Gianluca Didino: « fuggivamo dal regno dei morti»
Esce oggi per Tlon edizioni La figura umana. Friedrich, il contagio romantico e l’apocalisse di Gianluca Didino.
Ne ospito qui un estratto in anteprima.
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Ho desiderato lasciare il mio paese natale da che ho memoria. Non ha nulla di tremendo: ora che abito lontano da quasi vent’anni sono contento di tornarci a Natale e per le vacanze estive. Ci sono due laghi e colline di faggi. In poco più di un’ora raggiungi Milano e Torino, le montagne, il mare e la Svizzera. Da ragazzino mi piaceva la sua pianta romana con i quattro corsi che si intersecano al centro, mi sembrava un mondo chiuso, una specie di mandala. Ho ancora degli amici e dei ricordi, alcuni belli.
Eppure se ripenso alla mia infanzia sento sempre questa sensazione, come se l’esistenza fosse fatta di sabbia e mi stesse sfuggendo tra le dita. Era – è – qualcosa di fisico, una vibrazione che si fa più intensa da qualche parte tra lo stomaco e i genitali. Mi sentivo spesso soffocare: lo stesso mondo chiuso che mi forniva protezione mi succhiava l’aria dai polmoni. Fin da piccolissimo mi innamoravo spesso, soprattutto di ragazzine tedesche conosciute al mare che non avrei rivisto mai più. Avevano nomi esotici: Micaela, Elke. Li collezionavo. Collezionavo anche figurine di animali, minerali, imparavo i nomi delle piante sui volumi rilegati in tela rossa dell’enciclopedia Conoscere. Sognavo i grandi spazi del West americano, volevo essere un pioniere e dormire nel fango. Da adolescente camminavo per ore nei boschi dietro casa, intervallati da sfasciacarrozze e campi di granturco marcescente. Quello struggimento non mi abbandonava mai. A modo suo era un’allucinazione, ma cos’è la vita se non un’allucinazione?
Questa era una domanda che non mi ponevo mai, perché all’epoca non pensavo di essere sotto l’influsso di qualche potere esterno. Lo struggimento era così connaturato alla mia esperienza da farmi credere che non fosse possibile un altro modo di esistere, o almeno che questo modo di esistere fosse inscindibile dalla mia natura: io sono lo struggimento. Tutto cambiò un giorno di marzo del quarto anno di liceo, verso le dieci di mattina.
Era l’ora di filosofia. Eravamo quasi alla fine del secondo volume del sussidiario di Abbagnano e Fornero, quello che andava dall’Illuminismo a Hegel. La primavera rendeva attraente il color verde oliva delle pareti e l’odore di sudore delle mie compagne di classe. Fuori dalle finestre socchiuse c’era un vento che non si vedeva, una morbidezza nell’aria. Il mio sguardo era rimasto impigliato tra le montagne azzurre oltre i confini del paese.
Il Viandante era stampato a pagina intera sotto la scritta IL ROManTIcISMO. Altre montagne azzurre. Un altro orizzonte, ma in fondo lo stesso.
L’avevo già visto? Probabilmente sì, e probabilmente non lo ricordavo. Per gli gnostici ogni illuminazione è una memoria perduta.
Amavo la filosofia, era una delle mie materie preferite, ma non mi era mai capitato prima di riconoscermi in maniera tanto totale in una corrente di pensiero. Il fatto che l’ultimo appartenente a quella corrente fosse morto due secoli prima aveva qualcosa di macabro. Eppure quelle voci di morti parlavano a me, parlavano di me: Sehnsucht era il nome della mia malattia, esotico come i miei amori estivi. Da quanto tempo ero malato senza saperlo? Si poteva guarire? Volevo guarire?
Fu a quell’epoca che io e S. diventammo amici. Ci incontravamo la sera nella taverna di casa sua complottando la grande fuga dal paese. Facevamo piani grandiosi, senza ritegno: avremmo vissuto a New York, a Berlino, saremmo diventati artisti. Il nostro era un matrimonio di convenienza: S. era più edonista di me. Io non volevo il piacere, quando lo incontravo lo rifuggivo. Eppure lo bramavo. Più di tutto volevo quei nomi perduti: Micaela, Elke. Li volevo e volevo che rimanessero perduti. Volevo perdermi nella natura. Avevo strappato la riproduzione del Viandante e l’avevo appesa sopra il letto della mansarda in cui dormivo. Quell’estate, nel caldo umido dell’adolescenza, il tubare delle colombe mi chiamava a un’avventura. Guardavo l’uomo di spalle, il grigio scuro del suo cappotto che assorbiva la luce, il grigiazzurro vago delle montagne. L’uomo era un buco nero. L’orizzonte era irraggiungibile.
Come il soggetto vittima di autoscopia incontra se stesso sotto forma dell’altro, o forse l’altro sotto forma di se stesso, scoprire che i miei pensieri non erano originali era allo stesso tempo minaccioso e rassicurante. Se la Sehnsucht non era mia, allora doveva venire da qualche parte, ma da dove? Chi aveva deposto il seme di quell’idea nella mia testa, e quando? Una seconda crisi dell’adolescenza si stava prefigurando sotto forma di spersonalizzazione: se ciò che credevo essere solo mio non era mio, cosa restava di me? Allo stesso tempo, però, sapere che stavo camminando su una strada già tracciata aveva i suoi vantaggi: senza che avessi mai osato chiederla, mi veniva fornita una mappa per interpretare le mie emozioni, un codice per decifrare il crittogramma del futuro. Sapere che il viandante non ero io mi permetteva finalmente di diventare il viandante.
S e io ci aggiravamo per i corridoi del liceo come la cellula eversiva di un partito politico composto di due persone. Fumando sigarette sulle scale, all’uscita da scuola, guardavamo i genitori che venivano a prendere i nostri compagni con auto costose su cui riversavano il loro desiderio mutilato. Quei quarantenni invecchiati anzitempo, intrappolati in una routine mortale di partite di calcetto il giovedì e amanti contrabbandate nei viaggi di lavoro, erano tutto ciò che non volevamo diventare. Fu così che facemmo l’uno all’altro la promessa tacita che ci avrebbe legato per i decenni a venire: avremmo continuato a camminare verso l’orizzonte e – siccome fuggivamo dal regno dei morti – non ci saremmo guardati indietro.