I figli sono finiti. Intervista a Walter Siti
a cura di Andrea Carloni
Walter Siti, nato a Modena nel 1947, vive a Milano. Ha insegnato nelle università di Pisa, Cosenza e L’Aquila. È il curatore delle opere di Pier Paolo Pasolini. Attualmente collabora con “La Stampa” e “Domani”. Con Resistere non serve a niente è stato vincitore del Premio Strega 2013. Tra i suoi libri ricordiamo Scuola di nudo, Un dolore normale, Troppi paradisi, Il contagio, Autopsia dell’ossessione, Bruciare tutto, La natura è innocente, Tutti i nomi di Ercole, tutti disponibili in BUR, e Quindici riprese. Cinquant’anni di studi su Pasolini (Rizzoli 2022).
In questa intervista che ha voluto gentilmente concedermi ho avuto la possibilità di rivolgergli alcune domande sul suo recente romanzo I figli sono finiti (Rizzoli 2024), che lui stesso ha dichiarato essere il suo ultimo.
I due protagonisti del romanzo, separati da cinquant’anni di divario anagrafico, sono ravvicinati dallo stesso pianerottolo e dallo stesso isolamento misantropico fra le rispettive mura domestiche; il vecchio Augusto per vicende sanitarie e sentimentali, il giovane Astore per l’inadeguatezza della realtà a ogni suo desiderio. Tutto ciò in cui credevano si è quindi dissolto in un vuoto di senso?
Augusto si è isolato nel suo appartamento per cautelarsi dalle deboli difese immunitarie causate dai farmaci assunti per un trapianto di cuore e per l’elaborazione del lutto del suo compagno. È una persona sconfitta dalla vita e non realizzata nel suo lavoro: avrebbe voluto essere un pittore ma si è ritrovato a insegnare francese in un liceo senza riuscire a divenire professore universitario. Astore ha avuto invece un’infanzia molto complicata da enfant prodige che lo ha portato a scoprire delle vicende sui propri genitori che lo hanno traumatizzato. Mi interessava far incontrare due personaggi che dal punto di vista psicologico non appartenessero alla media e capire come avrebbero potuto reagire a un’apparente mancanza di senso nei confronti del futuro. Augusto vi rinuncia rimanendo legato al vecchio umanesimo della gioventù, mentre Astore immagina il futuro di una post-umanità aumentata dall’unione fra uomo e macchina. Due opposte reazioni che portano entrambe al rifiuto del presente; l’uno aggrappandosi troppo al passato, l’altro proiettandosi troppo al futuro.
«Sai, io non ci credo nel tuo futuro… nel futuro che immagini per tutti e nemmeno nel futuro che avrai, personale.»
Astore stritola tra i denti una frase che a chi avesse un udito finissimo (non è il caso di Augusto) suonerebbe “tanto tu muori presto”.
Fra il vecchio Augusto e il giovane Astore, si avverte la distanza e l’idiosincrasia della generazione di mezzo: Astore infatti è orfano di madre e il padre è pressoché relegato a mera fonte economica. Quali conseguenze attendono le nuove generazioni se vengono progressivamente dispensate dal confronto e dal conflitto con i genitori?
Il padre di Astore, pur essendo fra i meno calcolati del libro, è stato uno dei personaggi a cui mi sono più affezionato. Si tratta di un padre molto accogliente, che rifiuta il conflitto in ogni situazione e che è convinto che tutto si possa risolvere con un abbraccio. Di conseguenza possiamo dire che Astore non abbia sviluppato il complesso di Edipo, preferendo infatti rifugiarsi nel corpo del padre piuttosto che in quello della madre, più dura, razionale e conflittuale, dalla quale ha ricevuto il suo modo troppo intelligente di affrontare i problemi della vita. Al di là del semplice rapporto generazionale, io temo che oggi in tutta la cultura contemporanea occidentale si osservi una fuga dalle contrapposizioni e un’eccessiva paura della violenza e dell’offesa, che portano a nasconderci da una realtà di vita che invece è fatta di conflitti molto aspri, come ad esempio le guerre, che ci colgono infine sempre impreparati. A differenza, ad esempio, dei giovani del Risorgimento, che preferivano morire in battaglia piuttosto che vedere la propria patria distrutta, quelli di oggi non hanno alcuna intenzione di essere coinvolti in una guerra, essendo abituati da una cultura post-capitalista e post-consumista a pensare che ogni forma di conflitto e violenza possa essere risolto con il progresso.
Nella loro capsula al centro di Milano, bolla dentro una bolla, vecchio e giovane si trovano d’accordo su una cosa: se tutti i ragazzi si lasciassero morire di fame per protesta contro i disastri climatici, forse i genitori si darebbero una mossa. Ma ormai sui genitori non ci si può contare.
Il giovane si rapporta al sesso virtualmente, il vecchio ritrova la sua ultima sessualità nell’incontro con un corpo – quello di un body builder – che a sua volta è magnificato dalla sua stessa immagine. Quale può essere l’evoluzione della sessualità se il desiderio tende a dirigersi sempre più verso la rappresentazione del corpo, anziché il contatto con il corpo stesso?
Anche in questo caso mi sono divertito a giocare con i contrasti fra i protagonisti: il fatto che l’innamoramento presente nel libro fosse del vecchio, e non del giovane, rappresenta il rovesciamento di un luogo comune. Augusto non riesce a rinunciare alla materialità dei corpi (l’odore, il sapore, il contatto, la penetrazione), mentre Astore, così come dimostra la tendenza nei ventenni di oggi, preferisce un sesso mentale, immaginario e virtuale rispetto a quello carnale. Sicuramente è un effetto del fatto che le ultime generazioni entrano in contatto con la pornografia molto facilmente e molto precocemente grazie all’uso dei telefonini. Un sesso praticato portato all’eccesso ed esibito in modo così teatrale, che dei ragazzi troppo giovani percepiscono come irreale, li porterà sempre più a convincersi che ciò che visionano su un display sarà sempre migliore di quello che si possa sperimentare nella realtà. Stiamo assistendo dunque a un fenomeno di esaurimento della carne e di vaporizzazione del sesso. In piattaforme come OnlyFans si paga per fruire solo di immagini: abituandosi a far derivare la propria gioia sessuale da un’immagine, il fatto che questa corrisponda a una persona realmente esistente o generata invece dall’intelligenza artificiale diventa di secondaria importanza. C’è anche da dire che paradossalmente nel libro, rispetto al giovane Astore che finge di avere impiantata una calotta cranica biocompatibile con una rete neurale collegata a un pc, è il vecchio Augusto a essere in realtà maggiormente in contatto con l’artificialità del corpo, per via del suo cuore artificiale e di una protesi peniena. Anche l’enorme corpo del culturista di cui Augusto è innamorato, ma corrisposto solo sessualmente, è sua volta artificiale e di natura sostanzialmente chimica, necessitando dell’assunzione di ingenti quantità di sostanze anabolizzanti. Il sesso di conseguenza risulta falsato sia dalla parte del vecchio che dalla parte del giovane i quali, ognuno a suo modo, puntano verso una dimensione della sessualità sempre più distante dal reale.
Augusto si lascia sommergere da questa massa di disperazione, chiedendosi se è proprio finita l’era in cui il desiderio te lo andavi a cercare dal vivo, pedinando e rischiando sputi in faccia; ma nemmeno lui si sente immune dal meccanismo derealizzante – confrontandoli con le antiche foto (e disegni), i corpi delle sue brame si sono progressivamente espansi, gonfiati – il più recente sempre il più grosso.
La figura di Astore è alquanto complessa: un ragazzo prodigio, estremamente acuto e disilluso, che nei suoi vent’anni pensa e vive fuori dalla sua età e dal suo tempo. In che modo è riuscito a dare forma e materia all’atipicità di questo personaggio?
Astore è un ventenne e il suo personaggio mi ha portato per la prima volta a trattare il periodo dell’adolescenza, in quanto nei miei libri i giovani erano sempre stati dei bambini iper-intelligenti di massimo 8 o 9 anni. La questione più complicata è stata quella del linguaggio, in quanto nella prima stesura il vecchio e il giovane parlavano in modo troppo simile, per quanto Astore possa considerarsi un giovane vecchio in ragione della sua intelligenza superiore alla media. Ho dovuto documentarmi, ho parlato per molto tempo con i figli di miei conoscenti e con i loro amici, ho ascoltato le loro playlist musicali, ho imparato a giocare con un giovane gamer… La cosa che mi ha colpito è la rapidità con cui le generazioni si succedono: per questi ventenni, i trentenni sono già vecchi e tutto ciò che per me rappresentava il non plus ultra della novità e della modernità, per loro sono già cose passate.
Ersilia mormora come tra sé “la ragazza è molto giovane” ma Astore le risponde per consolarla: «Mica tanto giovane, nonna… usa ancora le faccine su WhatsApp… per dirmi che s’era scordata il mio regalo m’ha mandato (mimando) quella con gli occhietti e la bocca all’ingiù… e poi dice “cringe” credendo che sia una roba da pischelli, secondo me è sui trenta, almeno».
In questo romanzo il linguaggio si dirige verso una forma colloquiale, loquace, veloce, attuale, spiccatamente antiletteraria e antipoetica. Lo richiedeva questa narrazione in particolare o sente questo risultato più ampiamente come una ricerca affinata in anni di esperienza come scrittore?
Forse sono gli effetti di una scrittura senile e della mancanza di voglia di dimostrare ancora di sapere scrivere. Ma anche di osservazioni fatte come uditore, fra cui la grande quantità di termini inglesi a cui non ero abituato vent’anni fa, ma che oggi ormai sono talmente entrati nell’italiano corrente che vale la pena riprodurli, adottando la lingua usata nel tempo in cui si scrive. Infine ho l’impressione che tutti i ritmi si siano ormai velocizzati e quindi utilizzo frasi meno lunghe e meno poetiche, riducendo la quantità del lirismo e delle metafore a cui ricorrevo nei miei romanzi precedenti, rispetto ai quali ho quindi adottato un linguaggio più parlato.
«Se voi siete riusciti a liberarvi dalla fede in Dio, noi riusciremo a liberarci dalla fede nella realtà.»
«Noi a vent’anni…»
«Cheppalle!»
«A vent’anni volevamo cambiarla, la realtà… poi a trenta abbiamo capito che la rivoluzione non si poteva fare.»
«Noi l’abbiamo capito a cinque, di anni… della rivoluzione alla vostra maniera, frankly I don’t give a shit.»
Riferendomi al titolo del suo romanzo, I figli sono finiti, cosa pensa del fatto che i profondi e rapidi progressi della tecnologia contribuiscano a mettere in discussione la genitorialità non solo per la crescita e l’educazione, ma anche per la generazione stessa dei figli?
Dopo una serie di titoli sperimentali, quello definitivo è arrivato da una scena a cui ho assistito, poi riprodotta nel romanzo, nella quale un vecchio in un supermercato, accusato da una donna incinta di avergli rubato il posto in fila, la rimprovera rispondendole: “Lei pensa di avere dei diritti perché aspetta un figlio, ma non lo sa che i figli sono finiti?”. C’è inoltre la questione della popolazione dell’occidente in cui i figli stanno diminuendo e del progressivo appiattimento delle curve di crescita demografiche: più le società sono benestanti, meno bisogno c’è di far figli. Infine mi hanno colpito le recenti novità tecnico-scientifiche tramite cui si possono produrre ovociti e spermatozoi dalle cellule staminali rendendo tecnicamente possibile ottenere bambini; inoltre dalle cellule staminali femminili sembra si possano ottenere anche degli spermatozoi, dando così alla donna la possibilità di autofecondazione, senza più alcuna necessità della presenza del maschio per la generazione. Tutto ciò potrebbe non solo permettere di ottenere dei bambini senza bisogno che siano anche dei figli, ma anche potenzialmente condurci verso una sorta di scenario di eugenetica quasi para-nazista dove si possano decidere preventivamente le caratteristiche somatiche di ciascun bambino. Non è una bella prospettiva.
[…]la fecondazione tecnologica abolirà qualunque forma di razzismo sistemico; nessun diritto di sangue, nessun orgoglio di madre per il maschietto home made, al Gurdon Institute di Cambridge sono già molto avanti con gli ovuli e gli spermatozoi ottenuti da cellule staminali, solo nei Paesi sottosviluppati si faranno ancora bambini col vecchio sistema; quelli artificiali verranno immessi sul mercato da società private o pubbliche.