I nervi, il cuore e la Storia. Intervista a Rosella Postorino
a cura di Pasquale Palmieri
“Siamo tutti mossi dal desiderio, dubbiosi sulla felicità possibile, tentati da un impossibile ritorno a casa, gettati nostro malgrado nella Storia”. Prendo in prestito queste parole dalla quarta di copertina del nuovo libro di Rosella Postorino: Nei nervi e nel cuore. Memoriale per il presente (Solferino, 2024). Sono di certo le più efficaci per descrivere un testo complesso, un “diario pubblico” fondato sullo “scambio tra narrazione personale e collettiva”, ma anche sull’idea che le nostre scelte e le nostre esistenze possano seguire delle traiettorie comuni, pur rimanendo uniche e insostituibili. Rosella Postorino ha bisogno di poche presentazioni: autrice di romanzi di successo (come L’estate che perdemmo Dio, Il corpo docile, Le assaggiatrici, Mi limitavo ad amare te), vincitrice del Premio Campiello 2018, finalista al Premio Strega 2023, curatrice e traduttrice di grandi opere letterarie. Ha accettato di rispondere, con gentilezza e generosità, alle domande che le ho posto per Nazione Indiana.
“È l’anno in cui il Festival di Sanremo lo vinsero Morandi, Tozzi e Ruggeri con Si può dare di più, l’anno di Figli, il più bel brano di Toto Cutugno, l’anno in cui nelle nuove proposte si impose Michele Zarrillo: io so a menadito La notte dei pensieri, pure se non mi piace. Soprattutto, […] è l’anno di Bella d’estate”. Il 1987 appare all’inizio del tuo “memoriale per il presente” e ritorna in diverse pagine, fino alla fine del libro. Riemerge dal tuo passato come una sorta di spartiacque fra l’infanzia e l’adolescenza, o fra l’innocenza e una prima presa di coscienza del dolore.
Il 1987 è l’anno della cacciata dall’Eden, l’anno dello sradicamento, cioè dell’emigrazione da Reggio Calabria alla Liguria. Però credo che la coscienza del dolore fosse precedente, così come non credo di essere diventata adolescente allora. Semplicemente ho capito che le persone possono essere trattate da diverse, da straniere, e tali sentirsi. Ho capito che si può perdere l’Eden, appunto, per quanto imperfetto quell’Eden sia – il mio lo era. Partendo, ho perso la comunità: nonni, zii e cugini come una certezza quotidiana. E ho visto i miei genitori deboli e infelici. Forse il trauma per i bambini è questo: vedere i genitori traballare.
Le tue memorie sono accompagnate da un elenco ricchissimo di prodotti mediali. Leggendo il libro, ho scoperto che non hai mai amato davvero Pippi Calzelunghe perché era “troppo forte”, che volevi somigliare a Candy, che avevi nove anni e Anne Frank era il tuo personaggio letterario preferito. Anche l’immagine di tua madre da giovane è legata, in alcuni passaggi, alle “telenovelas” con Veronica Castro o alla lettura di “Confidenze”. A tratti si ha l’impressione che i film, le canzoni, i libri, i programmi televisivi ti aiutino a mettere ordine nel caos dei ricordi. O forse sono anche espedienti per tentare di uscire dall’isolamento emotivo? Da scrittrice, ti senti meno sola nel cercare un contatto con lettrici e lettori che hanno conosciuto quelle stesse parole, quelle stesse immagini, quelle stesse note?
Era mia nonna che leggeva “Confidenze”, ma Veronica Castro la guardavamo tutti. La sigla di Anche i ricchi piangono è per me una madeleine. Mi strugge e mi consola, è un luogo preciso della memoria che porta con sé odori e gesti e sentimenti. La cultura di massa ha questo effetto emotivo di intersecarsi con la nostra vita, anche con i momenti più dolorosi della nostra vita. Gli oggetti – i prodotti del mercato – nel momento in cui ci appartengono, e si fondono con la storia delle nostre case e delle persone che le abitano o le hanno abitate, possono farci paura o tenerezza. Non si tratta quindi di mettere ordine né di cercare un contatto con lettori della stessa generazione. Noi siamo fatti anche di questo: delle immagini che abbiamo visto, delle canzonette che abbiamo ascoltato, dei jingle pubblicitari e dei titoli sulle prime pagine dei giornali, dei fumetti e delle stragi annunciate al telegiornale, come racconta Gli anni di Annie Ernaux. Nei nostri ricordi, dice Ernaux, le immagini di Auschwitz convivono con la réclame di un detersivo. La memoria funziona semplicemente così. La scrittura talvolta riesce a restituirne la complessità.
Il tuo libro fa i conti con la pandemia, la quarantena, la paura del contagio. Ricordi che il virus “trasformava i nipoti in carnefici dei nonni, proliferava sull’affetto familiare, mutava gli abbracci in gesti aggressivi, i baci in tradimento, ribaltava la nostra psicologia, la nostra antropologia, tanto che in pochi riuscivano a adeguarsi, e gli altri si confondevano, sbagliavano, diventavano colpevoli”. Non so spiegarti bene perché queste parole mi colpiscano tanto. Ho l’impressione che, a distanza di qualche anno, ci sia ancora una grande difficoltà nel raccontare il Covid e il suo impatto sulle nostre vite. Cosa ne pensi?
Credo che per raccontare bene le cose serva una distanza nel tempo. Per raccontarle con l’epica di un romanzo, per esempio. In quel caso per me c’era la presa diretta di un’angoscia che stavo vivendo, quella parte ha consapevolmente il fiato corto, è quasi un grido in mezzo agli altri.
In alcuni passaggi del libro il rapporto tra dolore e felicità si intreccia con il rapporto fra malattia e guarigione. Racconti di aver cominciato una terapia cognitivo-comportamentale, perché volevi “salire sugli ascensori, prendere voli intercontinentali, scendere a patti con il precariato lavorativo, con la ferocia che era abitare, da poveri, una metropoli”. E ti sentivi “colpevole” se non riuscivi a raggiungere questi obiettivi. È ancora così? Rivendichi ancora il diritto all’inquietudine, all’essere inadattabile a un ruolo sociale, alla mancanza di guarigione?
Sì, li rivendico, ed è per questo che credo che la psicanalisi – la mia prima terapia, durata cinque anni, era psicanalitica – sia stata per me fondativa e formativa. La psicanalisi non ha l’obiettivo di renderti “adatto”. Nel mio caso, mi ha aiutato ad accettare il mio desiderio di scrivere e a inseguirlo anche se faceva paura, anche se dietro ogni vocazione c’è il dolore possibile del fallimento. Ma quello era ed è il mio unico modo di stare al mondo.
Nel libro dichiari apertamente il tuo amore per i film di Nanni Moretti. Ricordi come i suoi personaggi facciano “domande che non possono avere risposta”, e le facciano ossessivamente a tutti “fino a risultare inopportuni”. Il loro “inesausto tentativo di capire resta vano, come quello di ogni scrittore, e di ogni individuo”. Sembra di intravedere in queste righe la tua idea del mestiere di scrittrice. Scrivi “per cercare riscatto” e non ti senti “riscattata mai”. Scrivi per rivendicare il “diritto di trionfare e di perdere”, di essere limpida e imperscrutabile.
Sì. Ma forse io vedo il gesto, anzi la tensione, la postura della scrittura ovunque, perché è in fondo ciò che nel mondo più mi interessa. “Io sono assicurata in una frase e in nient’altro”, scrisse Ingeborg Bachmann in Malina, “il mondo non ha un’assicurazione per me”. È una delle frasi della mia vita. E tuttavia, sempre in Malina, l’Io protagonista dice che la lingua è il castigo, perché sarà sempre incapace di restituire la complessità del reale. Ecco, la scrittura si muove in questa contraddizione senza rimedio, e proprio per questo, perché non può salvare nessuno, mi fa sentire un po’ più salva.
Ricordi che le donne si sentono “responsabili del desiderio di uomini verso cui non provano desiderio”. Parli della “soggezione verso il maschile”, in particolare “il maschile osannato dalla collettività”. Rivendichi il valore politico, culturale, sociale e umano del “discorso sul corpo”. Immagino non sia stato semplice trovare il coraggio di affrontare questi temi parlando in prima persona, mettendo in gioco le tue esperienze, in un libro come Nei nervi e nel cuore.
Ho sempre parlato di questo, ma trasfigurandolo nei personaggi e nelle storie dei miei romanzi. Ci ho messo vent’anni esatti di scrittura (ho pubblicato il mio primo racconto in un’antologia di Einaudi nel giugno del 2004) per parlarne in modo personale.
Nel tuo memoriale, ti scopri “gettata nella Storia e dalla Storia condizionata”. Sono nato come te alla fine degli anni Settanta, e come te mi sono lasciato convincere di appartenere a “una generazione senza trauma”, in fondo trascurabile, pronta a scivolare “fuori dalla Storia” senza rendersene conto. Credi che le persone della nostra età abbiano una “tonalità emotiva” che le contraddistingue? Abbiamo davvero un metodo, o solo un espediente, per non sentirci parcheggiati nel nostro tempo?
Io credo che considerare la nostra generazione senza trauma fosse una semplificazione e anche una stigmatizzazione. Che cosa sono state le stragi di mafia del 1992 se non un trauma? La guerra nei Balcani, che cos’è stata? Nel cuore dell’Europa, a meno di cinquant’anni dopo la seconda guerra mondiale, c’erano di nuovo dei campi di concentramento, gli stupri di massa. E il G8 di Genova, e l’11 settembre? Nessuno di noi è partito per la guerra o ha vissuto in Italia una guerra, è vero, ma questo non significa essere avulsi dalla Storia. Ogni vita è condizionata dalla Storia, proprio nel senso che alcuni sentimenti sono tollerati o si esprimono in maniera diversa a seconda delle epoche storiche, e dunque anche ciò che più consideriamo privato è in realtà il risultato di un sistema culturale legato al tempo.
Duras, io e Rosella: tre generazioni legate dallo sradicamento che hanno trovato nella letteratura e nel cinema una loro identità “meticcia” e un legame incongruo che scavalcava le generazioni. Ricordo ancora Rosella, giovanissima, sul fondo dell’aula della vecchia Facoltà di Magistero, in attesa che io finissi di fare esami e le potessi dare le cassette dei film di Duras, allora del tutto sconosciuta in Italia come cineasta. Non avrei mai pensato allora che le nostre tre generazioni, così diverse, si sarebbero legate indissolubilmente nel tempo. Oggi, con questo libro, Rosella, certo involontariamente, spiega cosa può indissolubilmente legare generazioni e persone diverse, appunto, “con i nervi e col cuore”.