Autenticità e poesia contemporanea # 6
di Antonio Francesco Perozzi
Dopo Roberto Cescon, Tommaso Di Dio, Marilena Renda, Andrea Inglese e Marco Pelliccioli, Antonio Francesco Perozzi si e ci interroga sul tema dell’autenticità, nell’ambito di un dibattito lanciato da un dialogo fra Maria Borio e Laura Di Corcia e sfociato in un questionario sottoposto a poete e poeti (che trovate qui), ospitato dai blog Nazione Indiana, Le parole e le cose e PordenoneLegge. Il dibattito registrerà anche una puntata dal vivo a PordenoneLegge – qui tutte le informazioni.
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Il pensiero debole e il conseguente ragionamento sul soggetto debole ha messo in crisi il concetto di verità. Ma a partire dal crollo delle Torri Gemelle questa prospettiva è stata posta notevolmente in discussione: l’idea di essere al di là della storia, dei conflitti fra superpotenze o schieramenti, si è frantumata di fronte alla certezza, oggi ancora più evidente, che la tragedia può esistere davvero sulla scena del mondo e rompere la cortina fra noi – occidentali – e gli altri. Da questi assunti sono partite una serie di riflessioni, fra cui quelle di Maurizio Ferraris e Walter Siti, che postulavano breviter l’impossibilità delle poetiche del realismo e della fiction in un momento in cui la vita sembra superare la finzione. Tutto ciò chiama in causa una responsabilità rispetto ad alcuni fenomeni storici verso i quali il pensiero debole sembrerebbe non fornire più le risposte adeguate per la decodificazione della realtà. Questi fenomeni avrebbero portato l’attenzione anche sull’importanza dell’autenticità. Cosa ne pensi? E come pensi che questi ragionamenti possano o debbano essere integrati in una riflessione sulla poesia?
Mi sembra – potrei partire da qui – che l’idea che la storia irrompa nella quotidianità e quella di esserne invece pienamente svincolati, siano in realtà la stessa idea. Dal mio punto di vista, già questa opposizione si regge su una serie di taciuti ideologici. L’immagine della storia che riappare violentemente nel presente, del resto, funziona solo se si presuppone proprio la capacità di staccarsene. È un paradosso: la cultura umana coincide esattamente con la storia, dunque l’espressione “la storia irrompe nel presente” equivale a “la storia irrompe nella storia”. Ecco, questo paradosso si origina a partire dalla tendenza, semmai, a interpretare come naturale (dunque neutro) un preciso contesto storico e culturale – quello capitalistico – in maniera funzionale alla sua sopravvivenza. Non è un caso che si torni a parlare di storia – come è successo allo scoppio della guerra in Ucraina – solo in caso di macro-fenomeni violenti, che sono la parte più spettacolare, ma non la totalità, della storia.
Tutto questo per dire che l’aspetto deteriore delle prospettive postmoderniste, cui il pensiero debole è legato, sta proprio in questa scissione ideologica tra cultura e storia. Per contro, l’aspetto che io ritengo più interessante del postmodernismo è la rilevazione della pervasività e molteplicità dei linguaggi e dei media. I due aspetti sono naturalmente legati, e questa matassa di linguaggi è proprio ciò che permette al postmodernismo di tentare la fuga dalla storia. Ma se smontiamo l’ideologia su cui si basa la scissione, ecco che il mondo dei linguaggi torna a essere un (iper-)oggetto della storia. Su questa base, anche la dicotomia tra fiction e realismo mi pare una semplificazione: la finzione come alternativa alla realtà, come alternativa escapista, soprattutto, bypassa il problema delle radici materiali della finzione. Detta così può sembrare paradossale, ma non più di quanto lo sia l’idea di una finzione totalmente scollata dal reale. Siamo ancora lì, in un sistema di decurtazioni ideologiche. Invece: la finzione è reale. L’apparato intricatissimo e multiplanare delle finzioni può essere reinquadrato e inteso, più che come un extra-, come un infra-mondo: è coinvolto nella realtà, ne è sintomo, ma ne amplia anche i confini come un doppio fondo, come un Nether. Nello stato di cose presenti, la nostra azione non può che compiersi all’interno di questa commistione tra realtà e finzione. E il discorso sull’autenticità in poesia – che approfondisco nella risposta successiva – soffre a mio avviso di un vizio simile a questo non vedere una compromissione tra reale e finzionale, storico e “non-storico”. La finzione non sostituisce la realtà, come si illudeva molto postmodernismo, ma ne partecipa, spezza l’unità delle cose. È la cultura, in fin dei conti, benché accelerata dai media. Ed è la cultura, ma in senso latouriano: è un ibrido tra materia e linguaggio, natura e cultura, come lo sono tutti prodotti umani, e gli umani.
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L’autenticità – dall’età romantica all’esistenzialismo – è stata cruciale per la formazione dell’individualità moderna: il mondo interiore diventava imprescindibile nella comprensione del reale al posto dei sistemi generali aprioristici del passato. Giacomo Leopardi distingueva il “vero” dall’“affettazione”. La letteratura ha progressivamente abbandonato la rappresentazione della vita secondo forme fisse universali, concentrandosi su quella, complessa e variegata, della coscienza. L’autenticità è stata un ideale: avrebbe dato senso all’esistenza, sarebbe stata una via d’accesso alla verità o quanto meno ci avrebbe aiutato a individuare dei significati per l’umanità nella storia. Questo suo carattere, come ha notato fra gli altri Charles Taylor, si è perso. Essere autentici avrebbe portato a giustificare solo le scelte e l’espressione dei singoli, a guardare prevalentemente al proprio interesse esasperandolo, a dimenticare che l’orizzonte della storia è importante e non aleatorio, così come un’etica nella società. Ci avrebbe chiuso, in modo nichilista, nelle nostre monadi, nella prigione di noi stessi, mentre i rapporti sociali sarebbero degenerati in una neutralità relativistica. Anche la letteratura, allora, è arrivata al punto di non poter più credere al valore dell’autenticità. Ma per chi fa letteratura oggi è importante interrogare l’autenticità come un problema?
Per me, ripeto, non sono trascurabili i sottotesti culturali. Sono quindi d’accordo con il collocare il paradigma dell’autenticità in una precisa fase storica, cioè in legame allo sviluppo dell’identità moderna: dopo l’illuminismo, sicuramente (in Occidente) la dimensione individuale assume una posizione culturalmente primaria. Non solo: realizza progressivamente quel passaggio da autobiografismo trascendentale ad autobiografismo empirico di cui parlava Mazzoni in Sulla poesia moderna. Su questa linea, è impossibile non vedere l’intrecciarsi del processo di “individuazione” con l’ascesa della borghesia e lo sviluppo del cattolicesimo. L’autenticità, quindi, contribuisce a fondare l’individualità moderna sulla base di: 1) la trasformazione dell’individuo in produttore/consumatore; 2) un’interpretazione morale e religiosa della vita. Il problema del discorso sull’autenticità è che spesso viene approcciato omettendo queste due elementi fondamentali. Il primo definisce in maniera pratica e storicamente rintracciabile ciò che possiamo chiamare l’individuo moderno. Nella modernità l’individuo viene promosso a soggetto anche in virtù del fatto che acquisisce un ruolo diverso (rispetto al feudalesimo) all’interno dell’economia. La soggettività – la rilevanza socio-culturale dell’attore individuale – è anche la capacità imprenditoriale del borghese. Saltare questo passaggio rischia di svincolare l’individualità dalla sua definizione storica ed economica, dunque assolutizzarla a-storicamente. Quanto al secondo punto: che l’individualità sia sottoposta a un giudizio morale (agire nel bene o nel male) e a un programma dualistico di salvezza o dannazione rafforza (se non determina) il paradigma su cui si regge l’autenticità. Ciò che non riesce a convincermi del valore dell’autenticità è il suo platonismo di fondo: c’è la verità, da una parte, che si annida nella profondità dell’individuo, e la falsità, dall’altra, che equivale a una serie di barriere poste tra individuo e mondo. La vedrei quindi anche in maniera inversa: l’autenticità che fonda l’individuo romantico, ma anche il romanticismo fichtiano, Io-centrato, che costruisce le condizioni culturali per pensare l’idea di autenticità. Da questa prospettiva è facile declassare la storia ad accidente della Vita, parco di duplicazioni fallaci delle Idee; così come è facile intendere la lirica (il cui sviluppo coincide, ancora con Mazzoni, con il processo culturale di individuazione) a strumento attraverso il quale ricongiungersi a una verità/individualità pura e astorica. Mi interessa problematizzare questi paradigmi. Il nichilismo per me non è una degenerazione morale, ma una coerente evoluzione dell’individuo moderno: indebolita la giustificazione religiosa, a un certo punto della storia, il “platonismo” descritto prima rimane monco e fa emergere gli aspetti distruttivi dell’individuo-consumatore-dominatore. Il punto però non è reiniettare un freno religioso in questa dinamica; si tratta di cambiare dinamica.
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Che rapporto c’è tra scrittura confessionale e autenticità? L’autenticità può essere connessa solo alla lirica, concentrata quindi intensivamente sul soggetto, oppure ad altro? L’etimologia di autentico, d’altra parte, deriva dal greco αὐϑέντης, composto autos (me stesso) e hentes (colui che agisce): autentico è chi agisce secondo il suo vero sé. Ma l’azione, per realizzarsi, presuppone un contesto e la possibilità di interazione con gli altri, senza i quali nemmeno la nostra identità riuscirebbe a costituirsi. La prova dell’autenticità, alla fine, avverrebbe comunque in un orizzonte intersoggettivo… – e, quindi, l’espressione (autentica) di sé, da parte del poeta, come può interessare la collettività?
Senza dubbio la lirica, almeno in linea di massima, si regge su un’interpretazione della soggettività che più facilmente può integrare l’aspirazione all’autenticità. Se la lirica ha come obiettivo – ancora semplificando – una tensione verticale a partire dall’esperienza del singolo, l’autenticità può essere intesa come banco di prova della forza veritativa di questo slancio. Detto altrimenti: per verticalizzarsi, la lirica tende a esigere un’autenticità dell’esperienza, quindi della scrittura che la accoglie, finendo spesso per identificarsi, almeno nelle aspirazioni e nei meccanismi di senso, con l’idea stessa di autenticità. Le criticità che ravviso in molta lirica – parlo di un problema culturale e ideologico, che può anche prescindere dal giudizio estetico, da ciò che mi piace leggere – sostanzialmente coincidono con quelle del paradigma dell’autenticità: proprio se consideriamo l’etimologia della parola, si capisce come al centro del paradigma ci siano degli assunti filosofici per niente pacifici. Tanto l’autenticità che la lirica attribuiscono un valore veritativo all’esperienza individuale, tendono a evidenziare l’unità di questa esperienza (anche quando è esposta in maniera frammentaria, fin da Petrarca: permane un’istanza soggetto-autore forte, centripeta e dominante la materia verbale) e ad avere fiducia nel distinguere in maniera netta un’esperienza vera da una falsa. Ancora la storia, però, ci dice che questa prospettiva è figlia di una certa epoca e l’esperienza contemporanea spinge a rileggerla completamente, in direzione di una connessione più intricata tra ciò che è “vero” e ciò che è “falso”, e di una difficoltà a riconoscersi nella gerarchia tra un profondo autentico e una superficie inautentica.
Detto questo sulla lirica, non vorrei tuttavia riportare tutto a una questione di fazioni, che banalizza davvero troppo il discorso. Anche per questo ho svincolato il giudizio estetico sulla lirica da una sua lettura storica e antropologica: ci sono poeti lirici che a me piace leggere, e anche molto, ma questo non esclude la possibilità di criticarli su un piano culturale o politico. Dipende anche dal fatto che, appunto, le nostre esperienze sono intersoggettive, e che l’egemonia culturale, quindi le istituzioni che educano il nostro gusto, sono di matrice borghese. È in un’ottica né calcistica né democristiana, semmai critica e analitica, quindi, che mi pare possibile dire che le prospettive non liriche sfidino più chiaramente il criterio dell’autenticità, inteso come misura di una verità esperienziale o ontologica: si tratta di non riuscire più – storicamente – ad avere fiducia in un soggetto unitario, in un suo dominio assoluto della materia verbale, in un criterio valutativo basato sull’aderenza dell’esperienza alla verità e della lingua all’esperienza, in una coerenza di senso monolitica. In questo caso, la dimensione intersoggettiva mi pare si faccia più realistica, perché permette di far entrare nel testo nuovi meccanismi e attori (non solo umani, non solo animati e non solo materici), riducendo la centralità del soggetto-mondo di matrice romantica e presupposta dal paradigma dell’autenticità. Se intendiamo la poesia (solo) come espressione, mi sembra lineare che la sfera della collettività rimanga poco toccata: stiamo ragionando ancora sul poeta come versione speciale, appunto “autentica”, di una Soggettività padrona della storia e del linguaggio. Al contrario, il lavoro del poeta può interessare la sfera collettiva non come portatore di verità ma come luogo pragmatico di manipolazione e interrogazione del senso, che è sempre una costruzione collettiva. Questo si può fare anche liricamente, nel momento in cui viene mantenuto un margine di presenza soggettiva, di soggetto che si domanda. Ma è storicamente rintracciabile che lirica e paradigma dell’autenticità siano prodotti della stessa cultura.
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Quando scrivi, nel momento in cui prende spazio l’elaborazione del testo, hai di fronte queste prospettive? E se sì, in che modo influenzano il tuo lavoro?
Credo sia inevitabile averle presenti nel momento in cui si scrive. A prescindere dalla propria opinione, si tratta di questioni molto dibattute nella poesia contemporanea e quindi per forza di cose attraversate. Ciò a cui bisogna stare attenti, a mio parere, è evitare che il discorso sulla scrittura colonizzi la scrittura e la determini in maniera matematica. Sono scettico verso l’idea di ispirazione (se la intendiamo in una forma pura e metafisica come spesso si fa), perché la scrittura è dentro, inevitabilmente, le altre scritture, poetiche e non. Di conseguenza non credo affatto che il dibattito intellettuale “sporchi” la scrittura poetica, e, anzi, sappiamo che dagli anni ’60 la poesia ha convogliato al suo interno molto discorso intellettuale o scientifico. Allo stesso tempo, anche nelle scritture più programmate (che frequento), mi pare che il gesto funzioni se si lascia al suo interno una certa dose di imprevisto, di rivolta al programma. Niente di umorale, o soggettivismo di ritorno; è lasciare, entro un tot, le briglie della macchina, proprio in virtù di un soggetto che non si controlla pienamente, non controlla pienamente la lingua che usa e il luogo in cui gli si costruisce. Quando scrivo mi pare interferiscano – e mi sta bene così – una parte studiata e razionale e una indeterminata, il retro di ciò che scrivo nella corteccia cerebrale. È fondamentale questo retro, proprio per come intendo la questione dell’autenticità. In bottom text, ad esempio, contenuto nel XVI Quaderno, credo di aver ottenuto una cosa del genere. Un’istanza soggettiva che agisce, che dice io, anche, e nomina i suoi luoghi e i suoi oggetti, ma lo fa cinque passi indietro rispetto alla “verità”; lo fa solo in parte, mentre da un’altra zona la sua lingua e la sua esperienza risultano guidate da qualcos’altro, o almeno spinte a collocarsi in una terra di mezzo, in un livello dislocato impossibile da definire, in fin dei conti, come autentico o meno.
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Immagine: Matthew Barney – Water Cast 12: White Dwarf, 2015
(cast bronze, bronze chain and polycaprolactone)