Il venditore di via Broletto

di Romano A. Fiocchi

Sono trascorsi molti anni ma mi ricorderò sempre di quel giorno gelido di fine gennaio in cui lo incontrai. Lavoravo come fotoreporter da circa tre mesi, mi aveva assunto in prova l’agenzia Immaginazione. In quell’inverno di temperature glaciali avrei dovuto battere in continuazione le vie del centro per rubare scatti a personaggi della moda, della politica, dello sport, a chiunque insomma purché fosse un volto noto. Ogni giorno finivo invece per fotografare soggetti che stonavano con l’ambiente: mendicanti, patetiche statue viventi, ambulanti di colore che ti proponevano l’acquisto di libri assurdi, bouquiniste invecchiati a colpi di freddo, vagabondi che dormivano sotto il portico di piazza Mercanti. A rapire la mia attenzione era l’attrito fra l’umiltà di questa gente e la sobrietà degli edifici antichi, l’opulenza delle banche, l’eleganza dei negozi e dei caffè. Mi resi conto che la fotografia non solo fermava il tempo ma poteva trasformarsi in un’arma terribile. Per questo decisi che non mi sarei mai lasciato coinvolgere oltre l’occhio meccanico del mio obiettivo. Invece, quella volta che lo vidi in via Broletto, capii subito che non sarebbe stato così.

Era un uomo di mezza età, gli occhi da gufo, la barba ispida, una cuffia di lana in testa e un giaccone che sembrava aver vissuto più vite. Vendeva qualcosa di misterioso sul lastricato del pronao di San Tomaso. Ma oltre a non capire cosa fossero quei pacchettini di carta cerulea, esposti in bell’ordine tra le colonne centrali, mi incuriosiva quella sua teatralità, quel modo di invitare ogni passante con movimenti ampi delle braccia, quasi offrisse la merce più straordinaria del mondo.

La gente passava incurante, qualcuno gettava un’occhiata distratta. Mi chiedevo chi fosse quell’uomo. Quale mistero potessero contenere quei pacchettini venduti così, sul sagrato di una chiesa. Perché quella mimica così affettata. Sostai sul marciapiede dirimpetto e feci alcuni scatti. Lui era troppo preso dalla sua recita promozionale per potermi notare. C’era qualcosa, nei suoi modi, che mi affascinava.

Si fermò finalmente un primo passante, un signore piuttosto anziano. Scambiarono alcune parole che la distanza mi impedì di comprendere. Feci un paio di scatti. A un certo punto il venditore disse qualcosa e l’altro restò lì, con aria imbambolata. Scosse la testa e si allontanò senza salutare.

Passò altra gente. Il venditore riprese la sua gestualità da commedia. Ora, nel descrivere il movimento con le braccia, piegava il busto e si inchinava sino a terra. La maggior parte dei passanti lo ignorava. Qualcuno attraversava la strada per evitare il contatto ravvicinato. Un cane gli abbaiò contro. Lui gli parlò, disse forse la stessa cosa che aveva detto al signore piuttosto anziano perché il cane sembrò capire, restò lì un po’ disorientato e allo stesso modo se ne andò.

Fu il turno di una signora avvolta in un’ampia mantella bordò. Fissò i pacchettini di carta cerulea, ne indicò uno e chiese di poterlo prendere in mano. Il venditore, cerimonioso, acconsentì. Si scambiarono alcune battute, infine lui disse qualcosa di indisponente perché la donna arretrò, gettò il pacchettino a terra e si allontanò veloce. Questa volta afferrai la parola pronunciata ripetutamente dal venditore: tempo. Cosa stava a significare? Perché commentare la scelta di un potenziale cliente con la parola tempo? Era proprio quella, la parola tempo, il fulcro della frase enigmatica con cui sconcertava tutti i passanti?

Di lì a dieci minuti si fermò una coppia di ragazzi. Lui, alto e dinoccolato, giubbotto rock. Lei piccola e bionda, i capelli a caschetto che uscivano da un cappellino di lana. Fumava nervosa una sigaretta. Il venditore maneggiava uno dei pacchettini. Accarezzava con delicatezza la carta cerulea. Gli occhi da gufo, che inquadrai con lo zoom, contenevano abissi di ricordi. Scattai alcune fotografie. Un’espressione incomprensibile uscì dalle mie labbra: «Mi sono innamorato di quell’uomo».

Quando alzai gli occhi dal mirino, i due ragazzi erano scomparsi. I pacchettini di carta erano al loro posto tra le colonne. Il venditore mi osservava. Fece subito il gesto ampio per invitarmi. Attraversai la strada e lo raggiunsi.

«Prego, signore», disse. «Ho una moglie e due figli da mantenere, ho perso il lavoro, la casa, viviamo in una vecchia roulotte».

Gli dissi che non avevo soldi, che io mi occupavo di fotografia, che non compravo chincaglierie.

«Chincaglierie, signore?», fece lui indispettito. «Questi pacchetti non contengono chincaglierie».

«Oh bella, e cosa, allora?»

«Pezzi di tempo, signore».

«Mi faccia capire. Lei venderebbe pezzi di tempo futuro a chi ne ha bisogno?»

«Non proprio, signore. Pezzi di tempo passato, pezzi del mio tempo. Lei non ci crederà, signore, ma il mio tempo passato è l’unica cosa che mi sia rimasta. Ed è un tempo bello, signore, il tempo che io passavo senza problemi, i miei figli crescevano e andavano a scuola, e mia moglie aveva i soldi per fare la spesa. Oh, non aspiravo a grandi cose: lavoro, casa e famiglia. Quel tempo è il solo bene che mi è rimasto. Per questo lo vendo, cerco di realizzare qualche soldo.

Non dissi più nulla. Tirai fuori un biglietto da cinquemila lire e glielo diedi. Lui mi fece scegliere uno dei pacchettini cerulei e me lo consegnò con le lacrime agli occhi: «Colpa del freddo, signore», disse.

Furono le sue ultime parole. Mi allontanai. Non mi capitò mai più di incontrarlo. Da quel giorno, una vita intera è passata sotto i ponti. Ancora pochi mesi e sarò in pensione, con alcuni milioni di scatti sulle spalle e nessuna soddisfazione di carriera. Quello del fotoreporter è un mestiere nero.

Il pezzo di tempo lo conservo ancora su una mensola della mia camera da letto, accanto alle cornici con le fotografie più riuscite che scattai da giovane. Mi sono accorto che ora è diventato anche mio: è un pezzo del mio tempo, il mio tempo migliore.

[L’immagine è di proprietà del Civico Archivio Fotografico di Milano]

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1 commento

  1. Reale, commovente…
    era tutto quello che gli è rimasto, ma se riflettiamo, anche ad ognuno di noi rimangono dei ricordi belli o meno che non sono altro che pezzetti di tempo.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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