Per un ritorno dei libri di Janet Frame. Cento di questi anniversari

Janet Frame – Massey University Library (10th Jun 2021). MU, 1 November 1993

di Anna Toscano

Per alcuni anni ho scelto Un angelo alla mia tavola di Janet Frame come libro da raccontare quando le scuole mi chiamavano per i “Piccoli maestri”. Il progetto, declinato nella mia regione su quello nazionale, prevedeva che scrittrici e scrittori dessero la propria disponibilità ad andare a raccontare libri nelle scuole, che selezionassero in quale ordine e grado di istituti preferissero andare e indicassero una lista di titoli come proposta.

Per tutti gli anni in cui vi ho partecipato ho selezionato le scuole superiori e indicato il romanzo di Janet Frame e Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino. Calvino veniva scelto molto di meno, forse perché già conosciuto o materia di studio o già presentato da altri colleghi, e Janet Frame era la più gettonata. Con mia grande gioia – in quanto era l’occasione di parlare di una autrice non antologizzata e sempre meno letta in questi ultimi anni – e con un pizzico di rammarico: sarei andata a parlare di un libro non rintracciabile in commercio in edizione cartacea, in quanto le sue ben tre pubblicazioni – in tre volumi per Interno Giallo nel 1991 e 1992, traduzione di Lidia Zazo, Einaudi nel 1996, traduzione di Lidia Conetti Zazo, Neri Pozza nel 2010, traduzione Lidia Conetti Zazo a cura di Giovanna Scocchera – le si trova da tempo solo nelle bancherelle dell’usato. Fatta eccezione per il formato Kindle reperibile per Neri Pozza si trattava, e si tratta, di un libro introvabile.

Ciò che mi incoraggiava a proporlo ogni anno era l’effetto che ne faceva la narrazione in classe, il fatto che il film omonimo di Jane Campion fosse ancora reperibile online e che, immancabilmente, le biblioteche scolastiche e non, per un mistero non tanto insondabile, avessero questo titolo. Infine, alcuni studenti scoprivano che sugli scaffali delle librerie nelle loro case c’era il volume. E mi veniva spesso da sorridere, allora, perché i loro genitori avranno avuto in media la mia età e passando per gli anni ’90 da lettori o lettrici o da amanti del cinema il titolo Un angelo alla mia tavola non poteva sfuggire. Come non sfuggì a me il leone d’argento alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1990: film che allora venne proposto per lunghissimo tempo nelle numerose, allora, sale cittadine.

Perché ho scelto di raccontare questo libro, perché ho pensato che la storia di una bambina, poi ragazza e donna, in Nuova Zelanda tra gli anni Venti e Trenta del Novecento e poi snodatasi tra ospedali psichiatrici in patria e viaggi liberatori in Europa, potesse avere a che fare con loro? Per lo stesso motivo che la stessa Frame racconta in questo libro quando descrive la scoperta e la lettura di molti classici, come i Grimm o Shakespeare, dice: “quanto era meraviglioso l’intuito dei poeti che permetteva loro di leggere nella mia vita, di scrivere come se scrivessero della gente di Oamaru, che tutti sapevano essere a metà strada fra l’equatore e il Polo Sud […]”. Il potere di ritrovare la propria vita nei grandi scrittori e di come le grandi opere letterarie parlino proprio della nostra vita.

La scoperta di Frame ragazzina si riversa sui ragazzi e sulle ragazze di oggi che la leggono. Come una ragazzina di una famiglia povera, poverissima, e nomade – il padre lavorava alla costruzioni delle ferrovie -, con tre sorelle e un fratello affetto da autismo, che viveva in una baracca che di volta in volta scomponevano e ricostruivano in un altro luogo, una bambina coi capelli ricci, rossi, piena di efelidi, robusta, molto robusta, con abiti irrigiditi dall’uso, e spesso con poca possibilità di lavarsi, come questa bambina, piena di tic e presa di mira da insegnanti e compagni, derisa, bullizzata, fosse una di loro. Di come questa bambina, la cui madre raccontava favolose storie di bellezza e allegria, venisse salvata da un maestro che ha visto in lei un dono: la scrittura. Di come la rivelazione di questo dono ponesse questa bambina un poco fuori dal cerchio della stigmatizzazione e le desse la forza di sopravvivere a situazioni difficili. Di come, comunque, il marchio della diversità con cui la società l’aveva bollata fosse diventato indelebile e lei ci dovesse convivere.

Di come i buoni maestri che si incontrano svoltino la vita come i cattivi maestri: di come un professore della magistrale, interpretando a modo suo un testo scritto da una Frame già cresciuta e pratica di scrittura, le faccia scontare anni e anni di manicomio. Lo psichiatrico degli anni ’50 in Nuova Zelanda, come in moltissimi altri paesi, è un vero e proprio luogo di violenza e reclusione in cui gli elettroshock erano un sistema più punitivo che curativo. Sarà l’intuizione di un editore a salvare la ragazza Janet da una lobotomia, quell’editore che riceve pezzi di fogli con i suoi racconti e ne intuisce il valore: il primario che le aveva prescritto la lobotomia allora si ricrede, pensa che non sia pazza ma “solo” un’artista, una scrittrice, e la libera.

Frame non sarà mai libera dal marchio della follia – le centinaia di elettroshock subiti urlano in tutta la sua opera – dalla fatica si stare in mezzo agli altri, ma sarà libera di incontrare altre persone, “maestri”, e saperli vedere buoni o cattivi, capire se afferrare la loro mano che si tende o voltarsi dall’altra parte.

La fine di questo suo libro, infine, passa attraverso un’altra mano tesa, quella di uno psichiatra a Londra che la segue per aiutarla a ridefinirsi soprattutto alla luce di un passato così violento, e ci parla di accettazione di sé nella propria diversità in quanto la diversità è ciò che ci accomuna agli altri esseri umani – “la sua prescrizione per la mia vita ideale era che vivessi da sola e scrivessi resistendo, se lo desideravo, alle richieste degli altri di «unirmi a loro»”- e di scrivere, scrivere la sua storia, per affrontare il passato ed essere così in grado di vivere il presente, per ricostruirsi, rimettere insieme i tasselli di un sé frantumato dagli eventi, ricrearsi una identità e progettare il futuro.

Ed è quello che Frame farà diventando, libro dopo libro, una delle scrittrici neozelandesi più importanti del secolo scorso.

Non ho quasi mai parlato, nelle classi, del libro dal titolo Dentro il muro, uscito per Tea nel 1994, traduzione di Lidia Perria, e nel 2013 con il titolo Volti nell’acqua per Neri Pozza, con la stessa traduzione: è il diario dei suoi anni reclusa nei manicomi, con una scrittura talvolta poetica talvolta surreale non risparmia nessuna crudezza a chi lo legge, un libro spietato ammantato della lingua di Frame, un libro che porta alla luce le efferatezze in virtù di una regolarizzazione sociale. Gli anni dei ricoveri psichiatrici di Alda Merini sono di un decennio più tardi ma il libro in cui lei li racconta, La pazza della porta accanto, riporta gli stessi orrori. Non ne ho mai parlato, solo accennato, come discorso-esca che ha sempre aperto a infinite domande. La bellezza della scrittura di Frame, di tutti i suoi libri in prosa fin alla poesia, pubblicata postuma in Italia, è la narrazione di un mondo così distante per tempi e luoghi eppure così vicino, in cui tutte le protagoniste personagge parlano di ognuna e ognuno di noi, delle nostre vicende e della nostra vita, della società civile tutta senza confini alcuni.

Due note in chiusura. La prima. Spesso la mia narrazione nelle classi, talvolta del biennio e talvolta del triennio, è stata resa, dalle contingenze, efferata da una veridicità spiazzante verso la fine: prima di lasciare spazio alle domande, rivelavo che anche io avevo avuto, in altri modi e tempi, delle vicende complicate quando frequentavo la scuola dell’obbligo e l’unica persona che mi aveva teso una mano da “buona maestra”, già alla fine delle superiori, era stata la mia insegnante di letteratura, neodiplomata al suo primo incarico di insegnamento. Aggiungevo, parafrasando la Frame, che era stata lei che mi aveva fatto capire che col “Passero solitario” Leopardi stava parlando anche di me, della mia vita, dell’umanità tutta. Ed era a questo punto, non senza un pizzico di commozione – commozione che mi prende anche ora che lo sto scrivendo – che rivelavo che la mia insegnante di allora era la medesima che avevano loro e che mi aveva invitata a parlare in quella classe. Si faceva un silenzio colmo e sordo, alcuni si guardavano, ci guardavano, borbottavano e poi un “Ma davvero?” scioglieva ogni dubbio.

La seconda nota è che oggi ricorre il centenario della nascita di Janet Frame che, morta nel 2004, ha scritto libri belli e importanti: in Italia con una fortuna alternata che man mano va scemando. Vorrei che questo centenario aprisse, spalancasse, le porte ad altri cento anni pieni di libri di Frame tradotti e pubblicati, non solo Un angelo alla mia tavolama anche le altre sue numerose opere, un desiderio che ho, anche già espresso quest’anno, in occasione del centenario dalla morte di Goliarda Sapienza e di Brianna Carafa: cento di questi anniversari con tutti i loro libri in commercio.

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1 commento

  1. Anna, Janet sarà sempre una mia amica e ne parlerò sempre, non certo come sai fare tu, ma è davvero un angelo o ha visto un angelo, nella scrittura e questo è raro

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