I tre quinti sconosciuti di Charlus

 

Per Nuova Editrice Berti è da poco uscito La gelosia di Charlus e altri scritti dai Cahiers di Marcel Proust, a cura di Mariolina Bertini, con postfazione di Ezio Sinigaglia e nota bibliografica di Giuseppe Girimonti Greco. Pubblico le ultime pagine della postfazione. [ot]

di Ezio Sinigaglia

[…]

Di qui si accede allo sterminato reame di Sodoma: i personaggi che lo abitano sono numerosissimi, ma nessuno può aspirare neppure alla lontana al grado di rappresentatività che va riconosciuto al barone di Charlus, sia per la sua presenza, di crescente importanza, in tutti e sette i volumi di cui la Ricerca si compone, sia e forse ancor più per la forza e la complessità della sua personalità piena di contraddizioni.

Charlus è un personaggio fortemente caratterizzato dalla stranezza e imprevedibilità dei comportamenti, tanto che sarebbe difficile trovare, nelle sue innumerevoli apparizioni nel romanzo, una singola occasione in cui il barone non faccia o dica qualcosa di inatteso e sorprendente. Tuttavia, se dovessi indicare, fra le decine e decine di casi, il suo gesto più bizzarro (e alla prima lettura più inspiegabile), non avrei dubbi: è l’incredibile cerimoniale di saluto che Charlus riserva al narratore poco più che bambino quando ne fa ufficialmente la conoscenza, cioè quando sua zia, Madame de Villeparisis, glielo presenta davanti al Grand Hotel di Balbec. Qui il barone, «evitando di guardarmi, borbottando un vago “Piacere” – cui fece seguire alcuni “hum, hum, hum” per dare alla sua cortesia qualcosa di forzato – e ripiegando il mignolo, l’indice e il pollice, mi [tese] il medio e l’anulare, privi di qualsiasi anello, che io strinsi sotto il suo guanto scamosciato» (I, 914). In tanta degnazione e superbia del salutante, dovute alla consapevolezza del suo rango inarrivabile, non c’è nulla di specificamente charlusiano: tutti i Guermantes salutano il resto dell’umanità così, con sufficienza ed esplicito distacco, tendendo ad esempio il braccio nella sua intera lunghezza, come fa il pur amabile Saint-Loup, affinché la distanza dal salutato sia la massima possibile. Di charlusiano c’è invece l’idea di porgere, al posto della mano, due sole dita ritraendo le altre tre. È un gesto sdegnoso? Sì, senza dubbio: ma, nell’economia del romanzo in generale e della costruzione del personaggio in particolare, è anche un gesto dall’importante contenuto simbolico, se vogliamo ammettere che, nel porgere due dita al posto della mano, il barone di Charlus dichiara apertamente di essere disposto a far conoscere soltanto una parte di sé stesso, pari a due quinti: gli altri tre resteranno segreti.

Naturalmente, uno dei tanti svelamenti di cui, nel suo lungo percorso, tortuoso e impassibile a un tempo, va alla ricerca La ricerca (e uno dei tanti itinerari monotematici che il lettore è libero di seguire dal principio alla fine) è lo smascheramento della parte nascosta di Charlus. Un primo segreto viene svelato, come si è visto, in Sodoma e Gomorra I: si tratta dell’omosessualità del barone. Siamo all’incirca a metà del romanzo e, per scoprire la faccia più segreta di questo segreto, dovremo attendere quasi la fine (IV, 479 sgg.), quando l’eroe, ancora una volta grazie a una prodigiosa commistione di audacia e di fortuna, vedrà premiato il suo talento di voyeur-écouteur nel bordello di Jupien, assistendo a una scena drammatica e grottesca di sadomasochismo, orchestrata e governata dallo stesso Charlus in vista del suo piacere, che è tutt’uno con la sua sofferenza.

Questa rivelazione finale è preparata da varie anticipazioni, che tuttavia sfuggono facilmente al lettore per la loro lontananza reciproca e, soprattutto, per la grande distanza che le separa dalla scena della camera 14 bis. Ma il ri-lettore, che ha ben presente nella memoria quest’ultimo episodio, può reperire via via queste anticipazioni e concatenarle in una serie coerente. Qui ne ricorderò due che mi sembrano di particolare importanza.

La prima precede addirittura l’entrata in scena di Charlus (se si esclude la sua fuggevole apparizione nel giardino degli Swann a Combray: I, 172-173). È il nipote Saint-Loup a raccontare al narratore le gesta giovanili di suo zio Palamède, che è atteso dopo poche ore a Balbec e del quale dunque l’eroe sta per fare la conoscenza. Si parla della sua «lontana giovinezza», dei suoi mirabolanti successi con le donne e di «una garçonnière che spartiva, con tre amici» non meno belli di lui e, come lui, infaticabili amatori (I, 909-910). Racconta Saint-Loup che un conoscente «“aveva chiesto a mio zio di poter andare in questa garçonnière. Senonché, appena arrivato, non fu alle donne, ma allo zio Palamède che si mise a fare una dichiarazione.”» Ciò che lascia sbalorditi è la punizione che Charlus e i suoi due amici riservano al “colpevole”: «“lo spogliarono, lo pestarono a sangue e, con un freddo da dieci sotto zero, lo buttarono a calci sulla strada, dove fu trovato mezzo morto”.»

La seconda anticipazione cade qualche centinaio di pagine dopo, durante la passeggiata che Charlus e il narratore fanno insieme, tornando a piedi dal “pomeriggio” a casa di Madame de Villeparisis. A un certo punto il barone prende a fantasticare intorno a Bloch, l’amico ebreo di Marcel: «“Potrebbe forse affittare un locale e procurarmi qualche divertimento biblico […] Per esempio, uno scontro fra il vostro amico e suo padre, con ferimento del secondo, come fra David e Golia. […] Potrebbe anche, già che c’è, prendere a bastonate quella carogna […] di sua madre”» (II, 346-347).

Nel secondo di questi passi e, con ogni probabilità, anche nel primo, è la fantasia a prevalere sulla realtà: ma, in quelle che chiamiamo “perversioni sessuali”, è proprio la fantasia l’elemento determinante, e non si può certo negare che la chiave del sadismo (e del suo opposto complementare, il masochismo) sia già stata messa a disposizione del lettore che fosse interessato a indagare la complessa personalità del barone.

Più in generale, del resto, una componente di sadismo autopunitivo è presente in tutte le strategie seduttive di Charlus, che sembrano costruite per fallire: basterà citare l’esempio dei suoi maldestri tentativi di adescamento del narratore, o quello della sua goffa lettera ad Aimé (il giovane e attraente direttore del Grand Hotel di Balbec) o, ancora, l’esito con ogni probabilità solo platonico del suo corteggiamento del violinista Morel e la catastrofe umiliante in cui questo rapporto per così dire pigmalionico va infine a sfociare. Tutto sembra organizzato per nutrire un insaziabile senso di colpa che, originato dal tradimento (dei genitori, della famiglia, dell’educazione, della religione) di cui l’omosessuale si accusa, esige che ogni piacere sia sempre soffocato dalla sofferenza. Quello del tradimento è uno dei temi che accomunano le due “razze maledette”: soltanto che, nel caso degli ebrei, il tradimento si consuma uscendo dal gruppo (ad esempio cambiando cognome, come farà Bloch), nel caso degli omosessuali entrando a farne parte e contraendo quindi quella malattia vergognosa, e per definizione inguaribile poiché inesistente, che ha il nome di “inversione sessuale”.

È dunque logico che, con queste premesse, i soli tentativi di seduzione destinati al successo siano quelli esenti da ogni sovrastruttura culturale, legati esclusivamente al linguaggio del corpo, quasi animaleschi nella loro naturalezza istintiva, come esemplificato con meravigliosa semplicità dal corteggiamento che – in alternativa o a completamento della famosa similitudine vegetal-entomologica di Proust – potremmo definire “ornitologico”, tanto è rapido, efficace e variopinto nella sua codificata reciprocità, fra il barone e Jupien (II, 725 sgg.).

Questo segreto di Charlus (l’orientamento sadomasochistico della sua sessualità) non sembra volerci parlare soltanto di Charlus, ma di un carattere tipico della moderna Sodoma: un tratto psicologico cui mi piacerebbe dare il nome di “sansebastianismo”, cioè una mistica e un’estetica del martirio diffusissime nel mondo degli omosessuali fino a pochi decenni or sono, e forse abbastanza diffuse ancor oggi.

Di questo atteggiamento autopunitivo, che lo condividesse o meno, certo è che Proust era perfettamente a conoscenza. Sebastiano, santo patrono del reame di Sodoma, compare una sola volta nel romanzo, in un contesto in apparenza molto diverso ma convergente nella sostanza. Si parla (I, 157) di Legrandin e della lotta interiore che si combatte dentro di lui fra il moralista a parole, che disprezza lo snobismo degli altri, e lo snob assetato di riconoscimenti sociali «che egli nascondeva con cura nel fondo di se stesso», così da sentirsi una specie di San Sebastiano dello snobismo, «crivellato e illanguidito» da mille frecce. La somiglianza con il caso del barone di Charlus, che nasconde nel fondo di sé, sotto l’esibizione tenace di una virilità esagerata (le docce gelate, le lunghissime camminate, il disprezzo per ogni effeminatezza), il desiderio che lo illanguidisce, non potrebbe essere più evidente.

Non interessa qui indagare sainte-beuvianamente fino a che punto il personaggio emblematico di Charlus rappresenti e in parte viva l’omosessualità dell’autore: ciò che conta è piuttosto osservare la vitalità indomabile con cui, fra l’io inguaribilmente naïf dell’eroe e quello espertissimo dell’autore, l’io del narratore corra senza sosta come una spola, generando un pas de trois dalle coreografie svariate e originalissime. Ciò che conta è soprattutto constatare come l’autobiografia di Proust, trasfigurandosi nell’opera d’arte, si trasformi ogni volta, per prodigio, nella biografia del lettore.

 

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Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa prevalentemente di studi di traduzione e di letteratura francese del XX secolo. È autrice dei libri Tradurre il pastiche (Mucchi, 2018) e Après Berman. Des études de cas pour une critique des traductions littéraires (ETS, 2021). Ha tradotto, fra vari autori, le Opere di Rimbaud per Marsilio (2019), e curato i volumi: Il battello ebbro (Mucchi, 2019); L'aquila a due teste di Jean Cocteau (Marchese 2011 - premio di traduzione Monselice "Leone Traverso" 2012); Tiresia di Marcel Jouhandeau (Marchese 2013). Oltre alle pubblicazioni abituali, per Nazione Indiana cura la rubrica Mots-clés, aperta ai contributi di lettori e lettrici.
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