Tutto il resto è letteratura
di Pasquale Vitagliano
La prima domanda che mi faccio accingendomi alla lettura dell’ultima opera di Vittorino Curci, Tutto il resto è letteratura (Musicaos, 2024), è se all’interno troverò questo “resto” o altro. E, dunque, sono anche curioso di sapere cos’è l’altro. Cosa rimane oltre la Letteratura? Si sente allora la formazione musicale dell’autore che scrive poesie come una partitura, che lui saprebbe anche accompagnare col suo sax. Se per Pessoa si scrive quando la vita non basta, per Curci l’una è controcanto dell’altra. Anzi, mi trovo di fronte ad un contrappunto in cui l’una insegue l’altra imitandola. Tuttavia, se l’effetto melodico è musicale, quello armonico è pienamente letterario. Per te, lettore, che resti solo/ con la verità del libro, il senso compiuto/ ha sperato un’altra notte di quiete.
La prima notte di quiete è quella mortale, nella quale si dorme senza sogni. La poesia ci consente di morire più volte? Beneficio, e privilegio, concesso anche all’amore fisico. E perché dobbiamo sperare in un’altra notte senza sogno? Il sogno, forse, ci addolora. Ci priva della consapevolezza della vita reale, quella senza Letteratura. Eternizzare stanca e se non pensi ad altro/ vieni tra queste righe che slegano il ricordo/ qui c’è un teatro di anime morte/ che tramuta in sogno quelle giornate. Sin dal titolo si ha l’impressione che in questa fase l’autore abbia provato ad abdicare alla funzione poetica della parola. Per esempio, come un’onda la prosa rifrange contro i versi che sembrano ritirarsi, ma senza cedere troppo spazio. Resistono, anzi, quasi per sfida, diventano radi, talvolta si spezzano, eppure sopravvengono. Vogliono riprendersi il tono principale dell’opera. La poesia assume il profilo di uno spettro che si aggira per un territorio che l’autore ha provato a liberare dalla Letteratura per (ri)consegnarlo intonso alla vita vera. E come si fa? È un’aporia. Infatti, la poesia si fa sentire come un arto fantasma che continua a dolere per la sua amputazione. In questo supplemento di vita/ sei cieco, ascolti i rumori/ della strada, sai cose/ che prima non sapevi.
Perché Vittorino Curci ha voluto fare questa esperienza? Penso di capirlo, come tutti coloro che non si rassegnano al sentimento di perdita che si prova in un’epoca storica come la nostra affetta da una forma sociale di alzheimer. Le cose che non ricordo non sono mai esistite. È un’affermazione terrificante. Specie se aggiungo il mio corollario che ciò che resta alla fine ne costituisce l’anima. Pertanto, senza memoria non solo perdiamo la nostra coscienza, addirittura, azzeriamo la nostra realtà. Non siamo più nulla, né siamo mai esistiti. Neanche la realtà social ci può salvare, perché nessuno saprà più riconoscere le immagini. Di fronte, a questa perdita la tentazione di chiudere gli occhi è forte. L’orfanezza della parola è inconsolabile.
A questo punto, quello che l’autore ci propone è di azzerare col mezzo della parola. Resettare il peso semantico e il frastuono verbale con la poesia. Emulare il silenzio con l’armonia musicale della scrittura. Credo che ci sia riuscito proprio grazie alla sua vocazione musicale. Infatti, i versi di questo libro sono essenziali senza essere necessari, non più di un gesto, un saluto, un atto della nostra vita. I bambini tracciavano con le braccia/ ampi cerchi nell’aria. era l’estasi/ della loro momentanea immortalità. Parafrasando l’indimenticabile canzone di Ivano Fossati, Una notte in Italia, la lettura dei versi di Vittorino Curci ci motivano a non arrenderci, senza retorica, perché è tutta Letteratura, ma come vedi la dobbiamo cantare; è solo Letteratura, ma la dobbiamo imparare.