Amelia Rosselli, “A Birth” (1962) – Una proposta di traduzione

di Marco Nicosia

A Birth — prosa composta da Amelia Rosselli nel 1962 — è il tentativo, attraverso il sogno, di riavvolgere il tempo come nastro magnetico per tornare indietro all’infanzia trascorsa a Parigi, ripercorrendo l’età che ha preceduto e che ha seguito la violenta morte del padre, quelle «vaghe memorie surrettizie d’una giovinezza veramente piccola». Soprattutto onirica è la prima parte del racconto, con la comparsa di immagini archetipiche (il «cielo tondeggiante», «la torre campanaria» e «sanguinante», il «paese torreggiante», fino alla «deforme fine del vicolo») che portano alla visione surrealistica di Poppy (incarnazione del genitore), «che ride, che ruggisce, dolce, offuscato». Il tentativo è quello di trovare «l’incurvato punto infornato dell’infanzia» e «simulare una svolta sul largo punto di svolta […] della volta», alla ricezione dei vecchi luoghi dell’anima che si realizzano adesso per via analogica in una chiesa irreale la cui posizione è ancora da reperire. Ad irrompere nella seconda parte della prosa è il trauma dell’omicidio del padre, l’«avvertimento» e la «vendetta», «l’interrogatorio», «la sommossa, subdola, nella mente del bambino», «l’omicidio nella folla», gli «striscioni in rivolta nella strada», la «terribile folata».

Come nota Chiara Carpita nell’edizione del meridiano Mondadori, già in My Clothes to the Wind (1952) Rosselli tenta di ripercorrere attraverso il sogno la giovinezza più tarda, trascorsa a Londra e in Italia, accorgendosi tuttavia che la creazione letteraria non può dare un senso al proprio vissuto, «non è possibile, cioè, raccontarlo, se non per frammenti scomposti»: «this saying of grime is not transparent enough, I cannot do as I desired and make the thing more plain». Così anche in A Birth l’autrice — «while stamping necessarily cleaner phrases» — si ritrova a fare i conti con il labirinto intricato delle sue memorie, rendendosi alla fine conto che esse non possono essere altro che falsate (ripetuto è sempre il verbo e aggettivo “fake”): «the child stares at its memory and swings uncertain of reality. The child stares. The child is there. The child is gone». Entrambe le prose si concludono con il «riconoscimento», ma se in My Clothes to the Wind esso è raggiunto attraverso il sogno, qui non restano che le lacrime a ricomporlo («I in the unreason of sleep came to the choosing and the mingling, and to the recognition», My Clothes to the Wind; «Crying daughter at the thin just cavalier. […] Sample of recognition», A Birth).

Nota alla traduzione

Questo scritto inglese, assieme a My Clothes to the Wind (che ho già tradotto per la rivista indipendente Niedern Gasse), è ricco di stratificazioni semantiche che possono sfuggire all’occhio poco allenato del lettore, o anche a colui che d’inglese s’intende. È quindi bene prendere in mano un dizionario e ricercare ogni parola, anche quella di cui si conosce il comune significato, per sviscerarne tutte le possibili definizioni — e purtroppo cristallizzarne solo una sul foglio. D’altronde la bravura di Rosselli, in simili sperimentazioni narrative, consiste proprio in questo: nel comporre un testo che si presta, anche a livello puramente formale, ad un’infinita varietà di significazioni; nel costruire un linguaggio ricercato, e decostruirlo poi, e riplasmarlo, e persino dare forma a neologismi, alla ricerca di un idioma tutto personale. Perciò il lavoro di traduzione sarà forse più fertile a chi lo conduce che a chi lo riceve, e tuttavia dietro questo tentativo vi è anche la volontà di condividere con i lettori una prosa poco conosciuta per via della sua difficoltà pure in lingua originale. Per quanto a me noto, è possibile reperire solo un’altra traduzione italiana di A Birth, realizzata brillantemente da Elena Carletti per la rivista di teoria e pratica della traduzione «Testo a fronte» (n. 58, XXIX anno, I sem. 2018), che mi è stata di utile confronto e da cui tuttavia ho deviato in vari luoghi per questioni di interpretazione.

La prima difficoltà di traduzione si pone già nel titolo e nel soggetto del racconto, la «child-birth» che appare per la prima volta e in contemporanea fra le ultime righe del primo capoverso e che si riproporrà costantemente in seguito. «Child» può prestarsi, in prima lettura, alla traduzione di “bambino”, naturalmente priva di uno specifico genere grammaticale. L’incognita del genere non viene sciolta nemmeno successivamente, quando al bambino è attribuito il possessivo neutro «its». «Birth» può invece essere letto da subito con il significato di “nascita”. Ma l’autrice, in realtà, gioca con l’ambiguità semantica inglese, a causa della quale si può parlare di «child» sia come di “bambino” sia più specificamente come di “figlio”, soprattutto se vogliamo attribuire a «birth» il significato di “parto”. Il dubbio che il “bambino” sia “figlio” sorge in particolare quando nel decimo capoverso si presenta la figura del padre, cui è accostato nella frase successiva («If a father… If a child»). In questa sede ho comunque scelto il primo termine per distinzione da «daughter» (“figlia”), che si propone nelle battute finali del racconto esplicitando così la natura del soggetto e il suo genere.

Andando con ordine, l’anafora «If I lay back layers of time», poi variata in «If I lay back on layers of time» e ancora in «I lay back folds of time», ha richiesto più e più volte correzioni e riletture nella mia bozza, per dirigermi infine verso la traduzione che mettesse il più possibile d’accordo le varie parti della narrazione restando quasi letterale (ma in un modo che, ancora adesso, mi pare provvisorio e insoddisfacente): «Se (mi) riavvolgessi indietro (su) strati di tempo». Il tentativo di recupero della memoria è infatti in questo racconto il tentativo di recupero di un’infanzia mai esistita, il tentativo — o la sensazione o l’allucinazione — di “riavvolgere indietro strati di tempo” come nastro magnetico. Se «lay» significa “avvolgere”, ho tentato qui di connettere il verbo con l’avverbio seguente «back», dunque “avvolgere indietro”, dunque “riavvolgere”, per ipercorrettismo “riavvolgere indietro”. Resta comunque aperta la possibilità di intendere «lay» con il suo significato altro di “stendere” (così ha fatto Carletti, «se stendo strati di tempo a ritroso»), soprattutto se il campo semantico successivo è quello del velo della mente («folds of time», «the light sheeting», «the child lifts the veil»). Resta inesplorata la terza via del riposare, giacere, stendersi o distendersi su strati di tempo.

Un’ultima, grande difficoltà — lo si è già sperimentato con la suddetta anafora — consiste nell’incastro di termini dal vasto campo semantico in un’unica possibilità di traduzione, che è poi anche la più irragionevole. È, per citarne uno, il caso di «a flap of curls», tradotto in definitiva come «uno sventolio di boccoli» e che pure avevo reso, prima di passare alle righe successive, come «lembo di boccoli»; poco dopo, infatti, si impone un campo semantico tutto rivolto all’irrequietezza del vento e alla rivolta (flap sostantivo, per esattezza, significherebbe “lembo”, “ribalta”, “agitazione”, mentre il verbo to flap corrisponde a “sbattere”, “sventolare”).

Nel complesso, la lettura e la traduzione esigono, come fa l’autrice, «[to] look askance again», di guardare di sbieco, e poi di nuovo scrutare e ancora una volta guardare di traverso. Il gioco della traduzione, di fatto un rompicapo, diventa “un parto” che accompagna al «riconoscimento» di memorie ora falsate ora simulate, e piazzarle e rincorrerle, «ready to make a run for it».

Traduzione

Se riavvolgessi indietro strati di tempo, e l’uomo oscuro che sorride falso e triste con la sua smorfia screpolata, l’ho incontrato la scorsa notte dopo una lite, nella luce che velava la pesante aria albeggiante della corte, se riavvolgessi indietro strati di tempo, sarei pronta anche ad aprire l’elenco dei luoghi, gli indirizzi di tutte le nostre vite! Pronta a rincorrerli. Se riavvolgessi indietro strati di tempo potrei ancora placare la rabbia con l’amore indisturbato. Se mi riavvolgessi indietro su strati di tempo potrei trovare Poppy che ride, che ruggisce, dolce, offuscato contro il cielo tondeggiante sopra la torre campanaria della caccia. Se mi riavvolgessi indietro su strati di tempo pronta all’omicidio, accompagnata da risa che collassano predatorie su di una nuova dinastia, se allora il tempo sventolasse all’indietro, se fossi codarda e credessi alla nascita, lo sforzo di allontanare lievi imprevisti dal paese potrebbe aiutarmi a chiarire la nascita! Se fossi un paese torreggiante o una torre sanguinante contro un cielo propizio alla nascita, se fossi giapponese potrei domandare perché aderisci a una lite col tuo pugno in dentro? Nascita e pane collassano su un letto per la nascita che si strozza con la tensione propria dell’ultimo rifiuto del suo essere donna. Il primo rifiuto fu la torre curva il rimbalzo elastico di cui aveva tracciato tutti i lievi imprevisti contro il cielo. Un cielo rosso, roseo e ingiallito con l’età, un cielo ardito con la sua ingiusta indifferenza sugli oggetti, deforme fine del vicolo.

La domenica è il classico pomeriggio di un luogo per una nascita uggiosa e un pianto, il bambino finge ricordo della curva della volta della chiesa tesa sulla sua posizione cardinale, bambino che recupera memoria quando una pagnotta di pane viene rigirata, è bambino senza infanzia.

Le foto dei luoghi sono migliori dei luoghi o dei ricordi, foto nei nostri cervelli allo stesso modo. Curva il triangolo all’infuori della fuga e il paesaggio in averi incurvati.

Forse la zuffa è meglio riguardata qui da questo punto di vista e l’incurvato punto infornato dell’infanzia non è altro che ciò che ne facciamo mentre l’amore si risveglia tenero con uno schiaffo. Sono incandescente pensai mentre riavvolgevo indietro strati di tempo nudi sul mio petto che si gonfiava livido nel calore di un’estate adatta al disperare negli occhi di giovani donne. La giovinezza non è una crepa che si conserva con costanza, ma il maleodorante e lucido e lieve imprevisto d’una vita ruotata attorno al suo essere.

Particolarmente gentile con mia madre deve esser stato mio padre, dal momento che predicava in tal modo. Particolarmente gentile con mia madre deve esser stato il prete se tanto bene rispettò un comandamento di fame recondita per amore delle buone domeniche.

Adesso mentre parlo la sottile corda riconosciuta di duro amore scorre debole attorno alle stecche di bambù secco nelle lampade, mentre i bastoni di bambù spaccato sui tamburi dei vicini dagli occhi angusti si spezzano liberi dal loro nastro adesivo nero. Si spezzerà il bastone e verrà ancora una volta tenuto il peso nelle due cavità frastagliate di palme mentre si curverà la cima incava del tamburo e la lampada apprezzerà la quiete? Adesso mentre parlo si dirigerà la radice ad un appello adesso mentre timbro frasi necessariamente più chiare nel tamburo dell’orecchio del sordo si spezzerà forse il suo bastone? Adesso mentre attendo le nuvole più accorte irromperanno forse nella mia parsimonia? Adesso mentre attendi aprano le montagne i loro sentieri alla caccia al cervo.

Cacciando contro un cielo straordinario attaccai la prima visione della città rosea su di un cielo ribelle, mentre pioveva luce la cupola sui miei anni spellati. Adesso mentre attendo la pioggia rifiuta tu obbedienza alle mie fantasie d’arcobaleno, mentre attendi il curvarsi delle strade sotto quest’alta volta.

Mentre colloco un tal sogno di visione accanto al primo carico del cuore, vengono ricuperati il luogo e la posizione della chiesa, contro una strada al di sotto ingrigita, mentre le finestre illuminate liberarono il cuore del bambino. Adesso mentre faccio lo sforzo di preconcepire una visione, il bambino fa lo sforzo d’uscire all’aperto contro una finestra floreale asciutta dalle asciutte vele, le loro tende pulite sempre spazzate dal vento, volenti nolenti e bianche contro un cielo bianco ancor più tetro da quando è immobile, le tende si strapparono annoiate e l’altra casa verso la quale nessuna curva di pantheon mai accordò la sua oscurità, l’altra casa incise la memoria narrata al bambino, grasso contro uno sventolio di boccoli. La luce rimbalzò dalla strada verde ancor più impercettibile in basso, verso il bambino che stava forse in piedi osservando la chiesa dentro la sua memoria di adulto. La chiesa sventolò il suo saggio e disfatto stendardo d’una scintilla pienamente matura per simulare poesia, rosea sotto la luce di rugiada che io pongo adesso contro una superficie ruvida incrociando l’angolo del marciapiede finora invisibile, né inciso né ricordato. Il bambino simula una svolta sul largo punto di svolta della piazza circolare, dove quella bianca luce forse non brillò contro ad albero alcuno tranne che alla lieve pietra ingrigita e ondeggiante; il bambino guarda fisso alla sua memoria e dondola incerto della realtà. Il bambino guarda fisso. Il bambino è là. Il bambino se n’è andato, saccheggiando nuovamente la fuga o la verità di memorie fornite dai nonni, con la loro avvizzita gioia di separazione, la loro gioia di vita impeccabile in una valle! Guarda nuovamente di traverso: il bambino alza il velo e il punto di svolta della volta e della chiesa non altro che una preparazione alla morte di misteriosi seminatori, guardiani selvaggi, politici nauseabondi. Guarda più lontana la torre campanaria che s’è piegata per curvare la cupola non ancora arrugginita, poiché brilla di traverso la grigia ottusità della sua materia (indifferentemente un gesso bianco o grigio), tanto rosea se desideri perdonare il suo appello alla morte dei giovani.

Una strada dal nero naviglio, e un padre dal grigio mantello in fiamme sulla svolta invernale verso la primavera accanto alla pioggia. Un padre ammantato nella lana d’un riposo al sole, e il sole che mai illumina un occhio di padre giacché lui non è figura incontrata nella corsa della piazza, col suo punto nero che gira in dentro alla realtà, la piega nera indesiderabile d’una sagoma svanita.

Se un padre avesse prestato la sua pistola ad un altro, così era la sua auto di rappacificazione violetta, avvertimento o vendetta. Se un bambino presta la sua memoria per fingere parole poi dette mistiche delle nubi, alla chiesa fu il suo nascere. La nascita del bambino in una chiesa vellutata dalla cupola rombante è primavera senza peccato e dolore di paradiso; grigio scompiglio e quesito, scivolano giù per superficie piana no ma spazio integrato in spazio, di nuovo rosa, blu no e verde per sempre nella nebbia d’infanzia color rugiada marrone per rivalsa mistica. Poi dio apparve come stella oltremodo svolazzata e la correzione la volta consumò l’immaginazione del bambino spezzò la verità e la vendetta terrena del padre, la severità della terra.

E c’erano cupole nell’aria bianca di Parigi nei duri profili bianchi di luce di bambino? Orecchie sorde ha il bambino alla sorda quiete e le tende sorde di lino alla luce d’affari che planano mistici sopra l’aria rombante di strade inimmaginate. Le finestre sono troppo lunghe per il rombo che sorge dalla loro immaginazione incrociata e la coppia scortata è sempre silenziosa al crepuscolo mentre una luce più marrone del crepuscolo risuona l’altro attraverso piante giapponesi che spolverano l’aria, che vietano la pace, che echeggiano di violenza, i capelli marroni che fanno scivolare pelli sopra la fronte del mercante e l’articolazione dell’osso lungo del mento (la collana). La polvere sopra i loro volti tradì il cuore della città e la sua pressione riflessa su un bambino che si restringe alla finestra di lui più larga, più libera, più vuota col suo fasto che domina sul nulla, da quando il nulla si riempì di finestre marroni di vedove o chirurghi in vacanza. Controvoglia i giardinieri sbucarono fuori dalle finestre troppo strette per la terra marrone di altre generazioni che s’insinuavano nell’aria al livello della larghezza d’una strada. E nelle stanze canali angusti molto vicini alla decomposizione erano le risposte e le offerte delle finestre, l’umanità concepita da una persona così giovane, che scruta attentamente per comprendere cos’è un uomo. Nessun’ironia si manifestò in quella visione d’infanzia tranne che nella morte incerta, insinuantesi maestosa in luoghi meschini, con foglie dai bordi verdi per scacciar via gatti di cupidigia, il gaio cappio.

Il cappio era un giardiniere, il giardiniere un gaio compagno. Bambino marrone e finestre dallo sguardo fisso, e anche suore dallo sguardo fisso che sorseggiano un tè in cappotti marroni si rivoltarono prima d’affrontare l’interrogatorio; indizi di cupidigia erano banchetti in valli eterne, i larghi viali grigi si sollevavano diretti all’albero verde d’alghe marine stringendosi, immergendosi e sprofondando per graffiare le finestre superiori immediatamente sbandierate: poi giunse la sommossa, subdola, nella mente del bambino, e un misfatto meschino e un amore sciatto con la popolazione d’improvviso provvidenzialmente imperfetta, nel banchetto di palloni scoppianti, l’omicidio nella folla che d’improvviso implorava in ginocchio all’odore quotidiano di cibo mentre i bambini scrutavano il precoce sbandierare del sole contro striscioni e striscioni e striscioni in rivolta nella strada, prime bandiere in cima agli alberi, folate nello sventolio blu di dimore per il cibo, laminate bianche con un urlo che rallentava fino alla gioia sbattuta giù contro un bancone unto.

Oh io cappio allentato! Oh io urlo nella valle! Oh i miei trent’anni scivolati via schiantandosi violenti nella casa di striscioni schiantantesi, stretti contro un vento allentato. Il collasso della fama inizialmente fu una terribile folata, poi lentamente la ragione tornò come un tram nella semioscurità di vie al neon. All’inizio strati impossibili di tempo sventolarono indietro per rivelare una ragione che era stata omessa poi negata, poi in definitiva spiegata intera, massacrata alla mascolinità, e la donna che dietro le quinte piangeva dentro gli abiti in falsa pelliccia per lo spettacolo della sera lo spettacolo intero della vita. Oh lo scoppio della rivoltella rivelò un muro bianco spaccato, il demone della povertà, nell’ingresso dietro le quinte. Il bianco turbinio della vita, che vive negli occhi del destino, un disastro.

Tra le vaghe memorie surrettizie d’una giovinezza veramente piccola scivolò vicino a un cinema pomeridiano per bambini, e la madre preoccupata dal dolore e dalla preveggenza impellicciata di castoro e impellicciata di tigre in un elegante cappello da sera, controvoglia lei accompagnò i figli che piangevano a vedere il ruggito dei leoni prima che l’umorismo fosse compianto. Tenue madre, gelida madre, duro padre invisibile. Figlia che pianse quando don chischotte apparve sgargiante e la pietà del bambino fu preveggenza, senza fine. Che rise al leone ruggente minaccioso, che pianse al minuto cavaliere onesto. Che non giocò con nessuno salvo che con un cappotto blu di media taglia dai risvolti neri, velluto, premonizione, e il cappello tondo dai fiocchi neri appesi al retro? Semplicità negata a tutte le età. L’amore l’unico rivale alle lacrime, ed esso scomparve per sempre.

Campione di riconoscimento.

A BIRTH (1962). TESTO ORIGINALE

(da Amelia Rosselli, L’opera poetica, i Meridiani Mondadori, Milano 2012, pp. 657-662)

If I lay back layers of time, and the man dark simpering and sad with his cracked smile, I met him last night after a fight, in the light sheeting the court’s heavy dawn air, if I lay back layers of time I might be ready to open the list of places, addresses of all our lives! ready to make a run for it. If I lay back layers of time I might still render the rage softened by undisturbed love. If I lay back on layers of time I could find Poppy laughing, roaring, softly, blurred against the round sky over the steeple chase tower. If I lay back on layers of time fit for murder with laughter collapsing marauding into a new dynasty, if then time flapped itself back, if I were a coward and believed in child-birth the effort of driving out of town mishaps might permit me to account for birth! If I were a town towering or a tower bloody against a sky fit for birth, if I were a Japanese I might ask you why fit a fight with your fist in it? Birth and bread collapsing over a birth bed choking with her strain of womanhood’s last denial. First denial was the curved tower the elastic bounce of which had designed all mishaps against the sky. A sky red, rose and yellowed with age, a sky bold with its impassibility wronged of things, crooked end of the lane.

Sunday is a typical afternoon of a dreary birth and cry place, the child fakes remembrance of the curve of the vault of the church straining on its cardinal position, child who regains memory as a loaf of bread is turned, is child with no childhood.

Fotos of places are better than places or memories, fotos in our brains same ways. Curve the triangle out of escape and the landscape into curved belonging.

Perhaps the fray is better regarded here from this viewpoint and the curved baked point of childhood is no other than we make it as love wakes tender at a slap. I am incandescent I thought as I lay back folds of time naked into my bosom which heaved purled in the heat of a summer peculiar to despair in the eyes of young women. Youth is not a break which keeps up with continuity, but the reek and sleek mishap of a life revolted to its being.

Particularly kind to my mother must have been my father, in that he so preached. Particularly kind to my mother must have been the priest in that he so well kept a commandment of recondite hunger for the love of good Sundays.

Now as I speak the recognized thin string of harsh loving creeps slight acircle the dry bamboo springs of lamps while cracked bamboo sticks on the drums of the narrow eyed neighbor snap free of their black stick tape. Will the stick snap and the burden be once more held in two ragged hollows of palms while bent the hollow top of drum and enjoyed stillness the lamp. Now while I speak is the root driving at an appeal now while stamping necessary cleaner phrases into the drum ear of the deaf will its stick snap. Now while I wait will wiser clouds break into my parsimony. Now while you wait sweep the mountains their trail to the deer-hunt.

Hunting against an everest sky I attacked the first vision of the pink city over a rebel sky, and the coupole raining shine over my skimmed years. Now while I wait the rain refuses obedience to my fancies of a rainbow while you wait for the turn of the streets below this high dome.

As I place this dream of a vision alongside the first burden of heart, is to be regained the place and the position of the church, against a road greying below, while the shined windows unburdened the child’s heart. Now as I strain to preconceive a vision the child strains outdoors against a dry window flowered with dry sails, their everblown clear curtains, willy nilly white against a white sky even drearier since it was still, the curtains snapped bored and the other house to which no curve of pantheon ever adjoined its gloom, the other house recorded the memory recounted to the child, fat against a flap of curls. The light skipped by the green street ever lower unperceivable, to the child perhaps standing watching the church in its memory of adult. The church flapped its wise and wrecked standard of a full grown blaze smothered to fake poetry, rose under the dew light which I place now against a rough surface crossing the corner of the sidewalk as yet invisible, unrecorded, unremembered. The child fakes a turn on the wide turning point of the circled Square, where that white light shone against no trees perhaps but stone light grey and heaving; the child stares at its memory and swings uncertain of reality. The child stares. The child is there. The child is gone, marauding again the escape or the verity of recollections furnished by grandparents, with their withered joy of separation, their joy of faultless life in a canyon! Look askance again: the child lifts the veil and the turned point of vault and church is no other than a preparation for the death of mysterious seeders, wild guardians, gross politicians. Look further at the steeple which has bent to curve the dome unrusted since the grey dull of its matter (a white or grey chalk indifferently) shines askance, very rosy if you wish to pardon its death appeal to the young.

A street with a black canal, and a father with a grey smouldering cloack on winter turning into spring besides the rain. A cloaked father in the tweed of sunrest, and the sun never lighting any eye of father since he is no figure met at the run of the Square, with its black dot circling into reality, the black undesirable fold of a contour gone.

If a father had lent his pistol to another, so was his car of violet appeasement, warning or vengeance. If a child lends its memory to fake terms later called cloud mystics to the church it was its birth. The birth of a child in a velvet church with a drone dome is faultless spring and paradisical pain; grey unrest and question slime down no flat surface but a space imbedded in space, rose again, blue not and green forever in the mist of dew brown childhood by the mystic vengeance. The god appeared as an overblown star and the correction the vault spent the child’s immagination broke the father’s earth truth and vengeance, earth’s severity.

And were there domes in the white air of Paris in the white hard shapes of light of child? Deaf ears has the child to the deaf stillness and the deaf lilly curtains to the light of business planing mystic over the droned air of streets unimmagined. Windows are too long for the drone that arises from their criss cross imagination and the scorted couple is always silent at dusk while browner than dusk light resounds the other through japanese plants dusting the air, forbidding the peace, resounding of violence, brown hair slipping skins over the merchant’s brow and joint of long chin bone (the necklace). The dust over their faces betrayed the heart of the city and its reflected pressure in a child narrowing at a window larger, freer, emptier with its wealth ruling over nothing, since nothingness was crammed with brown windows of widows or surgeons on vacation. Gardeners lept out unwillingly of windows too tight for the brown earth of other generations creeping through the air at the space of a street width. And narrow whannels into rooms very near rotteness were the answers and the proposals of the windows, the humanity conceived to one so young, peering to learn who is a man. No irony esquissed itself in that childhood vision but the uncertain death rolling majestic in petty places, with green border leaves to shy away cats of greed, gay noose.

The noose was a gardener, the gardener a gay mate. Brown child and staring windows, staring nuns too sipping tea in brown coats revolted before living the questionning; inkling of greed were feasts in eternal valleys, the grey wide avenues lifting to sea weed green tree lacings shafting and plunging to scratch upper windows suddenly flagged: then riot came, subtle, in the child’s mind, and gross misdemeanour and love slovenly with populace suddenly blessedly imperfect, in the feast of balloons snapping, the murder in the crowd suddenly begging down to daily smells of food while children peered at the sun’s early flagging against banners and banners and banners riot in the streets, early flags at tree tops, winds in the blue flaps of food houses, white edged with a scream slowed down to joy slammed down against an oily counter.

O I am a loose noose! O I am a scream in the valley! O my thirty years have slipped by crashing forcefully into a house of crashing banners, tight against a loose wind. The collapse of stardom was a terrible blow at first, then slowly reason returned as a tram in the half light of neon pathways. Impossible layers of time at first flapped back to reveal a reason which had been neglected then denied, then ultimately explained away, slaughtered to manhood, and the woman backstage crying into the fur false costumes of the evening’s, the living’s entire show. O the blow of the revolver revealed a cracked white wall, poverty’s demon, in the backstage door. White whirl of life, living into the eye of destiny, a disaster.

Among the vague surreptitious memories of a very small youth slipped by an afternoon cinema for children and the mother worried with pain and foresight beaver furred and tiger furred in an elegant afternoon hat, she unwillingly accompanied the crying children see the lions roaring before humour wept at. Soft mother, cold mother, harsh father invisible. Crying daughter when don chichotte appeared flamboyant and the pity of the child was foresight, endless. Laughing at the lion roaring with menace, crying at the thin just cavalier. Playing with no one save a medium blue coat with black turn ups, velvet, premonition, and the round hat with black hanging ribbons at the back? Simplicity denied at all ages. Love the only rival to tears, and it disappeared forever.

Sample of recognition.

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mariasole ariothttp://www.nazioneindiana.com
Mariasole Ariot ha pubblicato Essendo il dentro un fuori infinito, Elegia, opera vincitrice del Premio Montano 2021 sezione opera inedita (Anterem Edizioni, 2021), Anatomie della luce (Aragno Editore, collana I Domani - 2017), Simmetrie degli Spazi Vuoti (Arcipelago, collana ChapBook – 2013), poesie e prose in antologie italiane e straniere. Nell'ambito delle arti visuali, ha girato il cortometraggio "I'm a Swan" (2017) e "Dove urla il deserto" (2019) e partecipato a esposizioni collettive.  Aree di interesse: letteratura, sociologia, arti visuali, psicologia, filosofia. Per la saggistica prediligo l'originalità di pensiero e l'ideazione. In prosa e in poesia, forme di scrittura sperimentali e di ricerca. Cerco di rispondere a tutti, ma non sempre la risposta può essere garantita.
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