Tommaso Ariemma: “per capire il mondo devi abbassare lo sguardo”
È da poco stato pubblicato, per Luiss University Press, I piedi del mondo Come le scarpe Nike hanno rivoluzionato l’immaginario globale del filosofo Tommaso Ariemma.
Ne ospito qui un estratto.
I.
Per capire il mondo devi abbassare lo sguardo
Nell’estate del 2001 migliaia di giovani sono a Genova per protestare contro una globalizzazione calata dall’alto, contro il Wto, la Banca Mondiale, il Fondo monetario internazionale, contro un mondo che stava cambiando radicalmente, e che in verità aveva già cominciato a cambiare da quando questi giovani erano solo dei ragazzini.
La protesta non era che uno degli ultimi atti di un movimento chiamato “il popolo di Seattle”, che da qualche decennio faceva sentire la propria voce contro lo strapotere delle multinazionali. Nessuno disse a quei giovani che erano arrivati tardi, che se la stavano prendendo con gli effetti – discutibili certamente, perversi in molti casi – e che non avevano mai messo bene a fuoco le cause.
Il movimento, attaccando i nuovi accordi commerciali, le deregolamentazioni e lo sfruttamento su scala mondiale aveva, inoltre, un’idea assai rozza del consumo, incapace di scorgervi “una fonte di trasformazione sociale non inferiore alla lotta”.[1]
Le merci che vengono consumate sono solo armi delle multinazionali, sono i loro prodotti. E se fosse invece l’inverso? Se le multinazionali non fossero altro che un risultato di una vera e propria esplosione culturale e sociale intorno a oggetti che erano stati capaci di riunire in sé una forza estetica e un’energia epica e rituale senza precedenti?
Opere senza autore, straordinari precipitati storici, questi oggetti andrebbero presi in esame come agenti di una insolita chimica all’interno di ciò che è stata chiamata “cultura di massa”.
L’idea del consumo che avevano i manifestanti era associata alla pura e semplice distruzione: la stessa idea di consumo dell’economia politica classica.[2]
Nella loro visione, i grandi marchi si sarebbero messi a produrre non più solo cose, ma immagini persuasive per indurre a consumare compulsivamente i loro prodotti e portare così la distruzione consumistica ai massimi livelli.
Orientando in tal modo la produzione, tuttavia, i grandi marchi non avevano fatto altro che rincorrere la natura più profonda e “umana” del consumo: distruttrice, ma al tempo stesso creatrice, e soprattutto più ampia e complessa.
Il consumo umano si estende, infatti, a simboli e concetti. Consumiamo immagini e storie.
Nella sua ricostruzione del movimento di contestazione della nuova economia globale, Naomi Klein parla con una certa diffidenza dei marchi che avrebbero incorporato nei loro prodotti un “elemento concettuale”.
Klein è fortemente critica della trasformazione dei marchi in vere e proprie “spugne culturali”: “il prodotto passa sempre in secondo piano rispetto al vero prodotto, ossia il marchio, e la vendita del marchio acquista un’ulteriore componente che può essere descritta solo come ‘spirituale’. […] i prodotti che si svilupperanno in futuro saranno quelli presentati non come ‘merci’ ma come concetti”.[3]
Non sarebbe, invece, l’integrazione con una filosofia di vita, con un elemento concettuale, un arricchimento del prodotto e non solo una furba strategia di marketing? Non abbiamo forse bisogno di “cose elevate” anche per il consumo di massa? O si ritiene che concetti e filosofie debbano essere contenute solo nei libri?
Se negli anni d’oro della moda le cose avevano già, di fatto, cominciato a parlare, a partire dagli anni Ottanta esse hanno cominciato letteralmente a filosofeggiare.
Il consumo è sempre produttivo, ma al tempo stesso anche imprevedibile e indisciplinato. Karl Marx è stato certamente tra i primi a sottolineare la forza produttrice del consumo, ma ha visto in tale forza nient’altro che il momento finale della produzione, creato e disciplinato da quest’ultima. Secondo Marx, la produzione crea il consumatore[4]. Tuttavia, la realtà del consumo si è rivelata molto più difficile da disciplinare.
Chi ha progettato e prodotto scarpe da ginnastica voleva che fossero indossate soprattutto da atleti o comunque mentre si faceva sport. Il consumo che ne è stato fatto è stato del tutto imprevisto e nessuno dei produttori avrebbe mai potuto prevedere che, in pochi anni, a partire dal loro successo mondiale, dei ragazzini si sarebbero addirittura uccisi per un paio di scarpe o, per riferirci ai tempi più recenti, che ci sarebbe stato un mercato fatto di collezionisti (i cosiddetti sneakerhead), ossessionati da scarpe sportive in edizione limitata o non più in commercio e tuttavia mai usate.
Nate per l’atletica, le sneaker si sono affermate come fenomeno globale, attraversando “subculture”[5] e gli usi più diversi. La cultura hip-hop, ad esempio, ne promuove tra gli anni Settanta e Ottanta un uso molto lontano da quello sportivo: le scarpe dovevano essere indossate immacolate, come fresche di scatola. Indossate come puri oggetti di desiderio, simboli di successo individuale.
“In realtà”, ha sottolineato Michel De Certeau proprio negli anni Ottanta, “a una produzione razionalizzata, espansionista, centralizzata, spettacolare e chiassosa, fa fronte una produzione di tipo completamente diverso, definita ‘consumo’, contrassegnata dalle sue astuzie, dalla sua frammentazione legata alle occasioni, dai suoi bracconaggi, dalla sua clandestinità, dal suo instancabile mormorio, che la rende quasi invisibile perché non si segnala in alcun modo attraverso creazioni proprie, bensì mediante un’arte di utilizzare ciò che le viene imposto”.[6]
Il consumo può sfuggire al potere senza per questo sottrarvisi.
I manifestanti protestavano guardando idealmente verso l’alto, in direzione di quella che per loro era la posizione occupata dal potere e dai potenti, quando avrebbero dovuto abbassare lo sguardo e vedere meglio: avevano letteralmente il mondo ai piedi.
Le loro scarpe, le scarpe di moltissimi, avevano una lucentezza tale da renderli ciechi. Si dice, del resto, sia accaduto lo stesso a Omero. Quest’ultimo, infatti, volle vedere le armi scintillanti di Achille, conservate nella sua tomba: il loro bagliore lo accecò.
Erano armi troppo belle per essere viste da un semplice uomo. In particolare, l’elemento più splendente era lo scudo, su cui erano rappresentati i caratteri fondamentali del mondo. Omero ebbe, in cambio, il dono della sapienza.
Per molti anni noi non abbiamo avuto la stessa fortuna, brancolando nel buio dell’amore o dell’odio per le scarpe e per i loro marchi.
I grandi marchi avevano realizzato una cosa molto simile a quello scudo e non solamente per un individuo eccezionale: oggetti capaci di racchiudere i principi di un mondo intero.
Uno di questi marchi era diventato grande – il più grande – proprio grazie a un oggetto, a una semplice scarpa capace di proteggere una parte del nostro corpo, come uno scudo.
Il suo nome, per di più, era associato a una divinità greca e prometteva a ognuno il superamento di ogni sconfitta, non solo nello sport, ma su ogni piano della vita.
Il suo nome era Vittoria, in greco: Nike.
[1] P. Virno, Negli anni del nostro scontento. Diario della controrivoluzione, DeriveApprodi, Roma 2022, p. 90. Oppure si cade nell’eccesso opposto, nel momento in cui si pensa che tutte le merci compongono un sistema, tale da costituire un’iperrealtà che arriverebbe a prendere il posto della realtà. Si tratta della tesi introdotta nel 1970 da Jean Baudrillard con il suo celebre La società dei consumi. La proposta di Baudrillard ha il merito di aver preso sul serio l’uso simbolico delle merci, ma al tempo stesso ha il limite di considerare sorpassato l’oggetto-merce rispetto al suo sistema. Si tratta, in fondo, di ciò che esplicitamente si contesterà nel corso della trattazione, analizzando un oggetto specifico: le scarpe Nike.
[2] Cfr. W. Schivelbush, La vita logorante delle cose. Saggio sul consumo, FrancoAngeli, Milano 2019.
[3] N. Klein, No logo. Economia globale e nuova contestazione, Baldini e Castoldi, Milano 2002, p. 42.
[4] K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica all’economia politica, trad. it. di E. Grillo, La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 16-18.
[5] Sul concetto di subcultura si veda l’ormai classico volume di D. Hebdige, Sottocultura. Il significato dello stile, trad. it. di P. Tazzi, Meltemi, Milano 2017, come pure si vedano le ricerche del Centre for Contemporary Cultural Studies di Birmingham sotto la direzione di Stuart Hall, soprattutto le ricerche di quest’ultimo, orientate alla risignificazione dei consumi a partire dal basso, raccolte in S. Hall, Il soggetto e la differenza. Per una archeologia degli studi culturali e postcoloniali, a cura di M. Mellino, Meltemi, Milano 2016.
[6] M. De Certeau, L’invenzione del quotidiano, trad. it. di M. Baccianini, Edizioni Lavoro, Roma 2005, p. 66.
L’estratto proposto, forse tratto dall’introduzione, desta qualche perplessità, a partire dalle domande che pone:
“Non sarebbe, invece, l’integrazione con una filosofia di vita, con un elemento concettuale, un arricchimento del prodotto e non solo una furba strategia di marketing? Non abbiamo forse bisogno di “cose elevate” anche per il consumo di massa?”
L’obiettivo primo di un prodotto è di essere venduto; l’“elemento concettuale” a esso associato è indubbiamente legato al meccanismo che è alla base del consumismo, cioè creare desideri: non si vogliono semplicemente delle scarpe da ginnastica, ma l’immaginario legato a quelle scarpe. Questo meccanismo è alla base di qualsiasi pubblicità e di qualsiasi mercato delle grandi multinazionali.
Fatico quindi a contemplare in che modo le merci non siano il prodotto delle multinazionali, bensì “l’inverso”, come scrive Ariemma: il successo di un prodotto determina investimenti via via crescenti e un’azienda si amplia a seconda di questa crescita. Mi chiedo se l’idea che le multinazionali siano “il risultato di una vera e propria esplosione culturale e sociale intorno a oggetti” sia documentata nel libro con dati specifici.
Com’è chiaro, si tratta appunto di una parte dell’introduzione del libro. Nel testo si cerca di adottare una prospettiva “orientata all’oggetto”, che cioè vede nelle scarpe non un semplice prodotto, progettato con astuzia e consumato ingenuamente, ma una vera e propria opera collettiva, capace di stupire sia i produttori sia i consumatori. Il libro vorrebbe, insomma, fare riflettere su ciò che chiamiamo produzione, in un senso più ampio. Ma, appunto, cerco di farlo nell’intero testo e all’inizio l’intenzione di destare perplessità è più che voluta, come in ogni libro di filosofia.
Considerazione attentissima, che mi trova più che sensibile, non perché io mi diletti di filosofia, ma piuttosto di Nike. Ho visto me stesso soccombere alla forza del marchio — ho comprato le prime Wimbledon negli anni ’80 — mentre il marchio prendeva piede (espressione azzeccatissima!) e io mi rendevo conto di quanto prendesse piede. Vado a comprare il libro …