Lingua letteraria e lingua dell’uso
di Gualberto Alvino
È a dir poco singolare che non a un linguista né a un letterato di professione, ma a un modesto funzionario del MinCulPop, tal Mario Alighiero Meschini, spetti il merito d’aver acceso — in un momento cruciale nella storia d’Italia e dei suoi mezzi di comunicazione, ossia poco prima della caduta del fascismo, «dopo una settantina d’anni di tranquillità» (Migliorini) — uno dei dibattiti più animati dell’altro secolo: la verifica dei rapporti tra lingua letteraria e lingua d’uso (Aa.Vv., Lingua letteraria e lingua dell’uso. Un dibattito tra critici, linguisti e scrittori [«La ruota» 1941-42], a cura di G. Polimeni, Firenze, Accademia della Crusca, 2013).
Nel numero di giugno-settembre 1941 della rivista «La ruota» da lui diretta, il Meschini pubblica una piccante e acuta recensione, dal secco titolo Un dizionario nuovo e un metodo vecchio, del primo e ultimo volume del Vocabolario della lingua italiana, edito dalla Reale Accademia d’Italia e fortemente voluto da Mussolini, nella quale accusa senza mezzi termini il coordinatore dell’impresa Giulio Bertoni di aver «voluto fare il vocabolario […] della lingua viva con la lingua morta» ricorrendo nelle esemplificazioni ai testi tradizionali e alla lingua poetica anziché indicare — dovere d’ogni strumento di consultazione — pratiche possibilità d’uso con dovizia fraseologica:
Ciò che manca nel nuovo vocabolario, e che se ci fosse farebbe perdonar tutto, è la locuzione. La locuzione è la vita della parola, la vita fluida, vera. Al contrario, la citazione di un verso per esemplificare l’uso di un vocabolo, chiama subito alla mente il ricordo di insetti imprigionati in scaglie d’ambra; memoria di musei di storia naturale.
Il vero lavoro di chi forma un dizionario non è soltanto quello di raggiungere la definizione perspicua e meno che mai quello dello spoglio degli autori (se non per cercarvi una conferma autorevole), ma è proprio quello della ricerca delle locuzioni che conducono «all’esercizio vivo della lingua».
Nel numero seguente della rivista appare un articolo di Bruno Migliorini (Lingua letteraria e lingua dell’uso) nel quale si distingue la lingua letteraria sia dalla lingua che si scrive correntemente sia da quella che correntemente si parla. Mentre la lingua quotidiana parlata e scritta, che il linguista accoglie sotto la definizione di «lingua dell’uso», si basa su costrutti e termini vivi di marca essenzialmente utilitaria, la lingua letteraria resta nell’alveo della tradizione e si propone fini principalmente estetici.
Il numero di gennaio-febbraio 1942 ospita contributi sul tema di scrittori, poeti, critici letterarî e linguisti.
Giacomo Devoto identifica quattro poli: oltre al letterario e dell’uso, il tecnico e il familiare,
che può trovare espressione nel dialetto [e conclude che la questione della lingua] nella sua forma tradizionale è morta. I modelli rigidi fra i quali bisognava optare si sono dissolti, i loro numi Manzoni e Ascoli, dopo un dialogo durato un secolo, non fanno sentire più la loro voce. […] Invece delle teorie, si richiede oggi la possibilità di dialoghi continuati fra autori e repertorî (grammaticali e lessicali e stilistici) non asserviti a dogmi. Solo questi, con sigle, con esempi intelligenti, con definizioni degne di questo nome, possono permettere all’Ispirazione di specchiarsi in modo agile e istruttivo con la Tradizione.
Per Gianfranco Contini la lingua è «atto umano, dunque atto personale», e perciò stesso esige d’essere osservata nella sua «validità espressiva»: «Il linguista, nel senso concreto, è appunto il critico letterario (il linguista della lingua di tutti suole astrarre dai sentimenti dell’identificazione umana). E il critico è forse negato a una parte comunque attiva nella lizza letteraria; condannato all’agnosticismo? L’estetica impone forse l’abbandono d’ogni poetica?». Alla rappresentazione miglioriniana degli «stati (traduco: Stimmungen) di chi fa la lingua» Contini oppone la polarità tra dialetto («lingua di natura») e lingua («di cultura»). «La riflessione di Contini — chiosa il curatore nella sua densa Introduzione — storicizza i termini della ‘questione’, così come era stata discussa dall’Ottocento, e invita a una lettura non più normativa del rapporto tra codici linguistici, pronta finalmente a collegare l’espressività a una ‘linea’ in cui ciascun autore si dimostra legato al sostrato di cultura e di parole che gli appartiene per nascita e per formazione».
Astratta e puramente teorica, secondo Mario Luzi, la distinzione tra lingua letteraria e dell’uso, giacché
non esistono frontiere tra di esse, ogni termine e ogni locuzione dell’uso essendo suscettibile di oggettivazione letteraria e potendo concorrere al linguaggio di uno scrittore. […] Dico dunque che la distinzione non mi sembra probabile in sé e non riguarda l’attività dell’artista il quale è poi il vero e l’unico responsabile della lingua. Alla formazione del suo linguaggio, della lingua cioè particolare dell’espressione sua, non può presiedere un criterio come quello considerato dal Migliorini. Traverso il linguaggio dell’opera d’arte la lingua dell’uso potrebbe in tutto e per tutto divenire letteraria nel significato legittimo che spetta a questa parola. Che le innovazioni letterarie (lessicali, sintattiche) resistano o siano espulse dal tempo e dall’uso letterario conseguente, dipende dalla vitalità dell’opera e del suo linguaggio, nonché dal grado di repetibilità che questo possiede: esse sono comunque inserite nella letteratura.
Giulio Bertoni interviene nel dibattito con una breve ma significativa precisazione: la distinzione cade «nell’atto in cui si parla e si scrive», poiché «la lingua è il corpo stesso della nostra cultura, e questa è la nostra integrale esperienza insofferente di schemi». Il linguista passa quindi al tema del linguaggio tecnico distinguendo «una lingua tecnica o pseudo-tecnica ‘letteraria e dell’uso’ e una lingua tecnica ‘scientifica’ per le stesse idee e gli stessi concetti». Se talvolta la prima è adattamento della seconda, più spesso si verifica il contrario.
Gadda respinge l’idea d’uso tardottocentesca e il relativo mito di una teoria manzoniana tendente — come aveva rammentato Migliorini — a imporre di «potare come rami secchi l’inutile ricchezza costituita dai doppioni» lasciando cadere «le numerose parole appartenenti al lessico letterario e non all’uso vivo»:
I doppioni li voglio, tutti, per mania di possesso e per cupidigia di ricchezze: e voglio anche i triploni, e i quadruploni, sebbene il Re Cattolico non li abbia ancora monetati: e tutti i sinonimi, usati nelle loro variegate accezioni e sfumature, d’uso corrente, o d’uso raro rarissimo. Sicché do palla nera alla proposta del sommo e venerato Alessandro, che vorrebbe nientedimeno potare, ecc. ecc.: per unificare e codificare: «d’entro le leggi, trassi il troppo e ʼl vano». Non esistono il troppo né il vano per una lingua.
Il punto cruciale del lungo e tortuoso contributo di Oreste Macrì è che «esiste una sola lingua, ed è la lingua poetica come purissima figura del sentimento, emblema della verità attiva dell’uomo». «La lingua poetica non può rientrare, secondo il critico, né nello schema di Migliorini né in quello di Devoto, ma è opportuno che diventi criterio di analisi e cartina di tornasole per l’esercizio e la ricerca dei critici di una nuova generazione» (così il curatore).
Per Luciano Anceschi «la lingua letteraria sta alla lingua poetica, come la lingua dell’uso sta alla prosa. La lingua letteraria è la lingua dell’uso letterario».
Telegrafico quanto discutibile il contributo di Alfonso Gatto, secondo il quale la differenza o l’identità tra lingua d’uso e letteraria non può riguardare che la sintassi, «l’unico modo cioè che dia tempo, resistenza storica a termini o a locuzioni altrimenti improvvisi e approssimativi».
In appendice al volume si riproduce opportunamente «il confronto di opinioni tra Paolo Monelli e Giovanni Battista Angioletti ospitato da “Primato” nel 1942: lo scambio di pareri, relativo all’apporto dei dialetti alla lingua nazionale e alla possibilità che le parole dialettali sostituiscano i forestierismi, è sinteticamente evocato da Bruno Migliorini nell’articolo in cui il linguista offre un bilancio finale del dibattito “lingua letteraria e lingua dell’uso”. Ai tre interventi del 1942 si fa precedere il contributo di Paolo Monelli, Ammoìna (“Corriere della Sera”, 27 ottobre 1938), che rappresenta il prodromo della discussione, in più occasioni richiamato dai due autori» (Polimeni).
Interessante contributo.
E oggi che si fa? Si potrebbe mai instaurare un dibattito serio attorno alla lingua? Non lo escludo ma sono piuttosto scettico: di fronte allo tsunami del Kitsch, alimentato dal marketing editoriale, tutti i discorsi culturali sono travolti da pochezza, pressapochismo, disonestà intellettuale. Come se la cultura fosse un pericolo per la tirannia del Kitsch (in effetti lo è).