Da “Hitchcock e l’elitropia”
di Riccardo Gabrielli
A detta del Dictionnaire portatif (1757) del Pernety, furono i pittori italiani che, in accordo a una fulgida polisemia, cominciarono a chiamare “pentimenti” un carattere tipico dei disegni, ossia quell’indugio, quella specie di esitazione che non è già cancellatura, bensì ventaglio di idee transitorie, simultaneità dei possibili: le teste ritorte in ogni direzione, i viluppi di braccia e gambe doppie, le stratificazioni a matita che comunicano con le chimere e gli ircocervi, prima che la luce dipinta scenda a redimere nell’ombra le varianti infinite. ≪Una delle cose che ho imparato alla scuola d’arte è che non ci sono le linee, solo la luce e l’ombra≫, ricorda Hitchcock.
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La deiscenza del ghigno della madre, sclerotizzato e longitudinale alle labbra di Norman, a trapassarne il viso, non si schiude che nella confessione.
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Un supplemento di finzione, uno scotoma onirico, assicura l’intreccio dal realismo. Di chi è la voce della madre?
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Il pregiudizio dell’imputazione svanisce alla prova dell’ironia – strategia che scompagina le colpe, in riflessi confusi: ≪Je suis les membres et la roue, et la victime et le bourreau!≫. Una voce rubata: ≪Elle est dans ma voix, la criarde!≫. Lo specchio dell’Erinni: ≪Je suis le sinistre miroir ou la mégère se regarde≫.
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Le note di biasimo suscitate da ≪un flashback che era una menzogna≫. Hitchcock ammette di non fare differenza tra ≪un racconto menzognero≫ e ≪una storia passata illustrata in un flashback≫; dunque, ≪perché non potremmo anche raccontare una menzogna – in un flashback?≫.
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I ≪fautori della verosimiglianza≫, immuni alla vertigine e alle sue architetture a spirale, alieni all’intensità medesima dell’esistente e dell’inesistente, invece credono ancora allo schermo bianco, al supporto dei fenomeni. Superstizione occidentale che il Giapponese definisce ≪oggettivazione fotografica≫, o ≪realismo≫: cenno sommario alla cattura tecnologica dell’Oriente. Heidegger, in risposta, tradisce il suo incanto per un film che dichiara di aver visto, ≪purtroppo, solo una volta≫.
La narrazione di Rashomon si spiega in quattro confessioni mancate – in quattro flashback inautentici: ≪ho creduto che quel film permettesse di accedere al mistero del mondo giapponese≫.
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Alastair Sim, il padre di Jane Wyman, qualifica se stesso come un padre ≪piuttosto unico≫; a ragione: tutto in lui si lega perfettamente con il tono del film. In particolare, risuona un certo automatismo del perdono: un’Aufhebung senza dolore, senza serietà. Le prove in mano agli investigatori sono soltanto confessioni. Perduta la traccia di sangue sul vestito di Marlene Dietrich, non restano che marionette, costumi di scena, a suscitare un moto di contrizione.
Per un istante, all’omicida balena l’ipotesi di una via di fuga attraverso l’assurdo, il nonsense: quella dell’assassinio gratuito. Via di fuga contraddittoria, barrata in anticipo: non si consegue motivatamente ciò che è gratuito. ≪Perché nessun personaggio è veramente in pericolo? Perché raccontiamo una storia in cui sono i cattivi che hanno paura≫.
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Il teatro nasce come messa in scena misterica della coscienza. Una delle storie più scarne ed enigmatiche, massime drammatica, di Hitchcock, si incentra dattorno al wake di due assassini in memoria dell’ucciso.
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Una sola coscienza che si scinde; poi un vecchio professore, il mediatore, che si limita a acuire il solco tra i due strangolatori. Allo scioglimento si giunge per via di autoaccuse e autosabotaggi, come trascinati da ≪un mobile senza motivirt ≫, da ≪una forza invincibile≫ che rivolta tutti i propositi, sotto il cui ≪impulso noi agiamo in un certo modo solo perché non dovremmo farlo≫, nell’estraneità a ogni ≪desiderio di benessere≫: ≪il Genio del perverso≫.
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≪Questo gusto dell’assurdo≫, dice Hitchcock, al riguardo di un aereo e le sue volute di solfato nel deserto, ≪lo pratico in modo religioso≫. Tuttavia, ≪persino una scena gratuita non può essere introdotta in modo totalmente gratuito≫: il sovvertimento cosmico impone una trama di paradossi, un’orlatura d’ironia.
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Scopriamo, tra la letteratura e la musica assolute, anche il ≪comico assoluto≫, dominato dall’≪idée de superiorité, non plus de l’homme sur l’homme, mais de l’homme sur la nature≫. Una frase che potrebbe servire da didascalia agli Uccelli di Hitchcock.
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Gli attacchi degli uccelli sono compresi all’ombra della piramide hegeliana. Può capitare, talvolta, uno scollamento tra il vertice connotativo del conceptus e quello referenziale della res.
≪Bisogna far vedere dei fiori che mangiano gli uomini≫. Questa forma di rovesciamento custodisce un cuore metafisico, essenziale, che si deve alla struttura stessa del timpano semiotico – ma ve ne sono altre.
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Nel definire il ≪comico significativo≫ non si incontrano grandi ostacoli: è sufficiente rivolgersi al vasto reame della derisione, allo scherno dei freaks, per capire di cosa si stia parlando. Tuttavia, come se si trattasse di un insieme ricorsivamente numerabile e non ricorsivo, è difficilissimo delimitare il suo complemento. Del ≪comico assoluto≫, la cui vocazione è di sottrarsi al calcolo, sappiamo solo che i suoi confini si addensano lungo gli assi dell’innocenza e del grottesco, della vertigine e dell’iperbole.
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ll grottesco iscrive il suo etimo nella pittura, nel libero gioco decorativo, affine all’ornamento asemico dell’arabesco: scavalcamento del discreto, simbolo del continuo. Pierrot, ghigliottinato, porta la testa sottobraccio; Psyche Zenobia prosegue incurante il suo ≪articolo alla Blackwood≫, decapitata dalle lancette di un orologio.
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L’aggettivo “assoluto” astrae dalla semantica: colloca il vuoto, la stanza di George Kaplan, l’incognita che articola la sintassi, la protesi del niente nel cui giro orbitale si tengono insieme le parole e le cose. L’“assoluto” restituisce alla coscienza la cerimonia del periodare, il rito della proposizione, che danno a intendere, nel sacrificio della materia fonica, un resto d’incomunicabilità, l’immagine mentale. ≪Ho usato un filtro verde, ma non andava bene per ottenere un blu scuro, blu ardesia, blu grigio come in una notte vera≫.
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