Personal Jesus
di Filippo Polenchi
Terra, fuoco, legno, acqua (fluviale, se è di mare è di un mare extra, un Oceano), tempesta. Le myricae di Andrea Dei Castaldi scoppiano nel fragore orchestrale delle sue storie. Sono storie come gherigli di noci, dentro a gusci concavi – ma non vuoti – che descrivono il profilo del cielo, delle eclissi. Ci si perde a guardare dal basso verso l’alto, una forma di vertigine agorafobica – seppure nella misura contenuta delle narrazioni, misurate, classiche – che ti prende quando l’asse di rotazione del proprio corpo è disassato, ebbro. Ci sono segni, nel cielo, grandi transiti di carovane stellari. E poi c’è il mondo terrestre, dove, in maniera democratica dentro a tutto quello che potremmo chiamare l’allestimento della geografia, c’è un altro elemento, decisivo, che gioca la sua partita scissa, la sua lotta (senza però quella retorica sdrucciola dello struggle for life): l’umano.
«Il pensiero che sono scalcia più forte perché ora pensa il cielo».
Ci sono dèi e ci sono demoni: passano dal proprio regno a quello dell’altro, si mescolano, diffrangono la voce, il logos. Nel suo ultimo romanzo Le parole d’ordine (Barta, 2024) si legge «ognuno ha il suo dio personale». Un dio per ogni forma morale con la quale si vuol accompagnare un’esistenza, perché è ovvio che, hemingwayanamente, non abbiamo che la forma morale a condurci. Del Dio maiuscolo: le vociferazioni lontane, ecolalia.
Il demone moltiplica gli spazi di visione, le voci. Il demone parla in una camera ecoica, non si riesce a capire bene da dove proviene la voce. La moltiplicazione dei punti di vista – che è una cifra formale di Dei Castaldi, fin dal suo esordio nel 2013 con Finisterre (Barta) – non produce una sommatoria comprensiva, la soluzione sul piano dell’enigmistica del dramma. L’ampliamento delle voci, in qualche modo, svia, conduce altrove, lascia intendere più che esprimersi con chiarezza. Perché se Dei Castaldi scrive ogni volta una inchiesta mascherata da dramma classico è proprio perché il dramma stesso è, spesso, un romanzo greco e perché la detection che si deve fare (le ragioni di una scomparsa, un piccolo equivoco cimiteriale, cito in ordine sparso tra i romanzi Finisterre, La cesura e Anime brevi) è perché la si è fatta in illo tempore, accade qui e ora perché è accaduta nell’Edipo Re del V secolo a.C.
La forma morale di questa narrativa attraversa la Grecia classica. Ce n’eravamo accorti dieci anni fa, quando in Finisterre faceva la sua apparizione una scena-limite, una svolta nell’intreccio, certo, ma una rivelazione di quelle capaci di cambiare la direzione della storia – e anche in quel caso si era incerti, la parola non poteva essere definitiva, si era nel forse. Lo capivamo anche nella Cesura (2015, Barta): la coabitazione di spoglie diverse è sacrilegio, è sacer appunto, qualcosa che deve rimanere ‘separato’ dalla comunità: e da lì cominciavano le ipotesi, le investigazioni…
Anche in quest’ultimo romanzo le ‘fonti’, per così dire, non potrebbero essere più chiare. La vicenda del libro è molto semplice: nel 1978 Olga, la nipote di Oreste Casaro, un veterano della guerra d’Africa (1941), assediato dalle tragedie dell’esistenza ma inspiegabilmente sempre sorridente, chiama a raccolta alcuni vecchi commilitoni e ‘compagni’ dell’esperienza bellica perché 1) lo zio sta morendo 2) lo zio riceverà una tardiva medaglia al valore. L’assemblea dei testimoni – e dei curatori della memoria – è composta da: Domenico Buzzati (ex giornalista ed ex fascista), Stefano Casadei (nomen-omen: è un prete spretato), John William Abbott (medico inglese della prigionia). Ogni capitolo è affidato a una voce, ogni voce – eccezion fatta per ovvie ragioni per Olga – può spostarsi liberamente a parlare di un periodo compreso appunto fra il 1931 e il ’78. Veglia e incornicia il contrappunto dell’intreccio l’elezione al soglio pontificio di Albino Luciani, che vive e muore nel tempo di questa storia.
Guerra e ritorno a casa. A me pare ovvio che Dei Castaldi, qui, abbia voluto assemblare Iliade (la Libia al posto di Troia, l’assedio, la fuga, i diavoli ubriachi dei soldati scatenati, le mutilazioni, la sofferenza) e Odissea (il nostos dei tre amici intorno al corpo limitare di Oreste). Tuttavia a questa Eneide manca una figura di sintesi, un eroe, Enea giustappunto, perché a presentarsi fin dalla prima scena è semmai un puer, un bambino che «ha dodici anni» e, all’inizio del libro, sembra che li avrà anche domani, che ne avrà dodici per sempre, una figura cristologica che, crescendo, colmerà la distanza fra terra e cielo chiamando a sé, anzitutto sul proprio corpo, il patimento universale del corpo. Oreste (nome da tragedia greca, naturalmente) è una figura di sintesi, certo, ma biblica.
E in fondo il mondo di Dei Castaldi è questo: la drammaturgia attica e l’immaginario biblico: un deserto, il fuoco, la rivelazione, l’innesco di un personaggio catartico. Il mondo di Dei Castaldi, anche per la vocazione alla polifonia e alla struttura che si fa essa stessa storia, è quello di Faulkner. Un mondo pre-contemporaneo, verrebbe da dire, un mondo semplicemente moderno.
Nel 1979 esce La cultura del narcisismo di Christopher Lasch: l’autore americano radiografa la società statunitense all’alba di Reagan, del postfordismo, dell’insistente – e oggi è la quotidianità – guerra di tutti contro tutti. In modo folgorante, nell’introduzione, Lasch scolpisce una formula per determinare la genesi dell’uomo narcisista, il quale «è perseguitato dall’ansia, non dalla colpa». L’ansia di non piacere agli altri, di non essere apprezzati, di non essere amati, di non essere riconosciuti, di non coincidere con l’immagine (grandiosa) che abbiamo di noi, l’ansia di fallire, la performance continua tra vincitori e perdenti: tutto nasce dallo sgretolamento comunitario delle fondamenta tradizionali (per Lasch).
Le parole d’ordine si svolgono nel 1978, un anno prima della Cultura del narcisismo. Nel mondo di questo romanzo – e della narrativa di Dei Castaldi – la colpa, invece, è ancora viva, operante, perché l’autore non vuol raccontare il come siamo, ma il come eravamo, perché solo nell’effetto distanziante della memoria si ha la possibilità di dire qualcosa; lo scriveva anche Giorgio Agamben: per essere davvero contemporanei bisogna posizionare fuori dal tempo.
Le parole d’ordine rivela in maniera più pura – per chi ha letto l’intera opera di Dei Castaldi – il gheriglio tanto duro quanto il guscio che lo contiene e ben poco conciliante: è un nucleo abramitico, remoto, dove la terra e il fuoco parlano agli umani, dove morire è un rito di passaggio. Si respira davvero la graniglia tossica del deserto africano, non come effetto scenografico, ma come impasto delle parole. La storia prima delle storie di Andrea Dei Castaldi viene da queste piane aride, è oltranzista anche nella sua scelta di fare un romanzo faulkneriano oggi, di farlo da sempre e per sempre, perché non è tanto la fede nella parola letteraria, quanto l’impossibilità di fare altrimenti. E come nelle profezie, come negli antichi salmi, nella distorsione della Fata Morgana la parola vacilla, il pensiero di obnubila, la voce trema e diventa un periodare lungo, semi-ipotattico, interminabile.