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Una vita dolce

Gianni Biondillo intervista Beppe Sebaste

Beppe Sebaste, Una vita dolce, Neri Pozza, 214 pag., 2022

Il tuo romanzo parla di istanti e di eternità, di mistica e metafisica orientale. Sei consapevole della tua atipicità?

Sono piuttosto consapevole che molto di ciò che scrivo è lontanissimo dal trionfalismo della narrazione occidentale… E nel mio libro è citato dall’inizio anche il contrario del romanzo a trama: quella forma lieve con cui lei (poiché c’è una lei), si affaccia a “disturbare” nel primo capitolo con l’inermità dell’haiku, l’attestazione di una definitiva innocenza, quell’epifania poetica di diciassette sillabe chiamata haiku. L’arte di descrivere l’evidenza che è nascosta dall’evidenza stessa.

Il tuo è un libro che vuole rompere il ricatto della trama. E del cronotipo: è un raccontare il raccontare.

“Rompere il ricatto della trama”: credo di non avere mai fatto altro da quando ero un ragazzo. Da una parte perché sono sempre stato dalla parte di chi trasgredisce, e la trama è sempre, anche graficamente, un’uniforme e una messa in ordine, un ordine del discorso. E oggi, ancora di più, si assiste a una progressiva riduzione della letteratura alla narrativa – e della narrativa al genere poliziesco, quest’ultimo ormai solo un abbozzo di telefilm con ambientazione criminale. E tutto il resto? Il resto sarebbe l’esperienza, non solo interiore, che scrivere e raccontare avrebbero il compito di trasmettere. Quello che Amitav Gosh chiama “guardare una tigre negli occhi”. È chiaro che le esperienze possibili sono tante e diverse, e anche quel legame tra il piangere e il dire la verità (avventura ben nota per secoli ai filosofi) che tu chiami “mistica”, e in tutti i casi atipica. (Qualcuno ha detto che Una vita dolce è un romanzo inclassificabile, fuori da ogni genere. Meno male, mi sono detto, ci sono riuscito anche stavolta).

Questo inganno del tempo è forse il tuo modo di non abbandonare “S.”, la tua compagna che per una malattia stava abbandonando il mondo, giorno dopo giorno?

Confesso che con questa scrittura io mi sono curato (ciò avveniva già prima della silenziosa pandemia). E sono stato felice della citazione di un brano di Una vita dolce che su un social un lettore ha proposto a un altro lettore del mio libro, come invito a una lettura condivisa. La frase è la seguente: “Ritrovo la pacatezza di scrivere senza trama, senza oggetto, senza per forza costruire impalcature che trasformino parole e frasi in utensili, mattoni, pezzi di ricambio per costruire chissà cosa, e che comunque sia sbriciolerà in un finale più o meno riuscito Chi mi concede e assegna questa libertà? La mia compagna, affetta da malattia di Alzheimer “precoce”, per la quale i deittici, i punti di riferimento spaziali e temporali, le trame, non hanno più nessun senso…. Senza trama vuol dire che tutto, per noi, è storia e narrazione, tutto è già prologo e finale, tutto è eterno. Non è questa l’essenza della letteratura?”

(pubblicato in forma leggermente differente su Cooperazione, nel 2022)

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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