Dentro le scene dell’altrove
di Gabriella Cinti
“UNA FUGA PLURIPROSPETTICA DENTRO LE SCENE DELL’ALTROVE”. Lettura di “L’altrove della tragedia greca. Scene, parole e immagini”, di Davide Susanetti, Carocci Editore, 2023.
“Incontro meditante” è la definizione con cui giustamente Davide Susanetti consacra l’unico e più autentico approccio alla tragedia greca, in cui coglie la decisa convergenza con la dimensione di Dioniso. Molti sono in realtà i temi trattati nel libro, dall’identità, al dolore, al tema del corpo, ma il Dioniso euripideo spicca qui con quella forza dirompente di una verità profonda, metamorfica, cangiante e provocatoria che spiazza le finte verità della doxa, della opinione corrente. Un dio totale, DIONISO, espressione dello slancio gioioso come della più assoluta distruzione, ma soprattutto il più sovversivo degli dèi, che sgretola le certezze, le convinzioni assodate, fino alla turbinosa messa in crisi del piano identitario. Un dio dei prodigi e delle apparizioni, un dio che addita l’abisso, eppure proprio nell’estasi si inarca verso l’Assoluto che egli stesso impersona. Rappresenta appunto quella “vita assoluta in cui tutti gli opposti si congiungono e si sciolgono”, perché appunto Dioniso ci scioglie e ci sceglie, senza giochi di parole, per quella carica destinica potentissima che egli incarna. Dioniso dio del Tutto e dell’istante prodigioso, del kairòs . “Vita” come leggiamo nel libro, in cui l’ “altro” è il cuore pulsante dello stesso. Come afferma Susanetti, “estraneo e alieno, eppure così intimamente intimo e proprio, come è sempre intima e propria la vita, anche quando non lo si sa e non lo si vede.” E ancora, nel suo straordinario potere metamorfico, Dioniso, come ci dice l’autore: “apre la dimensione in cui natura, umano e divino fanno uno, comunicandosi e reciprocamente trasformandosi [… ]. Miracolo stupendo e spaventoso, di un’unità profonda, dove ogni barriera si allontana e un potere inusitato si sprigiona, attraversando ogni cosa. Tutto allora si fa prossimità e magia, comunicazione intima e forza traboccante”.
Susanetti ci restituisce per intero l’energia elettrizzante e misteriosa del potere di Dioniso, la sua unicità, scava nel linguaggio dionisiaco portando alla luce le sfumature semantiche più sottili e più in ombra, il segreto nascosto nella letteralità di alcuni termini, centrali nel vocabolario tragico, come, ad esempio, “authadìa”, il cui significato è oscillante tra “ostinazione” e “arroganza”, fino alla sfida violenta di chi è autoreferenziale, per quell’autòs che ne costituisce l’imprinting semantico.
Se il sapere è solo ricerca, investigazione fino agli estremi limiti, dove tutte le antinomie possono convivere, questa è davvero un’opera di “sapere” rivoluzionario che inaugura un corso di ricerche “altro”, in cui si dispiega uno slancio epistemologico che non mira al possesso compiuto ma si realizza piuttosto in un coraggioso e audace attraversamento psichico. La tragedia per Susanetti dunque si pone come un theorein le sofferenze e gli strazi dei drammi umani, una visione che accoglie vastamente senza pretesa di comporre i dissidi. I vari riferimenti presenti nel saggio, a Euripide come a Eschilo, vedono questa consapevolezza di forze terribili – per esempio la categoria del deinotatos – che incombono sulla razionalità armonica della polis, a riprova di quanto il mondo greco sia profondamente antinomico, come la sua lingua, che conserva tutte le impronte della polarità dei significati, i quali spesso si ribaltano nei loro opposti.
E lo scavo linguistico mi sembra proprio uno dei grandi punti di forza di quest’opera perché le parole sono le idee e l’interrogarsi su di esse non rappresenta solo una esegesi filologica ma si pone come un’operazione squisitamente filosofica.
Pensiamo per esempio al concetto di “proseikasai”, “l’operazione con cui si elabora un eikon, un’immagine […] costituendo al contempo un termine di paragone tra il noto e l’ignoto: per somiglianza e per confronto s’interpreta, attraverso l’immagine, quanto non si conosce e turba per la sua oscurità”. Quindi la parola greca è pensiero in sé, è viaggio mentale come ci illumina Susanetti, in cui ogni termine apre a numerosi orizzonti e tutti li contiene. O pensiamo al più cogente ancora phrontìs, quel pensiero che è al contempo “riflessione ben meditata” e
all’opposto”, preoccupazione e pura ansia quando il pensiero stesso oscilla, incerto e sgomento, schiacciato dalla violenza e dalla tenebra del reale, trascinato dagli eventi e insieme dalle emozioni che esso suscita, lacerato dalle contraddizioni, senza poter trovare un punto fermo in cui stare e riposare. (p. 28)
La tragedia porta il dolore sulla scena, ne fa suoni oltre che corpi. Anzi per Susanetti “il corpo come pura phoné, come strumento del dolore, che si trasfigura in melos, in canto” (p. 94). Comprendiamo quanto i suoni pronunciati nella tragedia espandano a ventaglio l’intera gamma del dolore sonorizzato, con le infinite sfumature anche delle espressioni sofferenti interiettive, fino ad un lamento che si affianca al verso animale (come Ecuba che si paragona proprio a un uccello.)
Suoni del dolore che sono movimento corporeo, suoni della carne gemente, “drammaturgia del corpo piegato dal dolore”, una potente elegia del dolore che realizza quello che S. definisce “il sacrificio supremo della poesia bagnata nel sangue”.
La tragedia attua il necessario confronto con la forza totalizzante e tridimensionale del theaomai, che è la visione contemplativa, necessaria per la formazione della coscienza umana, ancor prima della catarsi. Perché è il dolore la strada maestra della conoscenza, “dono prezioso” lo definisce l’autore, in quanto esperienza dell’estremo.
La catarsi porta in qualche modo a superare il dramma, ad evolverlo, Susanetti invece ci presenta il dramma del dolore infinito, senza alcun linimento di possibile purificazione, ci invita a non distogliere gli occhi dalla impasse suprema, ma ad accettarla senza riserve per divenire più profondamente umani, per divenire così “belli”, come Nietsche aveva formulato per quella armonia greca che gli Elleni avrebbero raggiunto a prezzo di sofferenze sovrumane.
Teatro di Dioniso e teatro della parola, la tragedia greca per Susanetti è “drama”, azione, in cui la parola è prevalente, non è solo strumento, veicolo delle azioni, ma protagonista, è “un orizzonte in cui è il linguaggio stesso a essere interrogato e messo in causa nelle sue dinamiche e nei suoi effetti”, una funzione causale dunque ma anche anima protagonista, al pari dei personaggi.
Le parole sono tuttavia, come in modo originale ci illumina Susanetti, anche un terreno di scontro oltre che di incontro, perché rinviano a una zona mobile di interpretazione, a quel proliferare ermeneutico che rimanda alle soggettività individuali: un esempio per tutti il nomos, cui ognuno , nell’Antigone, attribuisce significati diversi che portano a scelte anche del tutto conflittuali a seconda che, come in Creonte, il nomos appartenga alla legge della città o come per Antigone alla famiglia e al regno ultraterreno.
La parola dunque è un luogo di confronto e di scontro, e soprattutto, come dice S. l’agon logon è una occasione di pensiero.
Di particolare rilevanza concettuale mi pare l’approfondimento compiuto sul concetto di caso e di arbitrio divino nell’evoluzione che si compie in Euripide rispetto ad Eschilo, in cui le volontà celesti paiono assolute, indiscutibili, mai messe in dubbio, pur nella loro crudeltà. Euripide mette in crisi tale assetto divino per introdurre il dubbio critico sulla fondatezza di un potere divino che è del tutto indifferente alle vicende umane, “pura autosufficienza” come la definisce l’autore. Susanetti ci indica un concetto fondamentale che riconnette pienamente la tragedia (euripidea) alla dimensione dionisiaca, idea per dar voce alla quale intendo citarla letteralmente, anche per far risuonare uno stile filosofico icastico e di travolgente intensità.
Ascoltiamo:
La decostruzione è radicale. Euripide spinge la tragedia al non senso corrodendo e smantellando la materia su cui si è fondata sin dal suo primo sorgere. In ciò che pare una contraddizione assoluta vi è, tuttavia, un’altrettanto assoluta fedeltà a Dioniso. Il signore del teatro non è forse colui che distrugge ogni forma cristallizzata e ogni senso consolidato, costringendo lo sguardo fin dentro l’abisso? Non è colui che liquida ogni certezza cui i mortali vanamente si aggrappano? Colui che esaurisce tutti i discorsi, quando essi non hanno più rapporto e significato rispetto al nucleo pulsante della vita e alla verità – qualunque cosa essa sia – che sta al di là delle parvenze fenomeniche?
Con Euripide giunge dunque a compimento quella progressiva divaricazione tra gli dei e gli uomini, accentuata anche dalla crisi storica che il mondo greco attraversava in quei secoli. Dalla fiducia che in qualche maniera gli eroi eschilei potevano nutrire su un eventuale intervento divino, alla consapevolezza della insensatezza delle sciagure umane e alla sostanziale solitudine ontologica dell’uomo. Dioniso mette l’uomo davanti al nulla, gli intima di fissare quel vuoto senza infingimenti ma al contempo lo pone pienamente nella condizione di avvertire “la necessità di trovare la propria possibile perfezione”, una dimensione di nuovo ed intrepido eroismo che consiste appunto nel coraggio di affrontare l’ignoto, l’altrove. L’ “altrove” di cui ci parla Susanetti ha tanti volti, che in questo libro vengono puntualmente indagati: si declina anche nel “perturbante” di un passato che incombe con la sua forza distruttiva sugli equilibri del presente garantiti dal “crescente e positivo miglioramento del mondo umano”, introdotto ad esempio da Prometeo. La dialettica tra progresso e regresso mette in luce la fallacia della condizione umana e la fragilità del patto di alleanza con gli dei.
Nelle Trachinie di Sofocle il tema della catastrofe, ad esempio, è connesso al ritorno di un “mostruoso” che si credeva di aver accantonato o di tenere a bada: diremmo con Freud “il ritorno del rimosso”, “Illusione credere che i mostri siano debellati per sempre”, “illusione credere che il caos sia superato una volta per sempre” e questo accade sia per i destini individuali sia per l’armonia della polis.
Ma vi è una suprema incarnazione di questa assoluta alterità, secondo S. ed è ravvisabile nella emblematica figura di Medea, personaggio euripideo che condensa le caratteristiche dell’estremo di violenza, di cui pure anche altre eroine greche danno prova.
Medea incarna il massimo dell’ “Altrove” con la sua personalità composita (tra l’altro anche di stirpe straniera), sapiente, maga, intellettuale “essere umano, ma anche belva e mostro”, fiera selvaggia scatenata. . Creatura mortale e insieme potente figura di natura divina”, solare per la precisione. Lei rappresenta appunto l’ “alterità assoluta che tutto mette in causa e tutto sovverte, dissolvendo ogni confine e ogni paradigma altrimenti assunto”. Susanetti ci fa vedere il Dioniso che è in lei, “sempre straniero ma anche profondamente intimo e greco” che agisce come lei, in modo del tutto spiazzante. Se il caso di Medea è “eclatante ed estremo”, le tante donne vendicatrici e violente della tragedia greca si costituiscono come un grande “altro che interroga e inquieta la città degli uomini”. E ritraggono un “altro” recondito, non solo quello del loro genere ma tutto quanto vi è di alieno e umbratile negli esseri umani: nella realtà pubblica “il negativo della città” dice Susanetti, come negli individui, nelle proprie più inconfessabili incoerenze e nei lati più oscuri.
Queste donne ci riportano dunque ancora una volta a Dioniso, che non a caso è il Dio delle donne, oltre che essere “il signore del teatro e della tragedia, il dio dell’alterità”. Dice S.: “Dioniso e le donne non fanno forse un tutt’uno? Dioniso e le sue Baccanti, Dioniso, Medea e le altre.”
L’altrove può anche essere colto nella singolare vicenda della Elena euripidea cui Susanetti dedica qui un capitolo e la sua intera curatela e traduzione nel testo apparso a gennaio 2023 per Feltrinelli. Elena infatti secondo questa versione non sarebbe mai andata a Troia ma solo il suo fantasma dotato di respiro, fatto con un pezzo di cielo e del tutto simile a lei, lo sarebbe stato, mentre essa sarebbe nascosta grazie ad Hermes in Egitto, ospite del re Protéo. Qui, in seguito a varie peripezie, si sarebbe ricongiunta a Menelao.
Come incisivamente mette in luce Susanetti “la favola di Elena e del suo aereo doppio non è anche la lacerazione estrema che si produce ogni volta che è impossibile ritrovarsi e coincidere con sé? Ogni volta che, raccontandosi dinanzi a se stessi e ad altri, non si trova più il filo della propria stessa storia e delle proprie azioni?”
Ed è ancora questa una chiave dell’altrove, il perdersi che è tipicamente misterico, come spesso ci richiama Susanetti, quel “ terribile in cui ci si perde e ci si cancella per poi diversamente ritrovarsi. In questo consiste, alla radice, ogni percorso di iniziazione, in cui ci si inabissa per poter risalire con la diversa consapevolezza dell’esperienza intensamente subita e vissuta”. La morte dell’ identità (“quando si scende ritualmente nella tenebra della propria fine per poi riconquistare la luce”) richiama quella vissuta nelle iniziazioni misteriche, le telatai appunto, con il nome che richiama anche al morire, mentre contiene in sé il telos, il fine iniziatico.
E singolare è che proprio la poesia possa ricomporre le lacerazioni degli opposti, le ambivalenze del vivere nell’etere di Elena, nel grande cielo dell’arte, perché come ci dice Susanetti: “La materia impalpabile della poesia è anch’essa fatta di aria e di cielo, di luce e di etere”.
Certamente le opposizioni permangono, come pure le aporie e le contraddizioni che si ritrovano in personaggi di varie tragedie da lui analizzate, come l’Agamennone di Euripide o la sua Ifigenia, esempi di quella metabolé, quella trasformazione psicologica critica e complessa che il drammaturgo mette in scena, quei cambiamenti pure repentini delle sorti, segno anche di tempi di crisi profonda dell’animo greco, di crollo di ogni certezza.
Sullo sfondo dunque tragico e fondamentalmente disperante del teatro greco analizzato da Susanetti, l’autore sembra proporci una soluzione all’insegna della filosofia e in particolare del messaggio di Socrate, un solido invito al recupero dell’anima in senso salvifico. Questo orienta l’uomo – oltre la vita – alla riconquista della sua dimensione di eternità, “indistruttibile ed eterna”, oltre le effimere sembianze delle vite terrene e delle umane esperienze. Esse infatti sono limitate e chiuse nella costrizione della synetheia, l’ “abitudine” che si impadronisce delle varie incarnazioni, come il mito di Er illumina e in cui sembra consistere la grande lezione socratica. Dedicarsi dunque alla philosophia e all’amore della sapienza, ancoraggio etico prima ancora che valore intellettuale, pare il supremo compito umano. Di fronte a questo orizzonte, il mondo caotico e impuro della tragedia può collocarsi tuttavia non agli antipodi, bensì può costituire, nelle intenzioni concettuali di Susanetti, una tappa di apprendimento delle necessità terrene, da cui sciogliersi proprio grazie a Dioniso, ho lysios, lo scioglitore di un cammino contingente ma teso all’oltre, alla elevazione.
Questo viaggio antropologico tuttavia non può prescindere dall’attraversamento pieno e sofferto delle antinomie del mondo in quel vero teatro dell’essere che rappresenta la tragedia greca, una fuga pluriprospettica dentro le scene dell’altrove.