Un bon élève
di Simone Redaelli
Sono sdraiato a letto e penso che le pale attaccate al soffitto che vorticano sopra i miei occhi d’un tratto potrebbero staccarsi e cadermi addosso, non ci avevo mai pensato prima ma oggi ci penso in continuazione, da qualche tempo è come se l’ordine stabilito della realtà avesse perso di consistenza e le cose, in principio coerenti con un sistema prevedibile di mondo, ora dovessero realizzarsi secondo dettami a me sconosciuti e invariabilmente insondabili.
Mentre espongo ad alta voce questa teoria dell’anima, non tanto per condividerla con qualcuno ma piuttosto per testarne la consistenza, voglio ancora credere che essa rappresenti solo un’ipotesi di lavoro, un modello semplificatorio e sperabilmente incapace di generalizzare una realtà. Ma ben presto qualcosa in me diviene sottile, quasi il mio eloquio si facesse scherno di questa ormai defunta reputazione di uomo ordinario.
Mi tiro a sedere, guardo fuori dalla finestra e tutto ciò che registro mi appare immancabilmente inutile: so che è insensato pensarci ma se potessi entrare nel cuore pulsante di tutto ciò che vedo, nei muri, negli alberi, nell’indole di questi esseri umani che procedono dentro le loro esistenze, insomma se potessi sentire come tutti gli altri elementi del mondo sentono, voglio credere che anche in loro troverei un sentimento di precarietà, di non necessità, di piatto incedere. Un sentimento di mancato abbandono, di rassegnata accettabilità.
Ma questa è una menzogna. Nulla nel mondo ha di queste sensazioni. Tutto continua a girare: gli esseri umani procedono indisturbati, gli alberi generano foglie, i muri continuano a reggersi.
Allora, provo a rieducare i miei pensieri, per un attimo mi convinco che è solo questione di intenzioni. D’altronde è proprio quello che mi diceva sempre la maestra d’italiano alla scuola primaria, nonostante io mi ostinassi ad avere ansia a fronte di qualsiasi prova di maturità o d’indipendenza che fossi chiamato a superare.
Diceva: L’angelo custode, sei l’angelo custode, lo dichiarava a chiare lettere e a voce alta, davanti a tutta la classe, davanti a tutti gli altri alunni, ed è un ricordo folgorante il fuoco aperto sopra i loro visi, visi compiaciuti e pieni di quella forma di superiorità così sincera che può provare solo il bambino ancora intoccato dalle correzioni del mondo.
La cattedra, il mio banco, la maestra. E io, a fianco. Sì, aveva ragione lei. É così che si cura l’ansia, è proprio così che si ristabilisce un ordine e s’annulla qualunque involontario capriccio dell’anima.
Ma oggi non funziona e ho la netta sensazione che se le pale si staccassero dal soffitto e mi crollassero addosso, capirei qualcosa che ancora mi sfugge ma che nondimeno è insito nel procedere cieco degli ingranaggi. Perché anche se ci riempiamo la bocca di senso e di grandi sogni, anche se abbracciamo a cuore aperto quest’epoca di speranze e di rinnovata autenticità, la vita dei comuni mortali si piega senza resistenze a un incedere naturale, nel quale l’ordinario è tutta la verità. E non ci sono terrori sepolti nell’inconscio, paure perdute o tormenti antichi. No, semplicemente le persone stanno bene.
Io invece ho voluto troppo e penso che se aprissi queste pale a martellate, se ne interrompessi innaturalmente il funzionamento, se sondassi dentro gli ingranaggi, dentro la meccanica di base, allora di certo troverei la spiegazione del loro movimento. Eppure, la vita non funziona così. No, non funziona così. Solo un bambino può pensare un’assurdità del genere. E io ho trentatré anni.
Ed è esattamente ciò a cui penso, proprio ora, mentre guardo le pale che girano, cioè penso alla mia età e a questa mia insegnante di francese, e penso che se mi dedicassi a vivere anziché a prendere appunti, se per una volta assecondassi quelle intuizioni che anticipano i passi concreti della vita, quelli giusti, quelli che gli esseri umani sentono naturalmente da sé, senza cercar spiegazioni, se solo la guardassi negli occhi e facessi esattamente quello che dovrei, allora la mia esistenza cambierebbe: potrei smettere di ripetermi ogni istante che sono vivo, e vivere e basta. Ma dal momento che il passo mi risulta inavvicinabile, mi lusingo dentro un’ipotesi di compimento, abbandonandomi alle leggerezze della mente. Perché è giunto il momento di dirlo: non avremo una vita insieme. No, non ce l’avremo.
E nonostante questa sentenza, il pensiero delle divaricazioni teoriche è talmente violento e costitutivo che mi basta a soppiantare ogni prassi concreta e a lasciarmi dire che sono un bravo studente, che ho fatto bene i compiti a casa, Ça marche bien, Simone!, e non posso negarlo, no, c’è qualcosa d’imperituro ed esatto, qualcosa di necessario, nel sentirmi dire che è tutto al proprio posto, nel vederla sorridere e annuire, nell’udire le sue parole, nel vagare sulle sue labbra, perché saremo una cosa sola. E lei mi vorrà bene.
Ma anche questa è un’illusione. Ci fosse stato un insegnante che m’avesse detto che avevo un talento, no, tutti a compiacersi del bon élève dal futuro irto d’intuizioni e prodigi, sì, bisogna pensare quando si educano i ragazzini, pensare, bisogna alimentare le uniche fiamme che cercano disperatamente di guadagnarsi una buona uscita. Tutto il resto è ciò che comunemente chiamiamo vita adulta. O letteratura.
Sì, è proprio così. Altrimenti si finisce per crescere degli ottimi teorici del mondo, gente buona a concepire visioni sulle più vaste correnti dell’universo, dedita alle interferenze alte del pensiero, all’esercizio fine della sublimazione, divinatori, mistici, uomini d’arte, di scienza, d’intelletto e d’acume, che finiranno per sentenziare sul mondo inorridendo alla sola idea di toccarlo.
È così che si prospera. Studiando.
C’è però un limite varcato il quale il mio cervello andrà in frantumi. È un limite senza nome, conturbante nel buio, che guardo dal basso verso l’alto come a una forma diversa e pericolante, dalla materia indicibile ma a tratti familiare, persino quotidiana.
Una coscienza nascosta dentro ai miei occhi.
Ed io e lei siamo a un battito di distanza. Sì, ci siamo quasi.
Allora cosa dovrei fare? Aspettare che venga giù? No, resterà lì dov’è. Come queste pale che non cessano di ancorarsi al soffitto. E girare.