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“Better Call Saul”, “L’amica geniale” e il lato oscuro del sogno americano

di Giacomo Agnoletti

Nel 2020, la rivista Entertainment Weekly chiese a Barack Obama quali fossero i suoi programmi televisivi preferiti. L’ex presidente citò Better Call Saul, per i suoi grandiosi personaggi, e perché esamina il lato oscuro del sogno americano”.  Da parte mia, sono convinto che i prodotti culturali di massa, anche quelli che di solito vengono considerati un passatempo privo di impegno, possano raccontarci molto del nostro presente (Michel De Certeau sarebbe stato d’accordo). Propongo dunque un accostamento improbabile: la serie tv Better Call Saul e il romanzo L’amica geniale di Elena Ferrante. Le affinità sembrano a prima vista inesistenti: da una parte il Nuovo Messico degli anni 2000, dall’altra la Napoli del dopoguerra. Due mondi lontanissimi. Se però ci concentriamo sull’immaginario del pubblico, la mia tesi è che il punto d’incontro di queste due opere così diverse risieda nella percezione di uno stato di crisi del sogno americano o, se vogliamo, del suo lato oscuro. Torniamo quindi a Obama…

Ma di cosa parliamo oggi quando parliamo di American Dream?

Senza bisogno di risalire a Walt Whitman e alla sua mitica Song for Myself, ci sono alcuni concetti che, nell’immaginario globale, sono strettamente legati al sogno americano. Intanto, un sistema economico percepito come naturale, quindi intrinsecamente giusto (la “mano invisibile” di Adam Smith: se l’individuo agisce nel suo interesse, l’intera società ne trarrà beneficio). Il corollario della naturalità del sistema è la sua inevitabilità, dimostrata dal fatto che anche i paesi ex comunisti si sono dovuti evolvere verso una sorta di super-capitalismo controllato dallo Stato. Impossibile allora non ricordare Margaret Thatcher e il suo There Is No Alternative. Poi c’è l’idea della fine della storia: grazie alla diffusione di liberalismo, democrazia e capitalismo, l’occidente dei primi anni Novanta sarebbe felicemente approdato alla conclusione di un processo di evoluzione sociale dal retrogusto marcatamente hegeliano. Ma soprattutto, legata al sogno americano, c’è l’idea di mobilità sociale meritocratica, percepita come la più alta forma di giustizia: il riconoscimento sociale del valore individuale, ottenuto inseguendo un desiderio che non pone limiti alle possibilità del singolo di farsi largo nel mondo. Derrida scrisse che la giustizia è un anelito insopprimibile presente nel cuore di ogni uomo, “un’esperienza dell’impossibile”. E cosa c’è di più improbabile di un servo che diviene padrone? L’ansia di arricchimento e di beni materiali assume così una valenza più ampia e quasi trascendentale; e non stiamo parlando solo dell’altra sponda dell’Atlantico, ma di tutti noi. Perché se, come scrisse Baudrillard, “l’America è la versione originale della modernità”, allora il sogno americano rappresenta la nostra contemporaneità industriale con le sue promesse di sviluppo, emancipazione e felicità.

Fig. 1 Better Call Saul, stagione 3, episodio 4, “Sabrosito” (2017)

Tornando a Better Call Saul (di seguito BCS), l’intera serie tv è un invito a problematizzare i valori che stanno dietro il sogno. Nella terza stagione Gus Fring, il proprietario della catena di fast food “Los Pollos Hermanos”, intende tranquillizzare suoi dipendenti, terrorizzati dai loschi personaggi che il giorno precedente si sono presentati nel locale (Fig. 1).

(LYLE) Signor Fring, chi erano quelle persone?

(FRING) Beh, come sapete, molti anni fa, ho aperto il mio primo “Los Pollos Hermanos” a Michoacán. Poco tempo dopo, quegli stessi uomini vennero da me. Volevano dei soldi. E io… io mi vergogno di dire che decisi di pagare. Vedete, in quel posto, e a quel tempo, se desideravo continuare la mia attività non avevo altra scelta. Ma ieri mattina… Ieri mattina sono venuti qui. Qui. Hanno spaventato i miei clienti. Hanno minacciato il mio personale. E, di nuovo, volevano dei soldi. Ora, amici miei, devo confessare che stavo quasi per dare loro quello che volevano. Ma poi ho pensato: “No.” No. Qui siamo in America. Qui le persone oneste non hanno ragione di temere. Qui, quegli uomini non hanno alcun potere. E quando hanno visto che non avevo affatto paura di loro, sono scappati come codardi quali sono, sono tornati al loro paese. Dunque non torneranno mai più. Noi ripartiremo da qui. Amici miei, io prometto a tutti… che noi insieme avremo un grande successo.

Quella che Fring rivolge ai suoi dipendenti è un’apologia del sogno americano. Ma tutti, spettatori e sceneggiatori, conoscono bene la realtà. Gus Fring sta fingendo: lui non è un onesto imprenditore, ma uno spietato signore della droga, uno dei più feroci cartel guys. Questa scena, non priva di ironia, è rivolta a uno spettatore per il quale non è più possibile credere davvero nel sogno. Se la storia avesse avuto come protagonista un Fring onesto e irreprensibile, che fa soldi facendo concorrenza a KFC, tutto sarebbe stato meno attraente per il pubblico odierno.

BCS è imperniata sulle vicende di un modesto avvocato di provincia, Jimmy McGill, che diviene Saul Goodman, il grande avvocato della mala. Riuscireste a immaginare il protagonista come un onesto avvocato che combatte contro i cattivi? Una storia come questa non avrebbe avuto successo né guadagnato popolarità;  sarebbe stata troppo simile a un vecchio thriller degli anni ‘80. Infatti, Jimmy non è certo il “buono” della storia; al contrario, il suo concetto di giustizia, intesa come aspirazione a una situazione di vita diversa e migliore, è costantemente ambiguo e moralmente discutibile.

Per capire davvero come funziona BCS però bisogna guardare anche agli altri personaggi. Sono soprattutto gli antagonisti a svolgere una funzione fondamentale nel thriller, perché il pubblico dovrebbe condividere il risentimento che muove i protagonisti contro di loro. Chi sono i cattivi in BCS? Naturalmente, Tuco, Lalo e tutti i Salamanca sono malvagi. Ma sono, in un certo senso, cattivi da cartone animato. Inoltre, Saul non si ribella direttamente contro di loro, che non sono certo i suoi diretti nemici. Qualcuno potrebbe obiettare che il protagonista dello show, come accade a Walther White in Breaking Bad, diventa il cattivo nel corso della storia, ma questo porterebbe verso un’interpretazione psicologica che vorrei lasciare da parte.

Se manteniamo una prospettiva sociologica, ci rendiamo conto che i protagonisti delle celebrate fiction di Gilligan sono tutt’altro che criminali nati. Eppure, allo stesso tempo, diffidano di un sistema sociale in cui non credono, un sistema che li ha ingannati e poi espulsi: Walther è stato cacciato dalla multinazionale che ha sfruttato le sue ricerche, e Jimmy non riesce a integrarsi all’interno dei grandi studi legali. Pertanto, il loro progetto di felicità individuale è un piano di vendetta contro il sistema, rappresentato dalle élites economiche: gli studi legali influenti come HHM, le banche come Mesa Verde e la potente azienda di Gretchen ed Elliott in Breaking Bad. Questi sono i veri cattivi, gli antagonisti contro i quali qualsiasi tipo di azione socialmente legittimata – un processo che ripristini la giustizia, una faticosa ma meritocratica scalata al successo – è semplicemente impensabile:  le grandi multinazionali, i potentati e le lobbies, hanno sempre la meglio. E le forme istituzionalizzate di lotta collettiva – sindacati, partiti politici, ideologie, persino religione – sono ormai così superate da non poter più essere neppure rappresentate. Allora, se ogni vendetta sociale è preclusa, avanti con la vendetta privata.

Fig. 2 Better Call Saul, stagione 4, episodio 10, “Vincitore” (2018)

Nella quarta stagione, la giovane studentessa Kristy Esposito ha fatto domanda per una borsa di studio presso HHM. Tuttavia, la ragazza ha dei piccoli precedenti penali e la borsa le viene rifiutata. Ma Jimmy si riconosce in Kristy e sente il bisogno di darle un consiglio che le cambi la vita (Fig. 2).

(JIMMY) Kristy. Kristy Esposito, aspetta. Ciao. Jimmy McGill, noi ci siamo visti dentro.

(KRISTY) Ah, salve.

(JIMMY) Ciao… Non ce l’hai fatta. Non era possibile in alcun caso. Loro… loro ti illudono, ti raccontano che hai tantissime chances ma, mi dispiace, è una farsa. Perché hanno dei pregiudizi immensi, avevano già deciso prima ancora che tu entrassi in quella sala. Tu hai commesso un errore e questo loro non lo dimenticheranno. Per quanto li riguarda, il tuo sbaglio è essere quello che sei, essere tutto quello che sei. E non mi riferisco solo alla borsa di studio, credimi, io mi riferisco proprio a tutto. È vero, ti sorridono, ti danno pacche sulle spalle, ma non ti lasceranno mai, dico mai, entrare nel loro giro. Però senti. Ascolta. Questo non importa, non fa niente, perché tu di quelli non hai bisogno. Cioè, da loro non otterrai nulla? Chi se ne frega. Te la caverai da sola. Tu farai tutto quel che è necessario fare, mi hai capito? Tu non seguirai le regole. Tu farai sempre a modo tuo, farai quello che loro non fanno, sarai scaltra, prenderai delle scorciatoie, e così tu vincerai.

La parola chiave è dunque vendetta. Vendetta contro un sistema che non si può combattere perché percepito come naturale e inevitabile (ricordate la mano invisibile e Margaret Thatcher?), ma che minaccia di espellerci come Walther e Jimmy. Il sistema non mantiene le sue promesse, quindi nei protagonisti nasce un forte bisogno di ribellione. Tuttavia, poiché un’insurrezione sociale non è più concepibile (non dopo il crollo delle ideologie e dei vari muri), questa ribellione sarà portata avanti con gli strumenti del sistema, cioè attraverso un capitalismo violento finalizzato solo al profitto. Lo spacciatore, il mafioso, il signore della droga può allora essere visto come un personaggio crudelmente ultra-capitalista, che combatte e uccide per commerciare e per arricchirsi. Come scrisse Eric Hobsbawm commentando la saga del Padrino, “la mafia, lungi dallo sfidare i valori dell’americanismo, li incarnava. Dopotutto, cosa potrebbe esserci di più americano delle storie di successo di poveri ragazzi immigrati, che si fanno strada verso la ricchezza e la rispettabilità con un’impresa privata?”.

Anche la vendetta degli eroi contemporanei delle fiction Netflix, come Jimmy e Walther, è del tutto privata e personale, e mai sociale. La profonda americanità dei protagonisti viene costantemente ribadita – seppur con amara ironia: “Che cosa c’è di più americano di questo? Sono uno Yankee Doodle Dandy”, dice Jimmy, ormai trasformato in Saul Goodman, entrando nel suo studio/tempio – che è esso stesso una parodia distorta e grottesca del sogno. Il nostro avvocato si sta arricchendo col riciclaggio di denaro proveniente dal traffico di droga: un’attività moralmente riprovevole. Nonostante questo, siamo ancora dalla sua parte come spettatori perché Il risentimento nei confronti delle élites è condiviso dal pubblico, che dà forma al suo sogno latente e confuso di vendetta attraverso l’identificazione con i personaggi. È così che BCS diventa “interessante”: lo spettacolo cattura l’attenzione perché intercetta un bisogno di massa.

L’inesauribile energia di Jimmy/Saul Goodman, costantemente e ossessivamente teso verso un miglioramento della sua posizione socio-economica, esemplifica perfettamente quella “privatizzazione della speranza” di cui Ronald Aronson e Zygmunt Bauman hanno parlato. È l’idea stessa di progresso a essere oggi concepibile solo a livello individuale: e il successo della ribellione sarà misurabile solo con gli strumenti del sistema, vale a dire con enormi montagne di denaro, come ha anticipato Puzo nel Padrino. Non riusciamo a immaginare niente di diverso: lottiamo solo per i soldi e per noi stessi. Queste storie riflettono la nostra incapacità di pensare un futuro migliore, di concepire l’utopia, che è sempre utopia sociale.

Cosa c’entra L’amica geniale con tutto questo? Credo che il punto di contatto tra queste due opere molto diverse risieda nell’immaginario che entrambe condividono, e che si lega alla percezione di un lato oscuro e problematico nel sogno che guida la nostra idea di modernità. Ho poco sopra sottolineato come l’American Dream si basi su una distribuzione virtuosa del reddito: una giustizia sociale meritocratica. L’economista francese Thomas Piketty ha però evidenziato che nel capitalismo è insita una contraddizione: la ricchezza proveniente dai grandi patrimoni cresce molto più velocemente di quella derivante dalla produzione e dai salari. E, dopo la fase di redistribuzione successiva alla seconda guerra mondiale, Piketty percepisce oggi il riaffacciarsi di una nuova era di diseguaglianze, in quello stesso mondo in cui il neoliberismo di Milton e Friedman ha stravinto.

Secondo la definizione del sociologo Ulrich Beck, la globalizzazione è il processo attraverso il quale gli Stati-nazione e la loro sovranità vengono condizionati e connessi trasversalmente da attori transnazionali. Ma se il potere economico è per lo più sovranazionale, non può che generarsi una diffusa percezione di inefficacia dell’azione politica, inevitabilmente circoscritta in una dimensione locale. Ed è un fatto che, prima in USA e poi in Europa, sono sempre di più gli elettori che disertano le urne.

Interpretazioni parziali e ideologiche? Non sono interessato a commentare le argomentazioni di Piketty o Beck, ma a evidenziare quanto peso abbiano avuto idee come queste sull’immaginario del pubblico della fiction, sia romanzesca che televisiva. Il lato oscuro del sogno americano, citato da Obama, riguarda le angosce della nostra contemporaneità, simboleggia le nostre inquietudini di terrestri industrializzati. La cultura di massa ci mostra però che c’è un altro modo con cui il consumatore di storie può reagire alle angosce del nostro presente, cioè ai problemi di cui si sono occupati Piketty e Beck. La prima via consiste nel sognare, e nel vivere attraverso la finzione, una fantasia di vendetta contro il sistema. In questo modo, possiamo seguire le storie immorali di personaggi “cattivi” che diventano i nostri eroi. Ma esiste anche un altro tipo di risposta, un’altra via di fuga mentale. E questa risposta riguarda l’Italia.

L’immaginario sull’Italia è tanto pervasivo da rappresentare un sogno globale. L’Italia è ovunque nel cibo, nella moda, nel design e nella cultura internazionale. Tuttavia, tale immaginario è profondamente cambiato nel tempo. Alcuni testi letterari sono un emblema, una sintesi, dei mutamenti dello sguardo del “mondo” verso il Belpaese: due romanzi come L’avvocato del diavolo di Morris West (1959) e Il tormento e l’estasi (1961) di Irving Stone, rappresentano bene un periodo in cui l’Italia era vista come il paese della Grande Tradizione, sia culturale che religiosa. Oggi, invece, l’idea di Italia rappresenta qualcosa di molto diverso. Non è più il luogo della Grande Tradizione, ma incarna meravigliosamente la tendenza che caratterizza la nostra epoca: quella che Zygmunt Bauman definisce “retrotopia”, la nostalgia di un passato che si sostituisce al futuro come luogo di sogni e speranze.

Esiste un altro modo per sfuggire alle ansie del presente, e passa attraverso la possibilità di sognarci magicamente in un passato che non abbiamo mai vissuto, dove possiamo riscoprire tutti quegli aspetti “autentici” e “umani” (dal cibo ai piccoli piaceri quotidiani) che la modernità industriale ci ha negato. I primi indizi del cambiamento di prospettiva dei consumatori sono partiti nella seconda metà degli anni ’70, ma è nel corso degli anni ’80 che la via italiana alla modernità è andata configurandosi come un’alternativa piacevole, anzi “godibile” (per usare un’espressione di Daniele Balicco). L’apprezzamento del pubblico per i prodotti culturali a tematica italiana è di conseguenza esploso nella metà degli anni ‘90, con un notevole crescendo fino al 2010. Ma questo non deve farci dimenticare che prima degli anni ‘70 l’immaginario collettivo sull’Italia era molto diverso. Nel periodo fra le due guerre, come testimoniano i romanzi di John Fante e Henry Roth, gli immigrati italiani erano addirittura discriminati: erano “less than white”. Oggi, il “mondo” ci vede in maniera molto diversa. Perché? Credo che il radicale cambiamento dell’atteggiamento del pubblico sia stato causato soprattutto da un mutamento delle esigenze dei consumatori, che hanno preso coscienza dell’incapacità della modernità americana di soddisfare i loro desideri più profondi. Così, la voglia di italianità è esplosa, determinando nella letteratura di massa la riproduzione di un modello di “contatto salvifico” con la nostra cultura, esemplificato dai bestseller Sotto il sole della Toscana di Frances Mayes (1996) e Mangia, prega, ama di Elizabeth Gilbert (2006): attraverso il contatto con l’italianità lo straniero, infettato da una modernità efficiente ma umanamente arida, può guarire le ferite della propria anima – così da tornare con rinnovato slancio a inseguire il sogno americano.

I concetti chiave sono diversità e autenticità. Diversità rispetto a un American Way of Life basato sul successo individuale, sulla professionalità e sulla possibilità di lavorare per un numero infinito di ore; l’autenticità rimanda invece alla consapevolezza del proprio stato di fragilità/mortalità e all’umanità come valore da recuperare. Nella mente del pubblico globale, queste immagini sviluppano altre suggestioni attraenti, come lo sviluppo della creatività e della genialità individuale, il recupero della dimensione familiare e l’accesso senza sensi di colpa alla dimensione edonistica dell’esistenza; e queste fascinazioni, tutte culturali e simboliche, si riverberano automaticamente sulla domanda di merci italiane.

Ora possiamo chiederci se l’Italia sia ancora di moda come negli anni in cui dal libro di Gilbert venne tratto un blockbuster con Julia Roberts. Il successo dei romanzi di Ferrante ci dice che il lettore globalizzato, mentre crescono le ansie da neoliberismo, è ancora affamato del sogno italiano. Tuttavia, il modello di rappresentazione culturale che ha dominato fino al 2010 non è più attraente per il pubblico. Oggi, lo schema del contatto salvifico, con i suoi viaggiatori in cerca di rigenerazione, può essere riproposto solo nella letteratura di genere: rosa, gialli o romanzi storici, ma non nella letteratura mainstream. Il bisogno globale di un’alternativa sta crescendo, e il lettore/consumatore, perennemente alla ricerca di una via di fuga immaginaria, cerca nelle storie ancora più identificazione ed empatia; le storie di Gilbert o Mayes, che avevano venduto milioni di copie, ora non bastano più, diventano meno interessanti. Lo stesso accade nella fiction poliziesca o thriller, dove la costruzione di una narrazione di successo richiede più di quello che Puzo ha fatto negli anni Settanta: non basta rendere dei “cattivi” protagonisti della storia. Ora, il pubblico vuole esplorare le ragioni dello sconvolgimento morale dall’interno, vuole viverlo emotivamente, come accade nelle fiction di Gilligan.  Allo stesso modo, nel romanzo a tema italiano, i lettori e le lettrici vogliono vivere l’italianità dall’interno, desiderano sentirla emotivamente.

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Fig. 3 Fotogramma della prima stagione della serie televisiva L’amica geniale (2018)

Ecco allora il successo del ciclo de L’amica geniale (Fig. 3). Ferrante immerge il lettore in un sogno legato all’idea di Italia meridionale; e l’Italia, per il pubblico globale, è essenzialmente un paese meridionale. Il nord Italia, percepito come culturalmente vicino all’Europa settentrionale, ha poco spazio nell’immaginario del consumatore mondiale. Il lettore, entrando nella testa di Elena, sperimenta la vita nella Napoli del dopoguerra, ne esplora vicoli e cortili. Inoltre, nel complesso rapporto tra Elena e la sua sosia, la sua geniale amica Lila, il lettore sperimenta anche la parte sinistra e indicibile della mentalità italiana.

Il pubblico globale di Ferrante soddisfa attraverso la finzione il suo bisogno di esplorare un viscerale e potente “spirito italiano” basato sul fascino del passato, un approccio alla vita che funge da antidoto alle angosce della modernità globale. Tuttavia, il sogno italiano alla base di questa nuova letteratura, le cui caratteristiche più evidenti sono la serialità dei testi e l’alto carico emotivo, non costituisce una rottura con lo schema del contatto salvifico. Le eroine di Ferrante sono le dirette discendenti delle viaggiatrici in cerca di rigenerazione di Adriana Trigiani, Elizabeth Gilbert e – perché no – della Daisy Miller di Henry James, anche se l’assenza di utopia, che emerge soprattutto nel finale del ciclo de L’amica geniale, ci rammenta quanto quest’opera si relazioni col nostro presente e quanto abbia in comune con i più diffusi prodotti culturali americani.

Come alla base della nuova fiction a tema italiano c’è un bisogno che nasce dalla consapevolezza del lato oscuro del sogno americano, così gli autori di una serie di successo come BCS fanno vivere allo spettatore una fantasia di vendetta contro un sistema socio-economico inevitabile e invincibile: la nostra pervasiva modernità industriale, capace di cancellare ovunque cultura, tradizione e persino ideologie. La stessa entità che Pasolini definiva “Sviluppo” all’inizio degli anni ‘70.

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2 Commenti

  1. Gran bella analisi, complimenti!
    A questo proposito sarebbe forse interessante indagare gli episodi di alcune grandi serie americane ambientati in Italia: penso ai Soprano (nella puntata 2×04 Tony Soprano viaggia a Napoli per “affari”); a Mad Men (nella puntata 3×08 Don e Betty Draper si recano a Roma, dove vivranno l’ultimo sussulto della loro storia d’amore); o a Succession (gli ultimi due episodi della terza stagione sono ambientati nella Val d’Orcia, dove si celebra il matrimonio della ex-moglie del magnate Logan Roy, e in parte anche sul Lago di Como e a Milano).

  2. Grazie per l’apprezzamento e per le segnalazioni.
    Sono convinto che il “sogno italiano” sia ben presente nella cultura contemporanea, molto più di quanto noi italiani pensiamo. Tanto che su questo argomento ho scritto un libro (Quodlibet, 2023)!

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia e storia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ora insegna in scuole d’architettura a Parigi e Versailles. Poesia Prove d’inconsistenza, in VI Quaderno italiano, Marcos y Marcos, 1998. Inventari, Zona 2001; finalista Premio Delfini 2001. La distrazione, Luca Sossella, 2008; premio Montano 2009. Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, Italic Pequod, 2013. La grande anitra, Oèdipus, 2013. Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016, collana Autoriale, Dot.Com Press, 2017. Il rumore è il messaggio, Diaforia, 2023. Prose Prati, in Prosa in prosa, volume collettivo, Le Lettere, 2009; Tic edizioni, 2020. Quando Kubrick inventò la fantascienza. 4 capricci su 2001, Camera Verde, 2011. Commiato da Andromeda, Valigie Rosse, 2011 (Premio Ciampi, 2011). I miei pezzi, in Ex.it Materiali fuori contesto, volume collettivo, La Colornese – Tielleci, 2013. Ollivud, Prufrock spa, 2018. Stralunati, Italo Svevo, 2022. Romanzi Parigi è un desiderio, Ponte Alle Grazie, 2016; finalista Premio Napoli 2017, Premio Bridge 2017. La vita adulta, Ponte Alle Grazie, 2021. Saggistica L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo, Dipartimento di Linguistica e Letterature comparate, Università di Cassino, 2003. La confusione è ancella della menzogna, edizione digitale, Quintadicopertina, 2012. La civiltà idiota. Saggi militanti, Valigie Rosse, 2018. Con Paolo Giovannetti ha curato il volume collettivo Teoria & poesia, Biblion, 2018. Traduzioni Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008, Metauro, 2009. È stato redattore delle riviste “Manocometa”, “Allegoria”, del sito GAMMM, della rivista e del sito “Alfabeta2”. È uno dei membri fondatori del blog Nazione Indiana e il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.
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