L’Africa per noi. Su “L’Africa non è un paese” di Dipo Faloyin

 

 

di Daniele Ruini

In apertura del libro di cui stiamo per parlare troviamo, come citazione in esergo, questa indicazione: «Inserire qui un generico proverbio africano. Idealmente, un’allegoria su una scimmia saggia che interagisce con un albero, o un dialogo tra l’asino e la formica che, a sorpresa, parla di gesta valorose. Fonte: Antico proverbio africano». Nella pagina successiva c’è invece una citazione vera, tratta dalla scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie: «Se tutto quello che so dell’Africa si basasse sulle immagini popolari, anch’io penserei che l’Africa sia un posto di paesaggi bellissimi e persone incomprensibili, che combattono guerre insensate, muoiono di povertà e Aids, e sono incapaci di prendere parola». Già da queste scelte si può cogliere quelli che sono gli ingredienti principali di L’Africa non è un paese (Altrecose, 2024) del giornalista britannico di origini nigeriane Dipo Faloyin: l’uso di un tono spesso sarcastico e il desiderio di smontare gli stereotipi con cui noi europei continuiamo a guardare al continente africano.

Gran parte dell’efficacia del libro (tradotto da Tommaso Bernardi) risiede proprio nell’irriverenza del suo autore: prendendo le mosse dal celebre articolo del kenyiota Binyavanga Wainaina «Come scrivere dell’Africa» (appena ripubblicato in italiano da 66thand2nd in un volume dallo stesso titolo), Dipo Faloyin ha gioco facile nel pungolare l’abissale ignoranza che, quando si parla di Africa, grava sui suoi lettori europei e statunitensi. Se già il titolo punta il dito contro la nostra tendenza a non dare quasi peso alle profonde differenze esistenti tra i 54 Paesi che formano il “continente nero” (per non parlare delle molteplici specificità etniche e linguistiche interne alle varie nazioni africane), lungo tutto il saggio l’autore s’impegna a distruggere quella patina di commiserazione e di esotismo che continua ad accompagnare il nostro sguardo sull’Africa: un continente considerato spesso solo un ricettacolo «di povertà, conflitto, corruzione, guerre civili e grandi distese di arida terra rossa dove cresce soltanto miseria» (p. 29) e che è invece fatto di molta normalità.

«Contesto» è forse la parola-chiave che tiene insieme i vari capitoli del libro: è infatti solo approfondendo i contesti che possiamo capire davvero vicende e situazioni che caratterizzano questo continente ricchissimo. E, prima di tutto, non si può prescindere dal colonialismo europeo, ovvero dal modo in cui, tra la Conferenza di Berlino del 1884-1885 e la Prima guerra mondiale, «gli imperi europei si sono spartiti le terre più fertili e ricche, hanno smembrato il dieci per cento di tutti i gruppi etnici –costringendo culture molto diverse a formare stati unitari contro la loro volontà– e hanno rubato il novanta per cento del patrimonio culturale concreto del continente» (p. 30). Nonostante la raggiunta indipendenza, il destino dei paesi africani continua ancora oggi ad essere condizionato dalla negazione del loro diritto ad autodeterminarsi imposto con la violenza dai paesi europei: è a causa di questo peccato originale che in Africa si concentra tuttora il maggior numero di dispute territoriali per questioni di confini, così come è sempre da lì che discende il pregiudizio discriminante secondo cui gli africani non sarebbero in grado di autogestirsi e di affrontare i propri problemi, e continuerebbero perciò ad avere bisogno di un qualche tipo di supporto da parte dell’Occidente. Ecco allora che Faloyin smonta con incisività il complesso del white savior pronto ad andare in soccorso del popolo africano: rifiutando l’idea che i fini giustifichino sempre i mezzi, l’autore nigeriano critica apertamente le grandi campagne pro-Africa, colpevoli di utilizzare immagini ricattatorie di persone sofferenti (senza chiedere loro alcun consenso), e di favorire donazioni impulsive che dispensano i benefattori dallo sforzo di comprendere le situazioni di crisi per le quali stanno donando i loro soldi. La conseguenza è che «l’epoca d’oro delle campagne ha normalizzato la percezione dell’Africa come oppressa e cronicamente bisognosa» (p. 138), ovvero come «un luogo ampiamente considerato degno di elargizioni e poco più» (p. 144).

Anche l’idea che la dittatura sia la forma di governo più diffusa tra le nazioni africane viene smentita da Faloyn: non solo ad essere sottoposto a un regime autoritario è meno del 10% del continente, ma se non se tiene conto del filo rosso che collega gli interessi degli ex colonizzatori ai responsabili di questi regimi si farà fatica a liberarsi dall’idea che quelli africani siano popoli ingovernabili “per natura” e pertanto destinati a finire inevitabilmente soggiogati da dittatori egocentrici. D’altra parte le fragilissime motivazioni che politici e direttori dei musei nordamericani ed europei continuano ad accampare per respingere gli inviti alla restituzione del patrimonio culturale africano trafugato dalle razzie coloniali è un’ulteriore prova del senso di superiorità morale dell’Occidente, un «suprematismo bianco», come lo definisce Faloyn, evidente anche nel modo stereotipato in cui la cultura popolare –come, per esempio, il cinema hollywoodiano– continua a rappresentare i neri.

Detto che L’Africa non è un paese contiene anche capitoli più “leggeri” (come le divertite descrizioni di Lagos o della suscettibilità dei paesi dell’Africa occidentale intorno alla “vera” ricetta del riso jollof), e che il suo autore ci fa conoscere nelle pagini finali tanti esempi positivi (come i movimenti che negli ultimi anni hanno lottato coraggiosamente per pretendere maggiori diritti), ci si può chiedere, in conclusione, che effetto possa avere questo saggio in particolare sul pubblico italiano. Il fatto che, parlando dei danni del colonialismo europeo, Dipo Faloyin non si soffermi sul caso italiano rischia forse di confermare il luogo comune per cui, diversamente da quello praticato dalle altre potenze europee, quello italiano sarebbe stato un colonialismo “buono” verso la popolazione nativa. Si tratta di una narrazione agiografica che, omettendo del tutto il razzismo così come i soprusi, i massacri e le deportazioni perpetrate, si è iniziato a ribaltare solo da pochi decenni; la conseguenza è che, nonostante le iniziative dal basso (si veda il progetto di mappatura e denuncia dell’odonomastica coloniale Viva Zerai! di Wu Ming 2) e l’importante lavoro degli storici (si veda la recente sintesi di Valeria Deplano e Alessandro Pes Storia del colonialismo italiano, Carocci, 2024), ancora oggi ci si continua ad interessare poco dei danni del colonialismo italiano in Africa, per quanto le sue conseguenze siano state altrettanto perniciose di quelle imputabili ai francesi o ai britannici. Basti pensare, per esempio, a come il problema per cui, al momento dell’indipendenza, le nazioni africane dovettero ereditare confini e nomi imposti dai colonizzatori valga anche per la prima colonia italiana, l’Eritrea, o per la Libia (stato artificiale dietro cui il governo Giolitti riunì forzatamente tre regioni ben distinte dell’ex Impero ottomano).

Per queste ragioni, e anche perché la società italiana –complice il fascismo– ha vissuto una migrazione postcoloniale assai più ridotta rispetto ad altre nazioni europee, ritardando in questo modo il confronto con il multiculturalismo, le questioni affrontate da Faloyin risultano ancora più significative per i lettori italiani. In questo senso leggere L’Africa non è un paese può contribuire a farci venir voglia di approfondire la nostra storia di colonizzatori: forse, allora, andando a farci una nuotata alle Piscine Dogali (succede a Modena), o passando vicino a Massaua (frazione del comune pavese di Torre d’Isola), saremo finalmente spinti a guardare all’Africa, passata e presente, da una diversa prospettiva.

 

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ornella tajani
ornella tajani
Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa prevalentemente di studi di traduzione e di letteratura francese del XX secolo. È autrice dei libri Tradurre il pastiche (Mucchi, 2018) e Après Berman. Des études de cas pour une critique des traductions littéraires (ETS, 2021). Ha tradotto, fra vari autori, le Opere di Rimbaud per Marsilio (2019), e curato i volumi: Il battello ebbro (Mucchi, 2019); L'aquila a due teste di Jean Cocteau (Marchese 2011 - premio di traduzione Monselice "Leone Traverso" 2012); Tiresia di Marcel Jouhandeau (Marchese 2013). Oltre alle pubblicazioni abituali, per Nazione Indiana cura la rubrica Mots-clés, aperta ai contributi di lettori e lettrici.
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