Mi sentii imbarazzata, la testimone di un segreto indecente.
“Il signor Connelly ha iniziato la collezione anni fa, consapevole dello sforzo che ci sarebbe voluto per trattenere le migliori e le più capaci, e per preservare i suoi ideali contro un futuro incerto. Ma io ho avuto un ruolo importante in tutto ciò. Tra queste giovani ci sono delle privilegiate, che hanno studiato nelle scuole private, e quelle che sono state date in affido, le indesiderate. Quelle che sono passate di mano in mano come un fardello, che non sapevano più di chi fidarsi e si sono sentite deluse e tradite tra una fase e l’altra di relativa calma e di gentilezza occasionale da parte di sconosciuti.”
“Allora è questo che pensa di me?”
“Questo è il motivo per cui un posto fisso è un tale onore. Rappresenta la fine della sofferenza, della solitudine e di quell’assenza di proposito che ti tormenta mentre cerchi di capire che cosa ha in serbo per te la vita. Un posto fisso è davvero la cosa migliore per una come te, Jan. Sarai molto felice qui. Non ci saranno più preoccupazioni, tristezza o paura per te…”
Stavo guardando l’ultima figura nella vetrina, quella con il cardigan blu e la gonna a quadri in tartan Black Watch. Era Melody. Sussultai violentemente. Notai la consistenza della sua pelle sotto la patina lucida e i peli lanuginosi sulle sue guance.
“Non può farlo”, dissi io con voce rauca.
“Che cosa, Jan?”
Cominciai ad allontanarmi da lei e a cercare qualcosa che potessi usare per difendermi.
“Ricordati”, disse la signora Kennedy, “tu sei una giovane donna molto comune, ordinaria.”
Penso di aver urlato a quel punto.
“Cosa ti succede, Jan?”, mi chiese. “Sembra che tu non capisca. Jan? Torna qui. Torna qui!”.
Corsi verso la porta, mentre il tono della sua voce si alzava alle mie spalle. Uscii in fretta dalla funerea stanza rossa e raggiunsi la fabbrica. Ansimavo, avevo l’impressione di averla scampata per un soffio. Tuttavia, quando arrivai tra loro, senza disturbare nessuno, mi resi conto che gli operai e i macchinari erano impegnati in una danza complicata. Niente, neanche una donna ansimante e terrorizzata, in fuga da una stanza piena di segretarie imbalsamate, poteva fermarli. I camici bianchi degli operai erano immacolati. Le macchine procedevano a un ritmo costante, mentre la luce grigia dei lucernari gettava ombre fredde sul pavimento. I ventilatori sul soffitto ticchettavano, disperdendo i fumi dei solventi per tutto il magazzino. Un enorme tubo di scarico ruggente incombeva sullo spazio come una luna scura. Rimasi affascinata dalla perfetta fluidità del meccanismo e d’improvviso intuii la pace che si poteva ottenere nell’adattarvisi.
Mi voltai per vedere se la signora Kennedy mi avesse seguita, ma ero sola in compagnia di questi zelanti lavoratori. E visto che non mi aveva seguita, la mia fuga sembrò ridicola. Non era determinata ad aggiungermi alla loro collezione? Avevo calcolato male il suo impegno e il suo desiderio, davvero si stava arrendendo così facilmente? Ero ancora una volta così facile da rimpiazzare? A questo punto ero riuscita a padroneggiare il mio respiro e a trovare una fontanella, di cui bevvi l’acqua ghiacciata a grandi sorsi finché mi ritrovai con il palato congelato. Su una parete vicina era montato un orologio marcatempo. Ogni lavoratore aveva il proprio cartellino, sistemato in ordine alfabetico in una rastrelliera grigia e con i timbri che segnavano l’accumulo delle ore lavorative. Fui colpita dall’insidiosa semplicità della cosa. Mi spinsi oltre le varie porte, oltre la reception e finalmente arrivai in strada.
Avevo già usato la cabina telefonica nei paraggi. Avrei potuto entrarci dentro con tutta la potenziale libertà che avevo conquistato. Ero libera di chiamare chiunque, se avessi avuto qualcuno da chiamare. Ero libera di scegliere la mia prossima mossa, se ci fosse stato un posto in cui andare. Chi aveva bisogno di me adesso? La cagnolina randagia e arruffata che si aggirava per la strada? Come avrei potuto avvicinarla? “Vieni qui, cucciola”, chiamai. “Vieni qui. Sei proprio una brava ragazza. Sì, una brava ragazza, ecco cosa sei, vieni da me!”.

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L’ultimo romanzo della scrittrice americana Elizabeth McKenzie s’intitola The Dog of the North ed è stato pubblicato negli Stati Uniti nel 2023 da Penguin Press. Precedentemente McKenzie ha pubblicato, sempre con Penguin Press, The Portable Veblen, uscito in Italia per Marsilio con il titolo L’amore al tempo degli scoiattoli. Oltre a questi e ad altri tre libri, l’autrice ha firmato saggi e racconti per riviste come The New Yorker, The Atlantic Monthly, The Best American Nonrequired Reading e l’Pushcart Prize Anthology, ricevendo numerosi premi nel settore.

Michela Martini ha insegnato lingua e cultura italiana presso la Suffolk University, l’Indiana University, Cabrillo College e la University of California SC. Ha co-fondato e diretto la Dante Alighieri Society of Santa Cruz. Le sue traduzioni dall’inglese all’italiano includono poesie e racconti di autori quali Edoardo Sanguineti, Giorgio Caproni, Gabriella Leto, Patrizia Valduga, Rossana Campo e Emanuele Trevi. Sono apparse in numerose riviste e volumi antologici quali The Literary ReviewPoetry InternationalGradivaCatamaran Literary ReaderChicago Quarterly Review, Journal of Italian TranslationItalian Poetry Review e The FSG Book of 20th-Century Italian Poetry.

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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