Non ho tempo per andare al mare – Mari Accardi (Nutrimenti Edizioni 2024)
Estratto dal libro di Mari Accardi per Nutrimenti Edizioni.
Incontravo i turisti nella terrazza dell’hotel, indicata a ogni piano con una freccia puntata verso l’alto. Per loro erano state disposte sedie di plastica e tavole imbandite con vino bianco e rosso e pasticcini ricoperti di cioccolato che col caldo si squagliava. La Spugna assaggiava il vino bianco, faceva una smorfia, lo gettava dentro la pianta di monstera, riempiva il bicchiere di vino rosso fino all’orlo e poggiava la caraffa al lato della sedia. Era una scena che si ripeteva di volta in volta. D’altronde, sul logo della Compagnia era rappresentato un vecchietto che tracannava una bottiglia di lambrusco in una vasca a forma di Colosseo. Non c’erano ambiguità sul tipo di clientela che volevamo attirare.
Tutti indossavano un gilet multitasche blu che assomigliava a un giubbotto antiproiettile. Lo regalava la Compagnia insieme a un quaderno col logo, un’agenda col logo, una penna col logo, una borraccia col logo e un cappello a falde larghe pieghevole, che i turisti distribuivano nelle varie tasche. Sotto portavano pantaloni che tirando le cerniere diventavano pantaloncini, scarpe da trekking per gli uomini e ballerine da trekking con la suola di gomma per le donne: una sorta di divisa. La Compagnia li incoraggiava a viaggiare con il solo bagaglio a mano, chi lo imbarcava, come per ammonizione, lo smarriva in aeroporto. Al ritorno, tuttavia, molti compravano una seconda valigia. Viaggiavano soprattutto in coppia, i pochi solitari erano in maggioranza donne. Venivano da ogni parte d’America, ma anche dal Sudamerica e dal Canada, e perfino dall’Australia e dalla Corea. In aeroporto non c’era nessuno ad attenderli. Farli arrivare in albergo con i mezzi pubblici era uno degli obiettivi educativi della Compagnia, che si chiamava: Il Mondo degli Audaci.
Fino a quel momento, l’attività più rischiosa in cui ci eravamo spinti era stata salire sul 101 in un orario di punta. Dedicavo un’intera lezione alla corretta timbratura del biglietto: spiegavo in quale verso inserirlo, dove inserirlo, con quanta forza spingerlo, cosa fare se era spiegazzato, cosa fare se, nella calca, non si riusciva a raggiungere la macchinetta. I turisti avrebbero già dovuto sperimentarlo nel tragitto dall’aeroporto all’albergo ma sospettavo che in realtà barassero e prendessero il taxi.
Alle 14.30, come se avessero impostato la sveglia, drizzavano la schiena e smettevano di parlare. Erano schierati in tre file, seduti sul bordo della sedia, in posizione di allerta. Con le loro divise e i giubbotti antiproiettile pareva stessero andando in missione. Erano l’‘esercito degli Audaci’ e io il loro comandante.
“Buonasera e benvenuti in Sicilia, l’isola più grande del Mediterraneo, in cui hanno vissuto e convissuto fenici, greci, romani, bizantini, arabi, normanni, angioini, aragonesi, austriaci, borboni… Farei prima a elencarvi da chi non siamo stati dominati…”.
(Risate).
“Come vedete, noi siciliani accogliamo tutti. Anche gli animali randagi sono regolari cittadini”.
(Sorrisi perplessi).
“Sono fiera di iniziare questo tour nella città in cui sono nata e cresciuta: Palermo”.
(Applausi).
“Il mio nome è Matilde e sarò la vostra guida per i prossimi nove giorni”.
Il Simpatico cominciava a fischiettare. Dopo alcuni secondi, la Spugna capiva il riferimento e gli dava manforte. Dall’ultima fila partiva il coro: “Matilda, Matilda, Matilda, she takes me money and run Venezuela…”.
Adesso la canticchiavano tutti.
“Everybody!”.
“Matilda, Matilda, Matilda, she takes me money and run Venezuela”.
Aspettavo paziente che arrivassero all’ultima strofa.
“Mi raccomando però: ricordatevi che il mio nome finisce con la e, non con la a. M-a-t-i-l-d-e”.
“Of course, Matildeeeeeee”.
“Adesso guardate il panorama dalla terrazza. Vedete quei due palazzi stretti e lunghi, quasi a ridosso della montagna? Li chiamano Lunghi a matula, perché gli appartamenti sono piccoli e mal distribuiti. Alle loro spalle, nell’interstizio, si intravede la casa in cui sono cresciuta”. Stavo seguendo la regola numero 4 del vademecum della brava guida: “Fai entrare i turisti nella tua vita”.
Tutti esclamavano “Ooooooh”.
“Lo vedete il giardino con la palma?”. Qualcuno rispondeva di sì, mentendo. Da quella distanza si distinguevano a stento i contorni e io descrivevo le immagini della mia memoria, quelle che negli anni non erano mai cambiate. “La vedete l’Audi marrone con il gatto giallino che si stiracchia sul cofano? Dentro c’è mio padre con un sigaro spento in bocca che ascolta Peppino di Capri o Ray Charles, a seconda dell’umore. È il posto in cui si rifugia quando si sente offeso”.
L’Ottuso chiedeva: “E perché non si va a fare un giro?”.
“Perché l’Audi non parte”.
(Risate).
“Un tempo mio padre faceva il rappresentante di commercio e la macchina per un rappresentante è il suo biglietto da visita. Ora che è in pensione non vuole sbarazzarsene”.
“Non gli piace la vita da pensionato?”, chiedeva il Devoto, prossimo alla pensione.
“Forse si annoia”.
“E cosa fa durante la giornata?”.
“Litiga con la gente. Sul frigo ha appeso una mappa dove ha barrato i negozi in cui, secondo lui, hanno cercato di truffarlo. Per qualsiasi commissione fa dei giri lunghissimi e ci impiega ore”.
(Risate).
“Mia madre per rabbonirlo è andata a portargli il caffè. Qualunque cosa succeda, che lei sia arrabbiata, affaccendata o indisposta, a quest’ora va sempre a portargli il caffè. Margherita, la vicina, ha sentito l’odore e si è presentata davanti al cancello. Sapete, Margherita ha lasciato il marito il giorno del cinquantesimo anniversario di matrimonio e mio padre crede che voglia convincere mia madre a fare lo stesso”.
“Ed è vero?”, chiedeva l’Impicciona.
“Non proprio. Cerca di convincere tutte le donne a stare da sole. Ha adottato un chihuahua che ha chiamato Aceto perché l’ex marito era allergico all’aceto”.
“Beviamoci su”, diceva la Spugna, e proponeva il primo brindisi di una lunga serie. “All’amore eterno!”.
“All’amore e basta”, diceva la Cinica.
“Al vino!”.
Quando siamo usciti per perlustrare il quartiere e visitare il santuario di Santa Rosalia non ci siamo persi neppure una volta. Nessuno aveva notato i miei errori di pronuncia e gli strafalcioni di storia. Dicevano che ero la guida migliore che avessero mai avuto. E dato che: “La prima impressione è l’unica che conta”, (regola numero 3) mi avrebbero riempito di ‘superbo’, il massimo dei voti.
Ecco come sarebbe dovuto andare, secondo il copione, il nostro primo incontro. Ma non andava mai così.
Di solito alle 14.30 facevo un respiro profondo, aprivo il petto e mi dirigevo a testa alta verso il palco: un angolo incastrato tra la pianta di monstera e il tavolo imbandito. Avevo il sole in faccia e socchiudevo gli occhi per mettere il pubblico a fuoco. Il vademecum diceva: “Gli Audaci sono membri temporanei della vostra famiglia”. Era la regola numero 1. Osservavo viso per viso, cercavo somiglianze con mia madre, mio padre, mia nonna, come quando da piccola andavo a caccia dei nostri sosia tra le tombe del cimitero. Avrebbe dovuto attutire il disagio di trovarmi tra estranei ma non funzionava. Quando stavo per parlare la Sorella schiva mi chiedeva dov’era il bagno, la Spugna si lamentava che le caraffe di vino erano vuote, il Pedante voleva sapere il nome delle chiese che si vedevano dalla terrazza. Oppure il Simpatico arrivava di corsa e molto lentamente si riempiva il bicchiere di vino davanti a me, coprendomi alla vista degli altri, mentre l’Ottuso mi pregava di ripetere le frasi. Per non parlare di tutte le parole italiane di cui dovevo fare lo spelling. Gli Audaci erano convinti che in una settimana avrebbero imparato l’italiano. Si appuntavano le parole sul quaderno, che poi dimenticavano in albergo. Era l’oggetto che più dimenticavano insieme ai calzini. Scrutavo le espressioni facciali, interpretavo ogni increspatura della fronte come un principio di astio nei miei confronti. Guardavo le bocche sporche e non capivo perché in estate, con tutti i dolci tipici che l’albergo avrebbe potuto offrire, paste di mandorla, sfogliatine, biscotti all’anice, offrisse proprio pasticcini al burro ricoperti di cioccolato. Mi leccavo le labbra sperando che di riflesso lo facessero anche gli Audaci ma continuavano a mangiare e a sporcarsi.
“Buonasera e welcome to Sicily. Mi chiam…”.
“Non si dovrebbe dire ‘buon pomeriggio’?”.
“Be’, tecnicam…”.
“Come si dice Sicily in italiano?”.
“S-i-c-i-l-i-a”.
“S-i-s-i…”.
“L-i-a. Dunque, come vi dicevo, mi chiamo Matilde e sarò la vostra guida per i prossimi no…”.
“Parla più forte, sweetie”.
A un certo punto mi bloccavo e pensavo: ‘Che stai facendo? Non ti vergogni?’. Sentivo la voce di mio padre: ‘Ma se scambi Vergine Maria per Mondello’. Sentivo la voce di mia madre: ‘Li farai morire’. Sentivo la voce di mia nonna: ‘Non ti sai fare manco l’uovo bollito’. Tour dopo tour, l’attimo di vergogna continuava a presentarsi. E non potevo attribuirlo alla sindrome dell’impostore perché impostora lo ero davvero. Per fare la guida era necessario il patentino, che io ovviamente non avevo. Per i musei mi appoggiavo alle guide locali, ma per tutto il resto cercavo di non farmi notare. Quando incontravo vecchi compagni di università provavo a scappare o mentivo, mi sembrava che mi guardassero con sospetto. Mi sembrava che tutti mi guardassero con sospetto. Con gli Audaci mettevo subito le mani avanti. Nel copione una frase che non mancava mai era: “Se ci dovesse fermare un vigile, dite che siete i miei cugini”.
“Semmai zii”, puntualizzavano i vari Pedanti.
“Ehi, ti sei imbambolata?”, diceva la Spugna schioccando le dita.
Colta alla sprovvista alzavo il bicchiere e dicevo: “Cheers”, ma i bicchieri degli Audaci erano già vuoti.
Mari Accardi (1977) è nata a Palermo e insegna alle scuole medie. Suoi racconti sono apparsi su diverse riviste e sull’antologia Quello che hai amato (Utet) curata da Violetta Bellocchio. È stata selezionata da Granta per il numero Che cosa si scrive quando si scrive in Italia dedicato ai nuovi autori del nostro paese. Ha già pubblicato, Il posto più strano dove mi sono innamorata (finalista al Premio Settembrini) e Ma tu divertiti, entrambi con Terre di Mezzo Editore.