Un’agricoltura senza pesticidi ma non biologica?

di Giacomo Sartori

 

 

 

 

 

 

 

 

Un recente intervento su STORIEDELBIO è dedicato all’iniziativa svizzera di riduzione dell’utilizzo di pesticidi, e è accompagnato da un articolo apparso a questo proposito su una piattaforma elvetica di informazione. Il progetto, iniziato nel 2019, e promosso dall’associazione dei contadini che praticano l’agricoltura integrata (IP-Suisse), è sostenuto dalla grande catena di supermercati Migros, che assicura prezzi superiori (del 30%) a quelli normali, e dal governo federale, che garantisce dei pagamenti diretti (un tot a ettaro, diverso per le varie colture, e per la limitazione di impatto scelta) agli agricoltori che accettano di non utilizzare erbicidi e/o insetticidi e fungicidi. I suoi promotori lo presentano come un’alternativa all’agricoltura biologica, o comunque una terza via tra essa e l’agricoltura convenzionale, interessante sia per i coltivatori, in quanto meno esigente e laboriosa, che per i consumatori, per i prezzi inferiori rispetto al bio. E insomma come una strada meno difficile e “più elastica” (per la possibilità di ottenere delle deroghe, e per la possibilità di aderire all’iniziativa anche per una sola coltura di una rotazione, e decidendo annata per annata), alias una scorciatoia, per mirare a risultati sostanzialmente analoghi a larga scala. Ma è davvero così? Proviamo a ragionare con calma.

Per quanto riguarda i prodotti fitosanitari e i diserbanti, nell’agricoltura convenzionale vige in generale il (tacito) principio della massima efficacia, riferita alla quantità e alla valutazione di mercato del prodotto: si preferisce trattare molto, e massicciamente, per essere sicuri del risultato. Per ragioni prima di tutto economiche, perché si mira al massimo delle rese, e perché per molte colture il minimo difetto dei raccolti comporta un drastico deprezzamento, se non l’impossibilità di smercio. Qualsiasi iniziativa seria per ridurre il loro (eccessivo) impiego rappresenta quindi uno sforzo estremamente positivo, e va caldamente incoraggiata. Si può forse fare un parallelo con la salute umana e animale, che ci è forse più famigliare: con una somministrazione indiscriminata, o anche preventiva (utilizzata nella maggior parte degli allevamenti, fuori dall’Europa), di medicinali si ha la massima sicurezza riguardo alle singole patologie. Mentre un uso più oculato e ridotto comporta vantaggi di vario tipo (limitazione dei temibilissimi fenomeni di resistenza, riduzione degli effetti secondari, risparmio economico…), anche se certamente è più delicato, e può tradursi in una percentuale di individui ammalati superiori.

La differenza capitale è che se si perde una parte del raccolto riducendo gli insetticidi, gli antifungini o i diserbanti, non muore nessuno. E anzi, molti organismi utili, che sono vittime collaterali, possono trarne vantaggio, con una maggiore “salute generale”, misurabile in particolare in termini di biodiversità, di resistenza alle avversità della coltura, e di una minore esposizione degli operatori. E questo a scala aziendale, ma anche planetaria, a dispetto degli allarmismi che agitano strumentalmente la bandiera della fame, visto che produciamo di più di quello che consumiamo. Il danno può quindi essere meno grande di quanto sembra, o anzi nascondere un guadagno, facendo una contabilità economica che include anche i costi ambientali, presenti e futuri. Quest’ultimo modo di valutazione non è però quello dell’agricoltura industriale, il cui unico diktat è che le singole aziende producano il più possibile, in modo che i loro bilanci siano, nell’immediato, i più favorevoli. Qualsiasi costo ecologico e/o indiretto (per depurare le acque delle falde, per curare le patologie umane degli addetti e dei consumatori, per rigenerare i suoli…), qualsiasi danno inferto ai beni comuni (in particolare le degradazioni irreparabili dei suoli) o al pianeta (gas a effetto serra), o alla salute umana, non viene contabilizzato.

In ogni caso non basta porre degli obiettivi di impieghi più moderati, bisogna che gli agricoltori, che sono i diretti interessati, ci credano e si sentano accompagnati in questo percorso, che per loro è più complicato – ci vogliono più attenzioni – e non certo privo di rischi, a fronte di margini economici più spesso ridottissimi. Hanno bisogno in altre parole di garanzie di smerciabilità, di compensazioni economiche nel caso le rese risultino inferiori, di un efficiente supporto tecnico. Qualsiasi seria iniziativa che vada in questo senso, come quella svizzera, va quindi considerata molto positivamente, e caldeggiata. In realtà anche la Germania, sulla base di trentennali esperienze spontanee precedenti, ha avviato nel 2023 un programma governativo similare, e anche qui gli agricoltori che aderiscono (sempre su base volontaria, e anche per singoli appezzamenti), ottengono una compensazione a ettaro. Lungi dal rappresentare progetti marginali, nei due casi si stima che potrebbero essere convertite superfici notevolissime: 40-70% delle terre arabili (nel 2027) in Svizzera, e 11% (nel 2030) in Germania. E questo è senz’altro un fattore importantissimo.

L’errore del Green Deal dell’Unione Europea, era proprio questo, fissare degli ambiziosi e ben precisi obiettivi (la strategia “Farm to fork” mirava a un decremento del 50% dei pesticidi entro il 2030) senza promuovere coerenti misure che aiutassero a raggiungerli. Una delle ragioni delle recenti proteste degli agricoltori è proprio questa, e quindi l’obiettivo è stato cassato, anche se si continua a ritenerlo molto auspicabile, sulla base dell’opinione unanime di tutti gli esperti dell’ambiente. Ma pure il piano francese “Ecophyto”, lanciato già nel 2008, e finalizzato anch’esso a diminuire della metà l’uso dei pesticidi (il termine, inizialmente fissato al 2018, è poi slittato al 2030), anche qui senza contropartite, è stato quest’anno prima congelato, sempre a causa delle proteste degli agricoltori, e poi riavviato svuotandolo di fatto di ogni possibile efficacia. Nella nuova versione esso utilizza infatti un nuovo indice di misura che assicurerà il raggiungimento della soglia di diminuzione senza nulla cambiare, visto che esso conteggia anche i decrementi dovuti alla progressiva messa al bando dei composti da parte della UE.

 

OCULATEZZA VS VISIONE ECOLOGICA

Il nocciolo del problema è però un altro: fino a che punto si può spingere questa oculatezza delle somministrazioni, quanto si possono diminuire gli utilizzi dei prodotti chimici nocivi, mantenendo immutate le tecniche di coltivazione, o insomma con variazioni relativamente limitate? Per rispondere in modo serio bisognerebbe analizzare le varie colture nei vari ambienti, ascoltando quello che ne dicono i relativi conoscitori (non solo quelli succubi dei potentissimi – anche proprio nell’orientare i modi di pensare e i dibattiti – colossi che producono i pesticidi), gli agroecologi e gli studiosi dell’ambiente e della biodiversità, e naturalmente i coltivatori. Ma certo, parlando in generale, c’è del margine. E in qualche caso molto, in particolare per la cerealicoltura: non a caso queste esperienze partono da quella. Soprattutto se davvero si introducono alcuni cambiamenti nelle pratiche colturali che facilitano le cose (in Svizzera i promotori dell’iniziativa auspicano che si possa agire sulle rotazioni, che rendono gli attacchi meno intensi, sulle varietà resistenti, il controllo meccanico delle infestanti…). E se si accetta la contropartita di contenute diminuzioni delle produzioni, che vanno appunto rapportate con i minori costi economici indiretti riguardanti l’ambiente e la salute. E se la grande distribuzione e i consumatori sono pronti a accettare prodotti esteticamente meno perfetti. Tutte cose possibili.

Certo però grandissimi e maggioritari comparti dell’agricoltura industriale – senza parlare della frutticoltura e delle colture orticole – non possono e non potranno fare a meno di un impiego massiccio di pesticidi. Proprio perché si basano solo su quelli, e non su strategie complessive (ecologiche) di coltivazione ben più delicate da mettere a punto e da mettere in atto, perché presuppongono la presa in conto dei complicati e soprattutto molto vari funzionamenti della natura nei singoli ambienti. Per risolvere i problemi, che ora nessuno più nega, si fa un grande affidamento sulle tecniche di precisione spaziale, sull’intelligenza artificiale, su prodotti innovativi non tossici per la difesa delle colture e di stimolazione della crescita, ma i reali apporti sono ancora da venire, e tutti da dimostrare (mentre i costi sono molto elevati, impensabili per le agricolture povere). È utopico aspettarsi dei miracoli.

Gli stessi miglioramenti delle varietà con tecnologie genomiche, dei quali si fa un gran parlare, e sui quali si conta moltissimo, non hanno dato finora un grosso aiuto in questo senso, o insomma i vantaggi sono prestissimo scomparsi. Se si trattasse solo di agire su una o due leve, se la soluzione fosse così semplice (senza parlare dei costi economici e/o energetici), come le agroindustrie per interesse fanno credere (vendono loro gli strumenti che permettono di manovrarle), le enormi difficoltà dell’agricoltura attuale sarebbero presto accantonate. Molti studi recenti ci dicono, tanto per fare un esempio, che anche le concimazioni chimiche, che non vengono considerate dall’iniziativa svizzera di cui parliamo, quasi fossero un fattore che non c’entra nulla (o che anzi può palliare almeno in parte, tenendo alte le dosi, la diminuzione delle rese), hanno notevoli effetti negativi sulle patologie e sugli attacchi alle piante, e sulla vita del suolo, e insomma si ripercuotono sull’utilizzo di pesticidi, che diventano il necessario rimedio (e insomma il corollario).

Già nella prima parte del secolo passato, gli agronomi più validi e più illuminati – e l’ottima scuola italiana, che abbiamo dimenticato, era all’avanguardia – si sono invece resi conto che non si poteva agire su una sola leva (come fa l’agricoltura convenzionale), o su poche leve (come preconizzano queste nuove impostazioni). Che bisogna avere una visione globale dei campi coltivati, partendo dal suolo e dal suo funzionamento, e coltivare rispettando il più possibile i meccanismi naturali degli agrosistemi – che quindi vanno studiati – assecondandoli il più possibile, approfittando delle loro particolarità per piegarli alle nostre necessità. Questo è il solo e unico fondamento comune dell’agricoltura biologica e di ogni forma ecologica di coltivazione (permacoltura, agricoltura biodinamica..), le quali contrastano i “nemici” delle colture con più armi, prima di tutte la prevenzione, e strategie adatte alle varie situazioni messe a punto con gli stessi coltivatori, e valutate per tutti i loro effetti (e le tante interazioni). Un secolo di esperienze, e di costante crescita del comparto biologico, hanno dimostrato che è possibilissimo coltivare in questo modo, producendo cibi sani e abbattendo drasticamente i danni all’ambiente. Certo però è molto meno facile, e in genere relativamente più costoso, almeno se ci limitiamo alla contabilità di comodo che ci ostiniamo a utilizzare, che non include le stratosferiche fatture ambientali e sanitarie.

 

LEVE VS IMPOSTAZIONE ECOLOGICA

Alla luce di tutte queste considerazioni mi sembra molto interessante il recente elaborato, coordinato dall’INRAE francese, e scaricabile sulla rete, al quale hanno collaborato alcuni tra i migliori esperti europei. Esso cerca di valutare le reali prospettive future di queste iniziative di riduzione delle sostanze nocive di origine sintetica. Lo fa adottando una visione d’insieme (la globalità dei sistemi alimentari, comprendendo anche i consumatori), e ipotizzando tre diversi scenari, di crescente intensità/profondità, sebbene tutti finalizzati all’obiettivo di una Europa senza pesticidi di sintesi nel 2050. E provando a esemplificare ciascuno di essi con alcune colture tipiche di ambienti europei molto disparati.

Le sue conclusioni sono che le probabilità di successo, mantenendo al contempo la sovranità alimentare europea, sono alte, anche nello scenario più “soft” (quello che non prevede un cambiamento nelle abitudini alimentari), se però verranno utilizzate al contempo diverse leve. Tra le principali di queste sono la diversificazione delle colture nello spazio (biodiversità) e nel tempo (rotazioni), i miglioramenti varietali, la messa a punto di formulati di “biocontrollo” (microrganismi, induttori di resistenza…) per la difesa delle colture, un sostanziale incremento delle conoscenze (suoli, piante, microganismi), un miglioramento dei regimi alimentari umani (minori consumi di zuccheri, di grassi e di carne). Si noti che queste misure sono le stesse preconizzate e utilizzate dall’agricoltura biologica, anche se qui non è posta al centro la visione olistica che caratterizza quest’ultima, assente nel primo scenario, e appena abbozzata nel secondo.

Il fatto che queste nascenti iniziative di riduzione delle sostanze nocive  preconizzino di utilizzare più strumenti al contempo, almeno nelle intenzioni, le avvicina senza dubbio al modo di vedere di chi da decenni (per non dire un secolo) sottolinea la necessità di una visione ecologica dei campi coltivati e dell’alimentazione umana. La differenza tra le due impostazioni è però sostanziale, e è oggettivamente fuori luogo metterle sullo stesso piano. Alla luce della storia passata, è esemplare il caso dell’introduzione degli OGM, agire su una leva da sola, o ben che vada su poche leve, può portare a problemi ben più grossi di quelli iniziali. I tentativi di riduzione, che difficilmente si accompagneranno a radicali cambiamenti dei territori agricoli e del fare ricerca (quelli previsti dal terzo scenario dello studio citato), daranno verosimilmente buoni risultati per le colture meno problematiche, e in particolare i cereali. Si vede però male come potranno funzionare su colture più delicate/fragili (in altre parole più lontane da un equilibrio ecologico) e negli ambienti meno favorevoli, per particolarità legate al microclima (nei climi umidi gli attacchi fungini, ad esempio, sono molto più gravi), ai suoli…

Le reali potenzialità di queste esperienze potranno essere valutate in base agli effettivi risultati, e in base alle difficoltà che incontreranno. Si intravede però un’analogia con la rivoluzione verde, che ha permesso l’insediamento dell’agricoltura industriale – a scala mondiale – nelle aree pianeggianti più fertili, e ha devastato gli ambienti collinari e/o poveri. È probabilmente nei contesti agrari ecologicamente meno sbilanciati che queste strategie daranno il meglio, mentre gli altri saranno lasciati nelle grinfie dei pesticidi. I fattori discriminanti sono altri, ma anche qui non si può astrarre dalle potenzialità e dalle problematicità delle singole aree agricole per le singole colture. E anche qui c’è una acritica e non contestualizzata fiducia nelle tecnologie (in questo caso le nuove tecniche genomiche, l’intelligenza artificiale, e gli strumenti di precisione spaziale).

 

GLI INNEGABILI SUCCESSI DELLE AGRICOLTURE ECOLOGICHE

L’agricoltura biologica è invece una realtà di fatto, che ha dimostrato di poter produrre negli ambienti più diversi senza pesticidi di sintesi (diventa pretestuoso mettere l’accento solo su qualche composto più problematico che è consentito dalle legislazioni), senza concimi chimici e limitando drasticamente i danni ai suoli e all’ambiente. Il suo successo – con superfici più o meno ragguardevoli negli ambienti più diversi – indica una via percorribile nell’immediato, senza investimenti da capogiro, e anzi nella morigeratezza di materie prime e energetica. Si sottovaluta l’enorme peso di questo periodo di prova che ne attesta la fattibilità, quando non molti decenni orsono le accademie agronomiche dei vari paesi la consideravano all’unisono completamente velleitaria.

Ma certo per agricoltura biologica si può intendere anche il semplice rispetto – con strategie solo economiche e di mercato – dei limiti di legge delle regolamentazioni, ignorando la filosofia di base. E pensando che le leve disponibili si limitino al rispetto, con più o meno scaltrezza, delle normative. Oggi l’agricoltura biologica è anche questo, con una visione (anti)ecologica che è assimilabile a quella dell’agricoltura convenzionale, anche se le sue tecniche colturali sono meno impattanti. Lo sanno bene le sue stesse organizzazioni nazionali e internazionali. Per tagliare la testa al toro, si potrebbe usare il termine di agroecologia, se non fosse che anche questa etichetta viene sempre più spesso scippata per sistemi colturali ben lontani dai fondamenti della tradizione agronomica con una visione olistica.

Senza perdere tempo a questionare sui termini, credo che il comparto biologico e delle agricolture ecologiche debba continuare per la sua strada. Con la fierezza dei risultati raggiunti, in termini di superfici coltivate, di parti del mercato, di tecniche messe a punto, di crescente validazione dei principi di base, di consapevolezza dei consumatori, di affidabilità dei metodi di controllo. Ai quali aggiungerei ora anche quest’altro enorme risultato, che proprio tali iniziative dimostrano: anche l’agricoltura convenzionale sta rendendosi conto, trainata a ben guardare dal suo esempio, che bisogna agire su più leve. In altri parole essa è costretta a cominciare a rinunciare alla visione completamente miope che l’ha caratterizzata per una ottantina di anni: si tratta di una apertura di paradigma che non va sottovalutata. Del resto sono anni che osserva l’agricoltura biologica, e copia da lei tecniche e astuzie. Certo lo fa a modo suo, incallendosi a pensare che l’uomo tutto possa e tutto possa sottomettere, e con un immotivato e irrazionale culto delle tecnologie, quasi queste potessero palliare ai danni della completa cecità ecologica. Mi sembra pur sempre una forma di ammissione di impotenza, se non addirittura – a essere ottimisti – l’inizio di una svolta epocale.

Forte dei suoi innegabili successi, l’agricoltura biologica deve quindi continuare per la sua strada, migliorando le sue tecniche e i suoi saperi, badando a non perdere per strada i suoi fondamenti, e anzi rimettendoli al centro della sua pratica. Con la consapevolezza che purtroppo non ci sono scorciatoie: la natura è maledettamente complessa, e le miriadi leve sulle quali dobbiamo agire se vogliamo smettere di combinare disastri, a ben guardare sono le sue, non le nostre. Gli approcci che rifiutano di prenderne atto inevitabilmente si scontrano con la realtà. Senza chiusure di fronte a queste iniziative parziali, che con i loro limiti vanno viste come estremamente positive (sarebbero altamente auspicabili anche in Italia!), ma rifiutando che vengano utilizzate per continuare – anche solo surrettiziamente – a stigmatizzarla, denigrarla, ridimensionare la sua portata, offuscare la sua immagine, o celarne la capitale importanza per l’insieme del comparto agricolo e alimentare.

 

NdA Questo pezzo è uscito il 29.09.24 sul STORIEDELBIO con il titolo UN’AGRICOLTURA SENZA PESTICIDI MA NON BIOLOGICA? (Leve da azionare vs agroecologia). L’immagine: vigneti del Prosecco (Farra di Soligo).

 

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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