Il cuore del mondo
di Luca Alerci
Vincenzo Consolo lo incontrai, viandante, nei miei paesi sui contrafforti dell’Appennino siciliano. Andava alla ricerca della Sicilia fredda, austera e progressista del Gran Lombardo, sulle tracce di quel mito rivoluzionario del Vittorini di Conversazione in Sicilia. Era un pomeriggio d’inverno, freddo e livido: solo al tramonto, le nuvole divennero ocra e rosse sfiorate dal sole. Stavamo visitando un piccolo borgo, Villadoro d’Altesina. Parlava molto dei suoi anni milanesi, i primi, dei suoi studi di giurisprudenza. Discuteva con Liborio che non rinunciava neanche in quelle occasioni alle sue iperboli: “Vicì – gli diceva – la mia casa è il centro del mondo.” Lo guardavamo tutti un po’ stupiti, ed era quello che voleva. “Ma è naturale” continuava. “Il Mediterraneo è il centro del mondo, la Sicilia è al centro del Mediterraneo, la nostra città è al centro della Sicilia, la mia casa è al centro della città. Mi pare ovvio, no?”
Consolo sorrideva, con il suo sguardo troppo simile a quello dei suoi personaggi: insinuante ma aperto, acuto ma ingenuo, forte ma delicato.
“Sa avvocato?” Così si rivolgeva al mio amico Rino: “Io la invidio. Anch’io avrei voluto continuare sulla strada della legge. Si impara molto nei tribunali, e ancor di più quando si ascoltano le confessioni dei clienti.”
Rino rispose con la consueta arguzia: “si imparano troppe cose, troppe per continuare a voler imparare.”
C’era una grande sintonia tra Rino e il nostro Consolo, la condivisione della passione per la giurisprudenza. Il crepuscolo, intanto, si stendeva lieve sulle strade solitarie: era tardi, bisognava rincasare e accompagnarlo all’albergo. Ma Liborio non voleva, era abituato ad uscire la notte, ad ascoltarla. Io dovevo rincasare per forza. Si decise di rientrare, per quella sera. C’eravamo tutti al rientro: Danila ci aveva raggiunti e con la sua consueta delicata premura, aveva portato il mio piccolo registratore e la macchina fotografica. Avremmo voluto e dovuto realizzare un’intervista, lei che scriveva per Il giornale di Sicilia, ma non so perché la rimandavamo continuamente, forse perché non volevamo in verità fermare sul foglio le emozioni di quelle sere, dei lunghi pomeriggi a spasso tra i monti. Eppure, una cosa Danila riuscì a chiedergli delle tante domande che si era preparata: cosa resta del laboratorio della letteratura siciliana? Consolo ci pensò su e poi le disse: “dipende da voi, dalla vostra generazione”. “Non granché allora – rispose amara Danila – non granché”.
Il giorno dopo quella passeggiata, lo andammo a prendere di buon mattino: ci aveva chiesto di salvarlo da non so quale conferenza o cenacolo organizzato per lui. Troppe parole, troppo rumorose soprattutto. A me dispiaceva in realtà assecondarlo e non perché non volessi continuare a chiacchierare con lui, da soli. Mi dispiaceva però tradire il nostro amico professore che tanto aveva desiderato questi incontri. Alla fine restammo, ma non mancò la possibilità di un’ultima discussione tra noi, all’ombra del duomo. Consolo mi disse: “anch’io sono nato nel Val Dèmone, eppure qui c’è aria di montagna, siete fortunati.” Io gli citai naturalmente Le città del mondo, le descrizioni oniriche di questi borghi osservati dai silenzi della vita nomade di Rosario e del padre, le scene delle fanfare nelle campagne, quasi metafisiche, ma che parlavano invece di lotte dure, di sacrifici, di emancipazione negate o tradite o mai raccontate.
“Questa è la mia città – dissi. Mi dispiacerebbe andare via.”
Consolo mi rispose che non c’era più bisogno di andare, non era più come ai suoi tempi. Poi mi disse, a proposito dei discorsi che aveva ascoltato tra noi su Tomasi di Lampedusa: “ho di recente riletto ancora tutto il carteggio di Vittorini e Mondadori. Le sue parole sul Gattopardo sono state sempre travisate o forse neanche mai lette veramente. È piaciuto creare questa contrapposizione. E te lo dice uno che secondo molti ha scritto l’anti Gattopardo (si riferiva ovviamente a Il sorriso dell’ignoto marinaio).”
Nella primavera di quello stesso anno, nonostante mille problemi, decidemmo di andarlo a trovare per invitarlo a settembre in vista di un premio che la mia scuola voleva consegnarli. Era a Siracusa. Faceva già caldo, sulle coste, quel caldo denso che non capirò mai come si riesca a sopportare per cinque mesi all’anno.
Aveva poco tempo, e ci fu solo l’occasione di prendere un tè nel piccolo salottino dell’albergo, a Ortigia.
“Ciao Vicì” gli disse Liborio. “A settembre, quando ci vedremo di nuovo da noi, ricordami che ti devo fare avere il bellissimo libro di Michele Anzalone, Favole a Castroforte. Ne parlavamo l’altra volta. Ci sono i protagonisti della nostra città, una città che non è però stata protagonista di nulla…”
“Con piacere, certo che mi ricordo”, rispose. “Sai Liborio, c’è una cosa che volevo dirti. Non l’avere a male, ma devo confutare la tua teoria sulla non necessità dell’arte, ma forse ne parleremo a settembre, sei troppo attento ora.” Rise, e noi con lui, perché aveva ripreso una delle illuminazioni di Liborio quando voleva spostare il livello del discorso. Liborio era un grande artefice, creava racconti con la terracotta, la ceramica, il metallo, il legno, piccole increspature sopra la fronte di una statuetta che diventavano narrazioni: qua, qua è il racconto, ammoniva. Era la nostra guida, quando ci raccontava di Guttuso, delle manifestazioni a Roma dove lo chiamavano il Ciciliano, dell’avventura bella e dannata del PSIUP, “dell’acqua d’acqua” a proposito dei suoi esperimenti creativi nelle campagne di Piazza, dei suoi tormenti, ben nascosti tra i sorrisi beffardi.
“Non bisogna mai guardare le cose troppo da vicino” continuò Consolo. “Bisogna osservare la vita, raramente parteciparvi.” Diceva così in quei momenti di fronte al livido scirocco sul mare dei Greci.
Doveva andare, e noi rientrare. “Allora, ci vediamo a settembre” disse. “Magari prima venite a Sant’Agata, da me. Voglio farvi vedere il mio mare del Val Dèmone, e poi ce ne saliamo sui monti, a guardare il cielo da vicino.” Furono strane parole.
Ma quel settembre non arrivò mai: quando lui tornò, noi non potemmo andare. Impegni di lavoro, per lo più.
Eppure ci sarebbe bastato, come ci aveva suggerito, valicare i Nebrodi tra Cesarò e San Fratello, nel cuore della faggeta di Sollazzo verde, solenne sotto Monte Soro, sino al mare di Sant’Agata. Un breve viaggio, due ore, nella Sicilia che era stata al centro della sua descrizione del Risorgimento degli ultimi.
Ma no, non ci andammo né allora né più mai.
Ricordo ancora una delle sue illuminazioni, la prima volta che ci incontrammo: sapeva cosa pensavamo prima che lo pensassimo (non dovrebbero fare questo gli scrittori?).
“La letteratura in Sicilia”, ci disse con tranquilla fermezza, “ha perduto la propria visione unitaria, non segue più la ricerca degli ‘altri doveri’ di Vittorini. Non è per forza un male, anche se sembrano prevalere delle letterature di solo intrattenimento, neo rusticane. Ma capisco la vostra amarezza. Eppure non voglio pensarci ora, portatemi in giro tra queste nuvole basse accagliate tra le rocche.”
Era felice, quella sera, aveva trovato forse ciò che era venuto a cercare, chissà. Camminammo a lungo, a braccetto. Ad un certo punto, la nebbia ce li nascose, lui e Liborio, scomparsi. Riapparvero dopo qualche minuto, ma sono sicuro che per loro erano passati anni, all’indietro, tanto felici e vivi erano i loro sguardi.
“C’era Vittorini appoggiato ad un portone” ci disse Consolo guardando Liborio. “Era lì che si stava accarezzando i baffi e io gli ho detto se voleva venire a conoscervi, giovani e affiatati come i Dioscuri. Ma era impegnato, doveva raggiungere altri amici. Ci ha detto che tornerà. Aspettatelo, tornerà.”
Liborio e Consolo ripresero la passeggiata.
Noi guardavamo lontano, nonostante la nebbia. O forse proprio grazie a lei.