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I disegni di Picasso

di Max Mauro

I disegni di Picasso sono tenuti in una stanza a temperatura controllata, massimo 21 gradi celsius, e umidità tra i 55 e i 56 punti percentuali. I gradi sono importanti, così come il livello di umidità. Altrimenti i disegni muoiono.

Sono preziosi, i disegni di Picasso. Non c’è in tutta l’America Latina una collezione simile. Non ce l’hanno nemmeno a New York, nell’America del nord, quella che impunemente reclama il nome del continente solo per sé. La collezione di Picasso è costata settecentomila dollari negli anni Ottanta del secolo scorso.

La sala dei disegni di Picasso è un sollievo dall’afa della strada, che qui non può arrivare. Anche il rumore, il costante assordante avvolgente rumore delle strade di Caracas, qui non arriva. I disegni rappresentano corpi nudi, forme essenziali, tratti volatili. Sono nudi i corpi come è nudo il grattacielo nudo.

I disegni di Picasso, tenuti a temperatura e umidità controllate, occupano una sala del museo di arte contemporanea, inaugurato nel 1973. Altre sale sono occupate da opere di Kandinski, Rodin, Monet, Francis Bacon, Mirò, Henry Moore, Duchamp, Fontana. Il sogno della fondatrice del museo, Sofía Ímber, era di creare qui il museo di arte contemporanea più spettacolare del Sud America. Nell’anno 2006 è a undici forse dodici minuti di cammino dal grattacielo occupato.

Si dice che doña Sofía Ímber fosse una signora combattiva e determinata, che non si fermava davanti a nulla. Era nata in una cittadina dell’odierna Moldavia, nel 1924. Al tempo era territorio conteso fra l’Unione Sovietica e il regno di Romania e accoglieva nobili russi, borghesi ed imprenditori ebrei fuggiti dalla Rivoluzione russa. Doña Sofía dipingeva quel passato a questo modo: “Essendo ebrei, si comprenderà molto bene che dovemmo scappare da quella parte di mondo quando cominciò l’assedio alla nostra razza”. La famiglia arrivò in Venezuela nel 1930. Doña Sofía disse sempre di non essere interessata a rivedere quei luoghi, si sentiva solo venezuelana. Nella vita scelse di fare la giornalista; per le famiglie bianche europee scegliere era un diritto. Lavorò prima nei quotidiani e poi alla radio e alla tv. La televisione le diede la fama.

Ogni domenica teneva un programma televisivo di interviste a protagonisti della politica e della cultura. Lo conduceva con il marito, anche lui celebrato giornalista e scrittore, che aveva abbandonato moglie e figli per unirsi a questa donna che qualcuno aveva definito straordinaria, finendo pure per sposarla. Strani intrecci. Anche lei aveva abbandonato il primo marito e i figli per convolare in quella che sembrava un’unione di eccellenze, almeno per quella porzione di società che dettava i tempi della Storia.

Il giorno seguente in cui il secondo marito morì, sparandosi un colpo in testa con una semplice pistola, nel gennaio del 1988, era in scaletta una delle loro molto attese trasmissioni televisive. Doña Ímber, riferisce una biografa che finì emarginata e forse pazza dopo aver visto il suo libro ritirato dagli scaffali il giorno stesso della pubblicazione, andò in onda, puntualmente, come ogni settimana. The show must go on. Lo show non si interruppe. Come poteva interrompersi? Mica le pompe petrolifere fermano di spillare oro nero se muore un operatore. Qualche anno dopo, in un’intervista, spiegò: “Io elaboro il mio dolore a modo mio, lavorando…”.

L’inopportuna biografa di Sofía Ímber si chiamava Manón Kübler, e con Sofía aveva in comune l’ascendenza europea, la pelle chiara e un cognome che suona tedesco. Il suo libro, Sofía Ímber: la intransigente, venne pubblicato nel 1994 dalla casa editrice Grijalbo, di proprietà del gruppo Mondadori. Un libro oggi introvabile.

Prima di essere una giornalista e una biografa Manón era una poetessa. Forse il suo problema è stato quello di voler scrivere una biografia senza voler scrivere una biografia. Cercava una storia meritevole per esplorare la sua passione per la scrittura e conquistare quella porzione di attenzione a cui ogni scrittore vero anela. Quale miglior soggetto per una giovane scrittrice ambiziosa se non la storia della donna più potente del Venezuela?

Pochi anni prima della biografia di doña Sofía Ímber, Manón Kübler aveva pubblicato una raccolta di poesie intitolata Olympia. Nei versi di Olympia Manón Kübler ammette il suo dialogo con un’umanità inaccettabile perché troppo profondamente umana. Parla di sé, un sé che sfugge ai grandi poteri molari: famiglia, matrimonio, carriera. Come altrimenti spiegare l’ambizione a scrivere – e pubblicare! – la biografia non autorizzata della donna più temuta del paese?

he sido arrolada por la presencia por la visita de un estraño que desata su terribles sin permiso. a ratos percibo que una loca e arriesgada invitacion, uno des esos juegos donde el peligro puede tocarse lo dejó aquí, entre mis sábanas, entre mi voz, sobre mi cama. ahora, posesionado de mis ámbitos, comodo huesped que abusa, pretende para siempre dominar en mis entornos, ayuentar a mis otros e hacer de mi delgadez su inextirpable nido.

Perché Manón Kübler ha voluto scrivere la biografia di doña Sofía Ímber invece di continuare a creare poesie che trasudano lacrime di vita? E’ un mistero che probabilmente rimarrà tale. Perché proprio lei si è cimentata in questa operazione rischiosa come nessun’altra nel mondo dell’editoria venezuelana? Però scrivendo un libro abbandonato ha offerto una metafora del sogno petrolifero del Venezuela, soggiogato allo zio nord-americano: la tua voce è ammessa, ma rimossa.

Doña Sofía non aveva tempo per agiografie malintese, la sua era un’incessante rincorsa al successo nel paese dei sogni permanenti, per chi se li poteva permettere. Erano gli anni Sessanta, Settanta, Ottanta del Novecento. Fino al Caracaso: la prima resa dei conti dell’incubo neoliberista. La fine e un inizio. O un inizio di una diversa fine? L’oro nero è giudice imprevedibile.

Dopo aver coccolato l’idea del museo come un figlio unico, lei che di figli ne aveva avuti alcuni, doña Sofía ricevette un regalo non del tutto inatteso dal presidente della repubblica, uno degli ospiti più regolari del suo programma televisivo. Il presidente della repubblica disse: il museo porterà il suo nome, si chiamerà “Museo Sofía Ímber”, e così per l’eternità. Era il 1974, il 20 febbraio di quell’anno, per la precisione.

L’eternità del museo si rivelò un’entità transeunte, come tutte le eternità umane. Venne interrotta nel 2001 da un altro presidente della repubblica, casualmente o forse no dagli schermi televisivi. Proprio il mezzo che aveva dato tanto potere a doña Sofía portò la fine di quell’audace sogno caraibico. Basta, d’ora in poi il museo si chiamerà semplicemente “museo”, come è giusto che sia, disse Hugo Chavez durante il suo programma Alò Presidente in un giorno di fine gennaio. E così fu. Una tabella all’ingresso del museo ricorda il passato e segnala il presente. Il museo di arte contemporanea è oggi, anno 2006, “Il Museo di Arte Contemporanea di Caracas”.

I disegni di Picasso non hanno colpa dei millecinquecento passi. Non hanno colpa di trovarsi a rappresentare gli estremi della modernità. Però, intendiamoci, sono incredibilmente belli da dire, i disegni di Picasso. Rendono immediatamente importante chi li nomina e li possiede. Picasso. La Storia, quella del mondo che conta, viene inscritta sulla porta principale grazie a un semplice nome: Picasso.

Anche il camminatore al margine ha un suo piccolo sogno. Vorrei portare i disegni di Picasso nel palazzo nudo. In fondo cosa sono millecinquecento passi? Cento disegni, uno per ogni famiglia alloggiata nel grattacielo occupato.

Ecco il programma del sogno: i disegni di Picasso escono dal luogo cassaforte infilati nello zaino di un bambino, ché nessuno è così innocuo e invisibile come un bambino che sogna ad occhi aperti. Percorsi i millecinquecento passi i disegni vanno incontro alla vita nuda degli abitanti del grattacielo nudo. Non c’è prescrizione sul loro uso, sulla loro destinazione d’uso. Proprio qui, dove milioni di dollari sono passati di mano per santificare il valore di scambio, ecco una possibilità salvifica. I disegni ricevono nuova vita. Chi li otterrà potrà appenderli alle pareti assolate del grattacielo nudo, oppure decidere di venderli in strada, nelle bancarelle, accanto ai CD copia dei Red Hot Chilli Peppers, magari come copertina alternativa, ripiegando il foglio in quattro parti per farlo stare dentro la custodia del CD.

Ma il gesto irriverente del bambino potrebbe essere anche il giusto premio alla memoria di un uomo che alla sua arte ha sacrificato la vita di chi gli è stato vicino. La tua arte la regaliamo, piccolo uomo Pablo, e tu non puoi farci nulla!

Ma questo è solo un sogno, un sogno meno corazzato di quelli di Sofía Ímber. Forse un sogno malandato come quello di Manón Kübler.

Foto di Margaret8 da Pixabay

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1 commento

  1. Il ” suc cesso” è sempre una grande fregatura, lo è sempre stato, gli avvoltoi volano sulle carogne e se ne nutrono in contanti sonanti. Meglio essere postumi e non vedere lo schifo, o anche essere dimenticati. Basta essere liberi davvero, morire con la certezza che il proprio compito, qui, è stato adempiuto. E morire con una grande risata di scherno per l’umanità.

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Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
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