Questi nostri tatuaggi

di Danilo Soscia

Pubblichiamo un estratto da Mamma Mostro. Tetramerone, una raccolta inedita di Danilo Soscia

Gli infermieri apparecchiarono le lenzuola come fossero una mensa. L’uomo disse che non gli sembrava lecito servire il caffè a quel modo, sul letto dove sua moglie era in coma. Alla fine accettò per debolezza, perché i tatuaggi incisi sulle braccia del caposala lo spaventavano. Tanti minimi oggetti, una lama, una paio di manette, una chiave inglese. In quella selva disegnata comparivano anche volti di donna, oppure animali intenti in faccende umane, come suonare i cembali, brandire un fucile. Un uomo con un così grande potere, pensò, non aveva certo il timore di usare un letto di ospedale come il tavolo di un bar.

Al tramonto, tracciò sul quaderno una somma di messaggi senza destinatario. Telegrammi che avrebbe dovuto spedire quando tutto sarebbe finito. Strinse il polso di sua moglie. Il palpito aveva la consistenza di un grumo di sangue che andava e veniva piano dentro le vene. Finito di scrivere, accettò di fumare in compagnia, di strappare la linguetta alle molte lattine che aveva ricevuto in regalo.

Nella sala d’aspetto grande, accanto alla cappella, si ritrovò a colloquio con l’ombra di sua moglie che veniva a ringraziarlo per la costanza mostrata in quei mesi. Si scusò con lui per lo squallore dell’ospedale, nemmeno fosse una sua responsabilità. Contarono insieme il denaro nascosto a casa, ripassarono il calendario di annaffiamento di ogni singola pianta che avevano allevato. L’uomo le domandò cosa avrebbe portato via con sé come ricordo dei decenni trascorsi nello stesso letto, e lei fece no con la testa, lo sguardo d’argento di coloro che muoiono poveri. Le diede qualche spicciolo, lo aveva fatto spesso nel corso della loro vita. Si salutarono senza nemmeno toccarsi, senza voce. Si mostrarono reciprocamente il palmo della mano, e lui si scoprì a contare le stelle sulla veste della madonna all’angolo dell’androne, fino a quando qualcuno gli infilò un pacchetto di sigarette nel taschino della camicia e gli comunicò che sua moglie aveva smesso di respirare.

L’ultimo caffè. Poi avrebbe dovuto decidere se sigillare il corpo nella bara, oppure esporlo al piano terra, per una camera ardente di due ore. Scelse la prima. Al cimitero, sul cemento fresco che chiudeva la sepoltura, tracciarono le iniziali con un punteruolo.

A casa si servì uova di pesce e limone, ma il senso di colpa gli impedì di divorare la confezione per intero, e ne lasciò un poco. Le piante avevano il terriccio secco.

Nei giorni che aveva trascorso in ospedale, gli afidi ne avevano succhiato tutto il fluido.

Senza troppa sorpresa da parte sua, la vista di ogni oggetto lo nauseava, spingendolo fuori da quelle stanze in cui per una vita erano stati in due. Eppure in nessun modo avrebbe saputo rinunciare alle cornici di cartone, alla ceramica sbeccata che da sempre lo ributtava. Persino le sedie spaiate di casa lo trattenevano.

Guardò alla televisione i programmi della notte, e poco dopo l’alba decise di telefonare a una donna di cui aveva dimenticato il volto. Sperò che il numero, ormai vecchio di decenni, nel frattempo non fosse mutato. Ebbe fortuna. Gli rispose una voce asciugata dal molto bere che lo riconobbe subito. Lui le disse del lutto. Si ricordarono a vicenda di quante volte avessero tentato di rivedersi. Gli auguri di Natale e di buon compleanno scambiati quasi di nascosto, che sembravano sottacere sempre un invito diverso. Entrambi erano sposati. Entrambi avevano scelto per sé un ricovero che non li contemplava insieme. Così, dopo i primi amichevoli scambi, l’uomo riprese il filo della questione e le domandò se per caso tra le sue conoscenze ci fosse una puttana disponibile a venire a casa. Lei si informò se ancora lui suonasse il pianoforte. In cambio di quel favore avrebbe potuto organizzare un piccolo concerto privato. Entrambi risero, e posero fine alla telefonata mentendosi con la promessa che si sarebbero rivisti presto.

L’amica perduta lo chiamò l’indomani. Lo squillo del telefono lo sorprese sulla soglia di casa con gli incarti del mercato, il formaggio, la cotenna, i due pacchetti di sigarette con cui avrebbe affrontato il fine settimana. La donna lo salutò affettuosamente e gli domandò la vera ragione della richiesta che gli aveva rivolto il giorno precedente. Insinuò scherzando che l’irreprensibile amico di un tempo conducesse quel tipo di consumo anche durante il matrimonio, e che fosse rimasto a digiuno di conoscenze fresche. Lui candidamente ammise che quella sarebbe stata la prima volta. Voleva un premio per la sua solitudine. Aveva in bocca tutti i denti, i capelli fitti sulla cute, l’odore vivo di un uomo fecondo. La donna gli augurò allora ogni bene. Si congedò, ricordandogli la promessa di suonare per lei, e gli promise che in giornata avrebbe ricevuto una visita.

L’uomo ingannò l’attesa tagliando a strisce sottili il grasso che aveva acquistato. E quando il fumo prese a salire dall’olio che cuoceva, sua moglie gli ricordò di quando possedevano un pianoforte. Se ne stava seduta a gambe incrociate sulla sedia a capotavola. Sollevò la tovaglia che nascondeva la superficie del tavolo e gli mostrò la tastiera che molti anni prima avevano disegnato sul legno. Lui la prese a sedere sulle ginocchia e finse di suonare, imitando con la voce la melodia dei tasti, il loro scricchiolio. Lei chiuse gli occhi, posò sul tavolo gli spiccioli che il marito le aveva dato in ospedale e si congedò di nuovo.

Apparecchiò per due, riempiendo le scodelle di rigaglie e di verza ancora cruda. Un alone azzurro opacizzava i tetti del quartiere. Pioveva. Raccolse il primo boccone, poi si ricordò che la telefonata gli aveva fatto dimenticare la porta d’ingresso aperta. Sollevò lo sguardo dal piatto e vide davanti a sé una ragazza di bassa statura. Indossava una mantella di colore giallo che le proteggeva il capo e la schiena. Intorno ai piedi un’aureola d’acqua. Si presentò. La mandava quella sua amica. La voce incerta, la ricerca lunga delle parole, come se non conoscesse la lingua che parlava. Lui la invitò ad asciugarsi, a sedere. Le disse che era stata fortunata a trovare pronto. Mangiarono, senza parlare. Non volle sapere niente di lei, nemmeno l’età, sebbene il sospetto di qualcosa di illecito lo inquietò.

Ripulito il piatto, la ragazza lo ringraziò, benedicendo il grasso che l’aveva riscaldata. Disse poi che aveva sonno, e che prima di ogni cosa avrebbe voluto dormire. Lui non si oppose. Le mostrò la stanza da letto, le salviette ripiegate, e quindi il piccolo lavello della stanza, il cesso nascosto dalla tendina. Uscì per pudore. Non voleva vederla mentre si toglieva i vestiti. Lasciò andare il caffè e solo quando fu pronto si affacciò con la tazzina nella camera in penombra. Osservò il corpo nudo che già dormiva sulle lenzuola. Per quanto minuto, acerbo, intonso dai vizi, era quasi completamente disegnato, dalle clavicole al sesso, e giù fino al dorso dei piedi. Solo le mani e il volto non mostravano segni. Era una bestiola istoriata, ed era impossibile non desiderare di passare la mano su quel rilievo di forme in movimento.

Si spogliò a sua volta, e si sdraiò accanto a lei. Scoprì che i tatuaggi raccontavano una specie di storia. Una donna a gambe aperte, riversa su una brandina, partoriva tra le mani di un medico gobbo. Una bambina piangeva dimenticata a terra, tra i residui di una vita adulta, mentre un uomo, forse il padre, prendeva a pugni un altro bambino. Ecco l’ombra di un uomo sulla soglia di una porta, e poi un vassoio di paste domenicali, biascicate, una natura morta di tale vividezza che nauseava. Intorno ai seni muscolosi erano state tatuate due mani da minatore che si avvitavano intorno a quelle rotondità. In basso, in coincidenza con l’ombelico, un piatto vuoto, due corpi di donna avvinghiati come serpi d’estate, il disegno anatomico di una lingua, l’impronta di una vulva divaricata, una pistola di grande calibro, un uomo a terra, riverso. E infine, per quello che riusciva a vedere, sulla linea più bassa del ventre il ritratto di un vecchio che gli parve somigliare. I capelli, la barba accennata, gli occhi larghi da scimmia. La sfiorò giusto in prossimità di quel disegno. La puttana lo percepì nel sonno, e si voltò sull’altro fianco. Lui si rannicchiò a sua volta, raccogliendo le ginocchia tra le braccia, e cominciò a tremare, a cercare senza trovarlo un passaggio che lo conducesse sotto le coperte.

Si svegliò con la luce del nuovo giorno. La ragazza gli stava davanti, oltre la sponda inferiore del letto, che lo guardava. Si era rivestita con la sua mantella di plastica, il trucco di nuovo marcato sulle labbra e sulle guance. Gli chiese se potesse pagarla. L’accompagnò alla porta, nudo com’era. Le passò in mano quattro banconote piegate e la ringraziò.

Al tavolo della cucina ritrovò sua moglie. Anche lei si era spogliata e aveva il corpo disseminato di tanti minimi tatuaggi. Un bouquet nuziale, una moneta da cinquanta centesimi, medicinali, una forma di pane, la sagoma della bara in cui l’avevano calata pochi giorni prima. Il marito le domandò dove avesse trovato da morta il tempo per farsi tatuare. I tatuaggi, poi, non si potevano collezionare a lungo, perché erano destinati a diventare una macchia nera, senza alcuna memoria di quello che erano stati. La moglie lo osservava parlare, come aveva fatto per una vita. Amandolo, commiserandolo. Gli mise le braccia al collo. Voleva essere accarezzata, annusata. Nudi, davanti a un lavello ingombro di piatti, sembravano felici. Quando si sciolsero dall’abbraccio, la donna era di nuovo vestita. Ma salutandolo si alzò il vecchio maglione all’ombelico e gli mostrò il tatuaggio che adesso portava. Era il volto volgare di una giovane, un essere violento e tenero, che lo insultava dagli occhi. A lui ricordò la ragazza con cui aveva dormito, e forse anche sua moglie dovette dare credito alla stessa impressione, perché fece ondeggiare i muscoli laschi del ventre, su e giù, tanto che quel volto sembrò parlare. Sembrò domandare. L’uomo avvicinò l’orecchio per ascoltare meglio, ma di nuovo non c’era più nessuno. Solo la cucina lurida, la scorta delle sigarette.

Aveva compiuto il suo centodecimo anno di vita, e non riusciva a morire.

Immagine di Khalid Hamid da Pixabay

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1 commento

  1. molto bello, complimenti a Danilo Soscia che, purtroppo, scopro solo ora, è ora di recuperare, in attesa di questo suo nuovo lavoro

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Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
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