Tiziano
di Federica Rigliani
Il padre di Martina e il mio collega Tiziano furono per me lame di una forbice. Il primo non c’è stato mai, ha sbagliato una volta e per sempre. Tiziano invece riempiva uno spazio fisico da cui fu allontanato troppo tardi. Lui ha sbagliato tante volte. Una dietro l’altra.
Mia figlia non aveva figure maschili di riferimento. Costretto a darle il cognome e una retta mensile, il padre se ne era andato dopo “l’incidente”, perché di incidente si è trattato, aveva ribadito a fine sentenza. Il mio, di padre, è morto prima che lei nascesse e Martina zii non ne ha. Sono figlia unica.
Le ore senza lei erano per me lavoro o emergenze, i servizi li sbrigavo prima di andare a riprendermela e agli aperitivi avevo rinunciato: lasciarla da mia madre era come rubare il tempo alla bambina. E non c’era sorso di Campari che non andasse giù storto.
La prendeva alla materna e la teneva con sé fino al mio ritorno. Come se avesse avuto un orologio interno, Martina si faceva trovare sulla porta con la giacca in mano che strusciava sulle mattonelle. Quindi gliela infilavo, salutavamo la nonna e ce ne andavamo al parco, in piazza o a casa nostra, a sfogliare libri sonori e costruire aerei con i Lego.
Le dicevo che ero il faro del nostro mare. Che nessuno mi avrebbe spento. Mi correggeva, no, mamma. Il faro è uno, tu sei due. Allora mi convincevo che stavo facendo bene. Che ci bastavamo da sole, noi due.
Tiziano entrò in azienda al tramonto di un giorno primaverile. La luce che filtrava dall’ingresso accendeva i suoi capelli ramati. Neoassunto part time alla Distribuzione, prima lo aspettavo per le consegne, poi per il caffè alla macchinetta. Infine lo aspettavo, lo aspettavo e basta. Non lo sapeva, forse lo sentiva, però. Perché a fine turno mi lasciava un Bacio di cioccolata sopra la tastiera del computer. Non sapeva nemmeno che conservavo i biglietti, che rileggevo col sorriso cretino assaporando un bacio di carne nella fantasia di un abbraccio.
E se vengo quando stacchi e ti porto via?
Ho risposto no per mesi. Poi ho detto: giusto al bar qui davanti.
Con lui gli aperitivi scendevano dritti. Le parole si alternavano al tintinnio del ghiaccio, alcune rimanevano masticate il tempo di una pizzetta, altre si dilatavano in sorrisi. Martina era ogni volta un racconto diverso, una foto, un gioco che mi ritrovavo in borsa.
Non me lo ricordavo il mondo svanirmi intorno e non mi riconoscevo nell’eccitazione che sentivo vibrare addosso. Mi ritrovavo pienamente, però, nell’intento razionale di bloccarne l’impulso con freddezza.
Devo tornare metteva fine al tempo libero che mi concedevo.
Non accettare passaggi teneva Tiziano lontano da casa nostra.
Conobbe Martina una domenica pomeriggio di due anni dopo, poco meno, poco più.
Lei esclamò c’hai i capelli rossi come i miei. Lui la scarmigliò da sopra il cerchietto con tutte e cinque le dita e prendendola per mano rispose no, i miei sono scoloriti. Martina lo scrutò dal basso e ridendo disse però i puntini sulle guance non ce l’hai.
S’incamminarono un passo avanti me.
Rimasi a guardarli di lato, come una pratica in scadenza su una scrivania.
A Tiziano permisi di fare capolino nelle nostre vite, poco alla volta e in punta di piedi: passeggiate, giostre, giardini, parchi, cinema. Quello, sì. Se si fermava a dormire, però, arrivava che Martina era a letto e andava via prima che lei si svegliasse. Anche quando mia madre partì per la crociera. Non potendo permettermi una babysitter, consegnai una delega alla scuola e andò lui a prendere Martina quei giorni. Anche oggi viene Ano? chiedeva lei al mattino. E lui si offrì di farlo anche dopo. Era attento con la bambina, lontano da un rapporto paterno ma accorto e premuroso.
Prima di chiamare me, la maestra Lisa aveva parlato con lo psicologo.
Non avrebbe voluto chiudere l’anno scolastico così, sarebbe andata in pensione a fine giugno e sperava in una festa con le bandierine colorate e il saluto delle colleghe. Lei, che non aveva avuto figli, era la mammestra degli gnomi che la chiamavano mamm, e appiccicavano estra per correggersi. Aveva i piccoli. Classi miste tre – cinque anni.
Tutti figli suoi. Tutti.
Per questo doveva capire.
Ricordo il pomeriggio della convocazione. Un caldo, non si respirava nell’aula.
Il disegno di Martina era ricco di particolari e di colori. Quattro tratti rosa erano un grande letto. C’erano un adulto e una bambina sdraiati, si capiva dalla grandezza delle teste e dalla lunghezza dei corpi stilizzati.
Lei, nuvola rossa, due tondi verdi per occhi e puntini marroni sulle guance, aveva una mano all’altezza dell’inguine dell’uomo.
Lui, longilineo e capelli arancioni, una linea dritta tra le gambe.
Coprii la bocca con la mano. Sentii il menisco sinistro ballare.
Avrebbero potuto far finta di niente, sostenere che i piccoli hanno fantasia. Che mentono. Ma il dubbio della maestra Lisa era troppo grande. Così non mi tirai indietro quando lo psicologo chiese di incontrare la bambina. Sono casi delicati. Bisogna saper chiedere ed entrare in profondità nelle risposte. Una linea può essere tante cose. Non va interpretata. Chi l’ha fatta deve dirti cos’è, aveva detto.
Iniziammo le sedute che Martina aveva quattro anni, usava tante parole e si faceva capire bene.
– Che cos’è questo? – Chiedeva lo psicologo.
– Il parco. – Rispondeva lei.
– E lui chi è? – Chiedeva lo psicologo.
– Zio Tiziano. – Rispondeva lei.
Martina e Tiziano al parco e alle feste di compleanno.
Martina e Tiziano in piscina, sono in acqua e sorridono.
Martina e Tiziano escono da un negozio di giocattoli.
Andammo avanti mesi. Nel disegno con i dolci e i gelati, Tiziano era in piedi con un cono tra le gambe. Martina diceva che quando giocavano a lecco io che lecchi tu, lui sapeva sempre di un gusto diverso.
In quello sul divano, invece, era sola. Si era disegnata addosso due mani enormi, tutt’intorno svolazzavano cuoricini e accanto a lei c’era una bambola. Mi fa compagnia sotto ai cuori dell’amore, disse chiudendo a cuore le braccia sulla testa.
L’ascoltavo. Intrecciavo le dita a ogni parola.
Tiziano aveva cominciato accompagnandola in luoghi familiari dove la bambina incontrava i compagni e le loro mamme. Poi la piscina. Lui voleva stare sempre in acqua e mentre facevano il bagno la accarezzava. Ti voglio bene, le diceva. Smise di portarcela quando le comprò la bambola. La metteva nella vasca perché la piscina ce l’aveva a casa sua e non serviva pagare il biglietto, raccontava Martina. Che disegnò quella bambola. Con le lentiggini e un buco tra le gambe. L’aveva fatto lui. Ci infilava un dito e su e giù, su e giù. Le faccio il solletico, senti come ride? E lei si divertiva al pensiero che la bambola ridesse.
Un giorno, dopo il bagno Tiziano le disse tu fallo a lei, io lo faccio a te.
E ridevano tutti. Lui, Martina e la bambola.
Ma non doveva dirlo a nessuno, altrimenti non avrebbero più giocato.
Mia madre non mi ha mai perdonato e fin quando ha potuto pronunciarle le sue frasi sono state lance. Rimangono lì, a monito. Ancora mi trapassano. La maestra Lisa c’è stata in un modo diverso, lei ha cercato di assolvermi. Non potevi sapere, diceva. E mi spronava a non incolparmi: alla fine è andata bene. Sapeva di casi in cui non si era intervenuti in tempo e qualcuno non era stato così fortunato da dimenticare.
Oggi Martina ha dieci anni. Il gelato lo mangia solo in coppetta, mentre gliela preparano io fisso i coni impilati sul bancone di vetro. Come in bagno fissavo la vasca prima di sostituirla con la doccia.
I suoi occhi verdi incorniciati da virgole rossastre spettinate diventano minacciosi quando le dicono che è bella come una bambola. E le efelidi sussultano se un uomo le passa troppo vicino.
Allora, le cerco lo sguardo e la mano. Ogni volta con la stessa fitta, come se un punteruolo mi trafiggesse. Mi chiedo cosa e come ricordi. Perché non so se ricorda qualcosa. Eppure sono la madre.
Quella del seno di latte. Quella del forziere di miele dove custodire sorrisi e affetti, bagnetti caldi e biberon stiepidito, sfebbrate deliranti e tutti i nostri giochi. Perché trovasse intatto il bene che volevo per lei, e da adulta ripensasse all’infanzia con la normale malinconia delle cose andate, senza mancanze, solitudini o buchi da riempire.
Le mamme capiscono quando succede qualcosa anche se non sono presenti. A loro non servono parole, basta uno sguardo. Sanno cosa è meglio per i figli. Ne riconoscono il malessere, sentono il dolore che si portano dietro. E li riparano da dentro.
Io no. Io c’ero mentre succedeva.